TACITO - pagani e cristiani - RISPOSTE QUESTIONARIO - QUALCHE SAGGIO

 Tacito

Ternano o gallico (si suppone della Gallia Narbonese, nell’attuale sud della Francia, ma poco o nulla è certo riguardo alla terra d'origine), nasce intorno al 55 d.C. da una famiglia probabilmente di condizione equestre. Studia a Roma e nel 78 sposa la figlia di Gneo Agricola, statista e generale di grande autorevolezza. Grazie al suo aiuto intraprende la carriera politica sotto Vespasiano, proseguendo con Tito e Domiziano e ricoprendo svariati incarichi anche in Gallia o in Germania;  nel 97, sotto Nerva, diviene  consul suffectus, sostituto di un console e, oratore già affermato, pronuncia l’elogio funebre del console al quale è subentrato. Sotto Traiano, insieme all’amico Plinio il Giovane, sostiene l'accusa di corruzione dei provinciali d’Africa contro il loro ex governatore Mario Prisco, che è condannato all’esilio. All’apice della carriera diviene proconsole d’Asia, nel 112,  e muore intorno al 117. Le opere storiche di Tacito si suddividono facilmente in due gruppi: quelle monografiche e quelle impostate su un ampio arco temporale. Al primo gruppo appartengono il De vita Iulii Agricolae, pubblicata nel 98, il De origine et situ Germanorum dello stesso anno, il  Dialogus de oratoribus, risalente a poco dopo il 100; al secondo le  Historiae in 12 o14 libri, scritte fra il 100 e il 110, gli Annales, 16 o 18 libri, forse incompiute per la morte dell’autore. Delle Historiae  abbiamo solo 1-4, parte del 5 e frammenti; degli Annales 1-4,  brevi parti del 5, il 6, parte dell’11, 12-15 e parte del 16. Da Historiae, Agricola, dal Dialogus  e da alcune lettere  di Plinio il Giovane apprendiamo notizie sulla vita e la carriera di Tacito. 

Parto da un testo considerato forse non tacitiano da alcuni studiosi. Si tratta del Dialogus de oratoribus¸ ambientato nel 75 o 77 d. C., modellato sui dialoghi ciceroniani dedicati ad argomenti filosofici e retorici: la discussione avviene a casa di Curiazio Materno, retore e tragediografo, e ha come protagonisti il medesimo, Marco Apro, Vipstano Messalla e Giulio Secondo.  Tacito dice di avervi assistito in gioventù. Al principio si contrappongono eloquenza (difesa da Apro) e poesia (difesa da Materno); l’arrivo di Messalla sposta l’attenzione sul tema della decadenza dell’oratoria. Per Messalla la causa è il deterioramento dell’educazione sia familiare sia scolastica (maestri impreparati, vacuità, superficialità). La tesi portante però è quella di Materno (che rappresenta Tacito): è la mancanza di libertà ad aver fatto decadere l’oratoria (la tesi reca con sé un’ambiguità: con libertà si intende la licentia, ossia una libertà eccessiva, prossima all’anarchia, che infatti aveva generato le guerre civili sanguinose alle quali l’instaurazione dell’impero aveva finalmente posto fine). Insomma, non bisogna essere nostalgici, dato che la pace sociale garantisce benessere, anche se non favorisce la nascita di grandi ingegni. Utile notare che per Seneca la corruzione dell’eloquenza sarebbe stata generata invece dalla corruzione morale; per Quintiliano, viceversa,  il cattivo maestro era proprio Seneca, che avrebbe avuto esattamente  i difetti che biasimava; in questo periodo molti accusano le scuole di retorica di essere distanti dalla realtà e di far svolgere esercizi astratti e fini a se stessi, trascurando la vita reale, politica e sociale. L’opinione di Materno coincide con la visione che insistentemente propone Tacito, anche se non si tratta dell’unica emergente nella sua ricostruzione storica: l’impero è una necessità indiscutibile, dimostrata dal fatto che abbia salvato dalle guerre civili. Lo stile del Dialogus è diverso da quello delle opere storiche: vi si nota una ricerca di  simmetria e equilibrio delle parti, in una parola, la concinnitas, opposta  dell’inconcinnitas rilevabile in  Annales  e Historiae

Quanto all’Agricola, non è un caso che la pubblicazione avvenga  all’inizio del regno di Traiano, in concomitanza con un recupero di libertà dopo il regime tirannico di Domiziano.  Agricola, suo suocero, è delineato da Tacito come  un esempio di leale funzionario imperiale, che incarna nel nuovo contesto istituzionale le virtù proprie del civis romanus, il quale si sente al servizio della societas, evitando il servilismo nei confronti dell’imperatore quando questi pretende un’obbedienza cieca, rifuggendo persino il genere dell’ambitiosa mors in stile stoico, per sottolineare come al centro del suo interesse vi sia l’utile pubblico, il bene della comunità. Tacito omaggia in lui, caduto in disgrazia presso Domiziano dopo anni di integerrimo servizio, la parte migliore e sana della classe dirigente, uomini che, privi del gusto del martirio, avevano servito diligentemente la dinastia flavia contribuendo a diffondere ottime pratiche politiche anche nelle province. Già nell’Agricola Tacito introduce digressioni etnografiche, che diventano l’asse portante della Germania. Il modello, oltre a scritti ellenistici, si rintraccia nell’opera di Cesare, che aveva tratteggiato i costumi dei Germani oltre a quelli dei Galli: probabilmente anche Sallustio e Livio, in parti perdute delle loro opere, lo avevano fatto. Tacito dipinge nella sua opera un popolo barbaro e rozzo ma pieno di energie vitali, non ancora corrotto dal lusso e dagli agi. Forti, liberi e numerosi, i Germani costituivano una seria minaccia per i Romani, indeboliti dal servilismo e dalla corruzione. Ovvio che Tacito colga anche lati deboli di questi popoli, inclini all’indolenza, facili a lasciarsi coinvolgere dalla passione per il gioco, dall’ubriachezza e dalla crudeltà gratuita. I barbari rientravano fra gli interessi strategici di Traiano, che aveva stanziato diverse legioni sui confini settentrionali, importanti per l’impero quanto quelli orientali fronteggiati dai Parti. L’espansione ancora possibile  era in effetti proprio in quella direzione. 

Scrive Tacito che è vizio peculiare di Stati piccoli e grandi ignorare il bene e provarne invidia. Di qui il rischio che si perda l’uso di mettere in luce le virtù delle grandi personalità, di rendere noto il loro valore attraverso la redazione di biografie. In epoche antiche e virtuose gli stessi soggetti, senza essere per questo sospettati di sovrabbondante vanagloria, provvedevano a farlo conoscere. Paradossalmente, conclude Tacito, visti i tempi, sente l’esigenza di scusarsi per quello che si accinge a fare, come se si trattasse di muovere pesanti accuse e non di tessere lodi. Questo spirito anima quella laudatio o encomio o elogio funebre che è sostanzialmente la biografia di Agricola. Da qui si diparte un filo rosso destinato a mantenersi anche attraverso le due più ampie sue opere storiche. Si tratta del filo rosso dell’apprezzamento di personalità in grado di mantenere intatta la propria virtus a dispetto degli eventi storici. Nel caso di Agricola, inoltre, a questo si aggiunge una sua peculiare buona sorte, per cui all’inizio della presentazione Tacito lo definisce felix, riconoscendogli di essere stato tale non solo per la nobiltà eccezionale della sua condotta esistenziale, ma anche per il fatto di essere morto in tempo. La tempestività alla quale allude è direttamente connessa con la vicenda politica oscura che lo vede coinvolto in un’infondata accusa da parte del princeps Domiziano. Sarebbe quindi morto in tempo perché l’innocenza dell’imperatore rimanesse intatta, ovvero egli non si macchiasse direttamente della sua uccisione; ciononostante anche Tacito lascia spazio a rumores secondo i quali egli sarebbe stato avvelenato dall’imperatore, geloso dei suoi successi militari nelle zone settentrionali dell’impero. In questa ultima parte Tacito dà ampio spazio ai topoi della laudatio funebris, in cui non solo viene celebrato il defunto, ma espresso anche il rammarico di chi, date le circostanze della sua morte in luoghi lontani, non ha potuto assistere ai suoi ultimi momenti e ascoltare le sue ultime parole. Una delle digressioni più interessanti contenute nell’Agricola è sicuramente quella sorta di  denuncia dell’imperialismo romano affidata al capo  dei Caledoni (stanziati nell’odierna Scozia), Calgaco.  Tacito compie un esercizio che potremmo definire di straniamento:  guarda  i Romani da un punto di vista esterno, giudica il loro operato e nello stesso tempo stabilisce con chiarezza i confini di un’opposizione culturale. Il discorso attribuito al capo dei Caledoni contiene un’orgogliosa rivendicazione di libertà. Liberi e isolati dal resto del mondo, complice la conformazione territoriale, lo stato di isolani, lontani dai confini dell’impero. Poi Calgaco rileva come i Romani siano oggettivamente più pericolosi di qualsiasi forza naturale, di qualsiasi presenza meravigliosa si sia soliti immaginare di là dai propri confini, quando non li si sia ancora valicati. I Romani infatti non si lasciano ammansire nemmeno dalla sottomissione dichiarata e dal rispetto. Sono raptores orbi, predatori del mondo, in tutte le sue forme, ricche o povere che siano: tutto è per loro fonte d’attrazione, tutto vogliono possedere. Nel barbaro Calgaco prende voce una radicale critica dell’imperialismo, ove se ne identifica la mascheratura ideologica: auferre, trucidare, rapere falsis nominibus imperium, atque ubi solitudinem faciunt pacem appellant. L’ipocrisia del potere induce a chiamare impero ciò che non è che rubare, trucidare, rapinare, e pace la desertificazione, devastazione, cancellazione dei luoghi in quanto territori abitati da popoli. I Caledoni, superiori numericamente ai legionari romani, furono sbaragliati, mentre scarse furono le perdite da parte romana. Le tesi anti imperialistiche circolavano già nel II secolo a. C. : nel 155 a. C. Carneade (scettico, ambasciatore degli Ateniesi a Roma) aveva sostenuto che i Romani si stavano impadronendo del mondo con la violenza; il discorso è riferito da Cicerone, che lo confuta nel III libro del De Republica. Anche Cesare, Sallustio e Livio avevano dato spazio alle “ragioni dei vinti”, il primo nel VII del De bello Gallico, nel discorso dell’Arverno Critognato, prima di essere definitivamente sconfitto. Sallustio aveva attribuito a Giugurta una visione dell’imperialismo romano come predatoria aggressività e analogamente si trova in Livio, che immagina Antioco, re di Siria, in corrispondenza epistolare con Prusia, re di Bitinia, sul medesimo argomento (il primo mette in guardia il secondo sulle intenzioni reali dei medesimi). In maniera molto chiara, nella monografia  Germania, Tacito si serve della rappresentazione dei barbari per richiamare l’attenzione sui costumi in decadenza della società romana. Ciò risulta particolarmente evidente quando il tema diviene, come in questo caso, l’organizzazione della famiglia e, in particolare, la fedeltà coniugale. Nella trattatistica tradizionale romana, la donna ideale era raffigurata come matrona univira, ossia fedele a un unico uomo, pudica nei costumi, amante della vita domestica, aliena a banchetti, spettacoli e feste, intenta ad attività come la tessitura. In contrapposizione a questo modello ideale, il tipo della donna mondana, dissoluta e traditrice,  alla quale dedica un ritratto fortemente critico Cicerone nell’orazione Pro Caelio, dove raffigura la sorella del tribuno Clodio, anch’essa Clodia, forse da identificare con la Lesbia di Catullo. Anche Sallustio aveva dipinto una donna di questo genere in Sempronia, corrispettivo femminile, quanto a corruzione, di Catilina. La storiografia moralistica, quindi, si serve di questi ritratti per suffragare e potenziare il discorso complessivo sulla decadenza della morale collettiva (in Tacito ricorrono ritratti di donne di potere dissolute, come Agrippina, Messalina e Poppea). Nel passo della Germania  dedicato al matrimonio presso i Germani, lo storico prima afferma che essi sono generalmente monogami, poi entra nei dettagli del rito matrimoniale: la dote veniva offerta dal marito (e non dalla moglie come per i Romani) ai parenti della donna  e consisteva in beni utili come animali da traino e da lavoro, o armature da combattimento. Si sofferma poi sui costumi delle donne, non use a frequentare banchetti o spettacoli e nemmeno a scambiare biglietti amorosi con amanti, dato che l’infedeltà è punita severamente e la donna che si macchi d’adulterio non trova certo più nessuno disposto a unirsi a lei. D’altronde le donne germaniche non sembrano desiderare altro che restare con il proprio marito e avere figli, del cui nutrimento e allevamento si occupano personalmente. Per quanto riguarda gli usi vigenti in Roma, in epoca repubblicana le donne che si sposavano una sola volta erano particolarmente rispettate, ed erano le uniche che potessero fare sacrifici sull’altare della Pudicitia plebeia: sotto Augusto, però, una legge consentiva alle vedove e alle divorziate di risposarsi, fino a che, in età imperiale, quello del divorzio iniziò a diventare un caso diffusissimo. Fra i topoi del moralismo romano c’era il biasimo per le donne che si rifiutavano di allattare i figli per paura di rovinarsi il seno e smettere di essere attraenti. I figli venivano in genere affidati a balie e nutrici, anche se medici e filosofi dell’epoca raccomandavano l’allattamento al seno. 

Da Historiae, L’inizio; La scelta del migliore

Tacito preannuncia nell’Agricola di voler realizzare una vasta opera storica, ricostruendo in particolare gli anni della tirannide di Domiziano e poi quella della recuperata libertà con Nerva e Traiano. Nelle Historiae però il progetto non è più quello: la parte rimastaci ricostruisce gli anni 69-70, regni di Galba, Otone, Vitellio, e l’insieme doveva estendersi fino alla morte di Domiziano nel 96. Nell’introduzione, Tacito scrive di voler riservare alla vecchiaia la narrazione storica degli anni di Nerva e Traiano. Viceversa, con gli Annales, spingerà il suo sguardo ancora più indietro nel tempo. 

Le Historiae  si aprono dunque con un annus longus et terribilis: si succedono quattro imperatori, oltre ai tre sopra elencati sale alla fine al potere Vespasiano, che rimarrà. Vitellio era stato eletto dalle legioni di stanza in Germania, Vespasiano da quelle d’oriente, Otone era il princeps di Roma. Quanto a Galba, Tacito lo descrive con un vecchio senza energie, circondato da sciagurati, il quale si atteggiava anacronisticamente a rappresentante dei valori repubblicani e aveva scelto erroneamente come successore un Pisone, un rigorista, contro il quale aveva avuto buon agio di imporsi l’ambizioso e potente Otone. A confronto con Galba, ben più abile sarà Nerva a scegliere come collaboratore e successore Traiano, capo militare autorevole, comandante delle legioni germaniche. Il I libro si apre, come vedremo,  con un discorso di Galba, attraverso il quale lo storico esplicita la sua stessa posizione ideologica: per riuscire a sventare complotti sanguinari, rispettando il principio della libertà senatoria quanto basta per non essere attaccati e nel contempo dando l’opportuno rilievo alle legioni, sempre più importanti viste le minacce esterne, non ci si può rifugiare nell’anacronistica esaltazione delle libertà senatorie, ma occorre piegarsi al realismo politico. Fondamentale, dunque, che l’imperatore sia rispettato dagli eserciti (come Traiano), capace di praticare una giusta severità e di fare in modo che non diventino essi l’ago della bilancia dell’impero. Proprio nel proemio delle Historiae palesa questa sua convinzione, ricordando come già Augusto avesse dimostrato con la sua ascesa il realizzarsi di una necessità storica: quella di concentrare il potere nelle mani di uno solo per mantenere la pace interna. Di conseguenza è analogamente indispensabile che il principe sappia scegliere il suo successore, dando per scontata la scelta del principato adottivo (e non ereditario). 

Nella parte iniziale, dunque, Tacito sviluppa un’ampia prefazione, in cui, dopo aver valutato negativamente la produzione storiografica di epoca imperiale, caratterizzata da cortigianeria o da cieca malevolenza, entrambe in contrasto con la ricerca della verità che dovrebbe sovrintendere il lavoro dello storico, promette di essere imparziale nei confronti tanto di chi non gli ha fatto nulla (Galba Otone Vitellio) tanto di chi lo ha beneficiato (i Flavi). Anche qui, come nell’Agricola, preannuncia ciò che non farà, ossia di scrivere dell’epoca di Nerva e Traiano, epoca rara felicitate. La scelta del migliore è il citato discorso di Galba. Da notare, in aggiunta a quanto già detto, la premessa ipotetica: “se l’immenso corpo dell’impero romano potesse reggersi e conservare l’equilibrio senza una persona che lo guidasse, io sarei stato degno – dice Galba – di far risorgere la repubblica. Ma da lungo tempo, ormai, si è venuti a questa necessità, e la mia vecchiaia non può offrire alla patria nulla di meglio che un buon successore”. Sostiene poi appunto il principio adottivo come quello in grado di garantire il riconoscimento del migliore. Evidente comunque che Tacito attribuisce a Galba parole, sul principato adottivo, che si addicevano ai tempi di Nerva e Traiano, non a quello di Galba e Pisone, dato che quest’ultimo era stato scelto dai consiglieri dell’anziano imperatore. 

Gli Annales rappresentano un altro reindirizzamento della ricerca storiografica di Tacito, che appunto decide di andare ancora più indietro nel tempo, dalla morte di Augusto a quella di Nerone. Si ritiene per questo ch’egli volesse ricollegarsi all’Ab Urbe condita di Livio, anch’egli comunque interrottosi per la morte prima di completare il progetto di raccontare tutto il principato augusteo (Livio muore nel 17 d. C., Augusto era morto nel 14). Le parti a noi giunte degli Annales contengono i fatti dalla morte di Augusto a quella di Tiberio nel 37 (lacuna dal 29 al 31) e i regni di Claudio dal 47 e Nerone (con lacune) fino al 66. Anche negli Annales Tacito sostiene la tesi della necessità storica del principato. L’opera è, ancor più delle Historiae, pervasa da uno spirito cupo, come se l’Autore stesse raccontando una tragedia, in cui i Cesari fanno la parte, con alcune sfumature, dei tiranni, il senato di un corpo sociale in decadenza politica e morale, mentre gli oppositori sono quasi sempre dipinti come aspiranti martiri, più desiderosi di mettere in mostra la proprie virtù che di contribuire al bene collettivo. Non a caso, nel descrivere la morte di Petronio, Tacito insiste sul capovolgimento ironico del modello filosofico del suicidio. L’inclinazione al tragico non va intesa solo come una specificità stilistica di Tacito, essendo anzi connaturata con la storiografia latina, sallustiana soprattutto. Si può in effetti ritenerla funzionale all’approfondimento dei caratteri dei personaggi, a una loro resa particolarmente realistica e vitale: i conflitti materiali si comprendono meglio attraverso lo scavo nelle personalità, dimostrando come alle vicende della storia collettiva rechino un contributo anche le interiorità di singole persone chiamate a interpretare parti di spicco sul palcoscenico della storia. Non solo le ambizioni, per far un esempio, ma anche le inclinazioni erotiche, le brame individuali incidono in scelte che la collettività subisce e che determinano svolte epocali. Non a caso negli Annales Tacito porta a perfezione l’arte del ritratto, nella quale si era già esercitato nelle opere precedenti: alcuni riconoscono il suo vertice nel ritratto di Tiberio,  che appartiene al genere cosiddetto indiretto. Non lo fornisce una volta per tutte, ma lascia che siano le azioni a dettagliarlo e a compierlo, dilatandosi sapientemente nell’arco della ricostruzione. Torvo e oscuro, taciturno e sospettoso, Tiberio è un principe machiavellico ante litteram, maestro nell’arte della simulazione e dissimulazione. Non manca allo storico un certo gusto compiaciuto per il dettaglio raccapricciante: la vecchiaia di Tiberio è inclemente con il suo corpo, segnato da cicatrici e disgustose enfiagioni. Nella Riflessione dello storico, collocata all’interno del IV libro, quando già  ha iniziato a narrare gli eventi del principato di Tiberio, Tacito si ritaglia uno spazio per ragionare sul proprio lavoro, in particolare sulla materia che si trova a trattare. Non avendo più a disposizione la tipologia di eventi di cui raccontavano gli storici dell’antichità romana, quelli che lui definisce i fasti del popolo romano (opere grandiose, conquiste di città, uccisioni e catture di re), ora si deve accontentare di un campo limitato, faticoso e senza gloria, precisamente di una pace immutabile o appena turbata, fatti dolorosi in Roma e un principe incurante di estendere i confini dell’impero. Sembra alludere qui  a una specie di stagnazione, a un periodo caratterizzato da monotonia, in cui mancano personalità di spicco, e lo stesso princeps non è interessato all’ingrandimento dell’impero. In verità l’intenzione profonda è fortemente moralistica: egli depreca che chi detiene il potere sia così tanto corrotto da non costituire più un esempio da seguire, ma un ammonimento a contemporanei e a posteri affinché imparino a difendersi dagli oltraggi che ne provengono e nel contempo non si esimano dal raccontare (nel caso in cui, come lui, esercitino la professione di storici) quanto accade, perché se ne possano ricavare utili indicazioni. Quando latiti la virtù, è la descrizione del vizio a poter essere sfruttata per tutelare la società, senza contare che in certi tempi la celebrazione della virtù può persino essere nociva a chi vi si dedichi, perché suscita l’invidia e il risentimento in chi non è in grado di praticarla. Si tratta quindi di un momento di riflessione dalla duplice valenza, volto a conferire dignità alla trattazione che definisce annali, suggerendo quello che ne diventerà la titolatura, per distinguerla dalla mera cronaca (tesi di Pierre Grimal).  Quello dell’incendio di Roma  è un evento ricostruito da varie cronache: la notte fra il 18 e il 19 luglio del 64 d.C. le fiamme distrussero interi quartieri della città, risparmiando solo zone sopraelevate. L’ultimo evento simile, in tempo di guerra contro i Galli, risaliva al 390 a.C. In alcune cronache pervenuteci viene riportata come valida l’indicazione come responsabile di Nerone. Si trattava in effetti di un vox populi, corroborata da una circostanza oggettiva: subito dopo l’incendio furono avviati i lavori di costruzione della Domus Aurea. Tacito non si pronuncia in merito, pur indicando la duplice opzione, che si tratti di un caso o di un incendio doloso. Gli interpreti contemporanei escludono una responsabilità imperiale. L’incendio è descritto molto realisticamente da Tacito, che sfiora soltanto l’argomento della colpa da parte dell’imperatore per passare a dettagliare come si sia propagato: dalle botteghe di sostanze combustibili nei pressi dei colli Palatino e Celio; assenza di muri e recenti, vie strette e tortuose rendono particolarmente veloce il diffondersi impetuoso del fuoco, che non dà scampo a una città popolosa, dove la gente inizia ad affollare le strade in maniera scomposta, fra le grida delle donne, lo smarrimento dei vecchi e dei bambini. Lo storico indugia su quanto accade agli esseri umani, che si aiutano, fuggono precipitosamente, ma qualsiasi comportamento scelgano sono comunque d’impaccio gli agli altri; così si sviluppano, in pochi istanti drammi di enormi dimensioni: persone che hanno perso tutto, i propri cari e i propri beni, che non desiderano nemmeno più salvarsi, e perirono nonostante si aprisse loro via di scampo.L’ultima immagine rappresentata è particolarmente inquietante: alcuni, muniti di fiaccole, le lanciano e gridano di star eseguendo ordini, altri proibiscono di spegnere le fiamme: chissà, commenta lo storico, che avessero davvero ricevuto quest'ordine da qualcuno o che fossero sciacalli che si predisponevano a saccheggiare le case ancora fumanti.  La persecuzione contro i cristiani si può porre in relazione con l’incendio, in quanto pare che Nerone la organizzi per mettere a tacere, o almeno placare, le voci che lo vogliono responsabile della devastazione appena patita dalla città: precisamente egli indica i cristiani come responsabili dell’incendio e li offre come capro espiatorio alla popolazione. L’operazione è facilitata dal fatto che essi non godano di una buona fama presso l’opinione pubblica. Nel passo Tacito elenca una serie di misure che vengono prese per affrontare la situazione (utilizza il verbo providere come si trattasse di comportamenti assunti a ragion veduta, assistiti da ragionevolezza): riti espiatori, consultazioni dei libri sibillini, pubbliche preghiere a varie divinità, cerimonie affidate alle matrone, aspersioni di statue nei templi, banchetti e veglie sacre. Niente però valeva a mettere a tacere le voci che si facevano sempre più convinte e convincenti sulla responsabilità di qualcuno così Nerone sceglie i capri espiatori: quelli che, scrive Tacito, la vox populi definiva cristiani, da Cristo, condannato a morte sotto Tiberio da Ponzio Pilato. Exitiabilis superstitio, la definisce Tacito, non concedendole considerazione e non dedicandole approfondimento, di là dal fatto di segnalarne la connessione con la Giudea, originem eius mali, e i comportamenti delittuosi, che iniziano a diffondersi anche a Roma (atrocia aut pudenda). Costoro quindi vengono arrestati, i primi per essersi professati tali, altri per denuncia estorta con torture: si condannano non per l’incendio ma per odio humani generis. Vengono sottoposti a supplizi terribili, rivestiti di pelli animali e dati in pasto a cani, oppure crocifissi e arsi vivi come torce da utilizzare come illuminazione notturna. Dal canto suo Nerone appare nelle vesti di istrione, auriga in mezzo alla plebe. Di qui, alla fine del resoconto, la pietà che sorge a dispetto della deprecazione culturale nei loro riguardi: commenta lo storico, si capisce come essi siano vittime sacrificate alla crudeltà di uno solo. Si torna così, circolarmente, a indicare quale unico responsabile, se non altro della distruzione morale della città, il medesimo Nerone. 

"Et haec quidem humanis consiliis providebantur.  Mox petita dis piacula aditique Sibyllae libri, ex quibus supplicatum Vulcano et Cereri Proserpinaeque ac propitiata Iuno per matronas, primum in Capitolio, deinde apud proximum mare, unde hausta aqua templum et simulacrum deae perspersum est; et sellisternia ac pervigilia celebravere feminae quibus mariti erant.  Sed non ope humana, non largitionibus principis aut deum placamentis decedebat infamia quin iussum incendium crederetur. Ergo abolendo rumori Nero subdidit reos et quaesitissimis poenis adfecit, quos per flagitia invisos vulgus Christianos appellabat. Auctor nominis eius Christus Tiberio imperitante per procuratorem Pontium Pilatum supplicio adfectus erat; repressaque in praesens exitiabilis superstitio rursum erumpebat, non modo per Iudaeam, originem eius mali, sed per urbem etiam quo cuncta undique atrocia aut pudenda confluunt celebranturque. Igitur primum correpti qui fatebantur, deinde indicio eorum multitudo ingens haud proinde in crimine incendii quam odio humani generis convicti sunt. Et pereuntibus addita ludibria, ut ferarum tergis contecti laniatu canum interirent, aut crucibus adfixi aut flammandi, atque ubi defecisset dies in usum nocturni luminis urerentur. Hortos suos ei spectaculo Nero obtulerat et circense ludicrum edebat, habitu aurigae permixtus plebi vel curriculo insistens. Unde quamquam adversus sontis et novissima exempla meritos miseratio oriebatur, tamquam non utilitate publica sed in saevitiam unius absumerentur."

L’incendio è ritenuto iussum, ordinato, voluto da qualcuno. E quell’immagine degli uomini con fiaccole accese, intenti a fermare chi cerca di spegnere il fuoco, o di rinnovarne le fiamme, sono abbastanza indicative di quanto i rumores in merito avessero trovato alimento nella memoria o nella suggestione. Poi fanno la loro comparsa i capri espiatori. Quelli che, sempre il volgo, presenza che s’aggira sulla scena del potere con una sua funzione specifica, chiamava cristiani. Sommaria la ricostruzione della loro storia, come si può fare con fatti contemporanei, rispetto ai quali la messa a fuoco è imprecisa. Galilea, confusione con gli Ebrei, come terra d’origine d’una specie di tabe, una malattia (mali), poi l’accusa infamante, di commettere atti infami, criminali (atrocia aut pudenda). Infine la squadratura più inquietante di tutte, riassunta in tre parole: odio humani generis.

Allora, entrando nel laboratorio dello storico: cosa può avere dettato a Tacito questa icastica rappresentazione del cristianesimo. Odiatori del genere umano. Occorre, per ricostruire,  fare un focus sul I secolo d. C. quanto alla diffusione del cristianesimo e al rapporto fra pagani e cristiani. 

Per cominciare, alcune precisazioni terminologiche. Il termine pagano appare per la prima volta in iscrizioni cristiane  dell’inizio del IV secolo e non entra mai nelle traduzioni latine della Bibbia, restando un termine colloquiale. Designava un civile o un contadino [abitante del pagus, villaggio]: erano pagani, nel lessico cristiano, coloro che non si erano arruolati nelle milizie di Cristo contro i poteri di Satana [battaglia celeste], restando civili. Il termine paganesimo è un’invenzione cristiana come giudaismo, designando un sistema dottrinale e un’ortodossia così come è concepita dalla religione cristiana. Tuttavia, per chiarezza storica, è bene precisare che la religione pagana non contemplava una professione di fede, ma consisteva in una serie di atti di culto, soprattutto offrendo vittime animali alle divinità. I giovani romani istruiti, non venivano esortati alla fede, dato che per chiunque fosse stato educato alla filosofia greca, la fede era il gradino più basso della conoscenza. Anche se i seguaci della dottrina platonica, nella seconda parte del III secolo d.C. iniziarono a rivalutare il termine fides, nessun gruppo di pagani si autodefinì mai fedeli. Analogamente non esisteva nessun concetto pagano di eresia (in assenza di una dottrina e di una fede non può esistere eresia). Per gli antichi la parola hairesis  significava scuola di pensiero, non dottrina falsa e perniciosa.  Era definita hairesis qualsiasi scuola di pensiero, anche di tipo medico (risulta negata solo agli scettici perché dubitavano di tutto, ma gli scettici si ribellavano a questo ostracismo). Tra i pagani, infine, il concetto di eterodossia era opposto a omodossia, che significa accordo, non a ortodossia (che significa unico credo accettato come vero). Queste distinzioni sono importanti per intendere a quale livello si sarebbe inizialmente svolto lo scontro fra pagani e cristiani: dato che per i pagani la loro religiosità si fondava su atti di culto del tutto collegati con la dimensione politica, la prova di appartenenza e obbedienza allo stato richiesta ai cristiani consisteva, nei processi,  in un atto di culto. Per i pagani si trattava di un’azione, che non richiedeva un’adesione fideistica (lo spirito con cui la si compiva era irrilevante, dal punto di vista giuridico). Si può anche introdurre una distinzione terminologica per noi che consenta di esprimersi su questo difficile argomento con un po’ più di chiarezza: distinguendo religione da religiosità. L’ebraica e la cristiana sono religioni in quanto si presentano in una forma strutturata e tendenzialmente uniforme, mentre quelle pagane sono religiosità che variano da regione a regione, da città a città, e con differenze significative ovviamente anche tra area greca e area romana (fino a quando questa distinzione  ha un senso storico, prima dell’ellenizzazione, ad esempio). Certo nel periodo imperiale, complice forse la diffusione del cristianesimo, si assiste a un certo ricompattarsi dei culti pagani (ma potrebbe essere una rappresentazione di nuovo frutto di una documentazione in gran parte proveniente da fonti cristiane). La maniera in cui si verifica questa ricompattazione è frequentemente il sincretismo, una forma di sovrapposizione di culti e di divinità che sembra mirare al riconoscimento di un dio unico (questo si avverte, ad esempio, anche nelle Metamorfosi di Apuleio, nella preghiera a Iside che il protagonista Lucio eleva nel libro XI, per ottenere il recupero della forma umana). 

All’inizio del  I secolo, dunque, entro i confini dell’impero appena divenuto augusteo e in cui ancora non ha iniziato a esistere il cristianesimo¸ si diffonde un nuovo culto prima di questo: il culto dell’imperatore Augusto, del pacificatore, di colui che, novello Saturno, ha restaurato l’età dell’oro. Quello di Augusto è propriamente un evangelion, un annuncio di bene, di pace di prosperità: il suo giorno natale, 23 settembre (del 63 a. C.) diviene un giorno sacro, da celebrare per decreto, come risulta da un’iscrizione del 9 a. C., un documento epigrafico bilingue pervenuto frammentariamente in varie copie (da S. Mazzarino, L’impero romano, vol. I). Poco prima che veda la luce l’evangelo cristiano, si diffonde quindi all’incirca nei medesimi territori questo evangelo, questa teologia imperiale, cosicché ancora due secoli dopo la morte di Augusto si rispetta il Feriale Duranum un elenco di giorni sacri, ufficialmente osservati dall’esercito romano, fra i quali emergono le ricorrenze di pubblici anniversari (oltre ad Augusto, ci sono ormai tutti gli imperatori, al primo imperatore non è più attribuita una funzione soteriologica come nei primi anni dell’impero). Quello di stato è quindi un evangelo troppo spezzettato e suddiviso per poter incidere nella coscienza collettiva come quello fondamentale, in grado di porsi proprio a fondamento di una rivoluzione spirituale. Che il mondo romano-ellenistico fosse alla ricerca di una simile rivoluzione è peraltro sostenibile ad esempio pensando a quanto i culti misterici si stessero diffondendo, a come si moltiplicassero e conquistassero ingenti masse della popolazione: il culto di Mitra, Serapide, Osiride, Attis, Iside, Dioniso. Ad accomunarli una forte componente ritualistica e la segretezza, per cui gli adepti e gli iniziati erano tenuti a mantenere un rigoroso silenzio sulle pratiche e sui contenuti specifici della dottrina. Su questo punto è interessante rilevare il contrasto rispetto a Cristiani e Ebrei: questi ultimi contrapponevano alla segretezza dei misteri i loro fatti storici,  una rivelazione basata su testi detti sacri da contrapporre ai miti dei culti misterici. Il popolo Ebraico, peraltro, era stato l’unico, nell’insieme di quelli toccati dalla conquista romana, rimasto estraneo all’ideologia del culto imperiale. Il popolo giudaico volgeva in senso messianico la sua attesa soteriologica, sempre inesausta, culminando nell’attesa di un Figlio dell’Uomo che sarebbe apparso alla fine dei tempi come Messia. Anche il giudaismo, peraltro, subisce contaminazioni, in particolare da parte iranica: resurrezione dei corpi, dualismo fra male e bene. Lo storico Flavio Giuseppe (nato un ventennio  prima  di Tacito, scrive tutte le sue opere in greco) parlerà delle  filosofie  degli ebrei, indicando come preminenti su tutte, la filosofia dei farisei (rispetto della Thora, sicurezza di una vita futura con distinzione fra buoni e cattivi) e quella dei Sadducei (epicurei del giudaismo, negavano vita futura e resurrezione dei corpi). In questo ambiente, anch’esso quindi  variegato, si colloca la predicazione di Gesù detto il Cristo, a noi noto per centinaia d’anni di ricerca storica soprattutto attraverso testi neotestamentari cristiani e attraverso il citato Flavio Giuseppe, che peraltro lo ha citato solo occasionalmente. Solo dopo la scoperta dei Manoscritti del Mar Morto nel 1947 possiamo intendere il problema della Palestina ai tempi di Cristo. Essi  furono redatti da quella che Flavio Giuseppe avrebbe definito una setta giudaica, detta Nuova Alleanza, che già dal nome ricorda il concetto neotestamentario della  nuova alleanza nel sangue di Cristo. Il nuovo evangelio di cui parla questa nuova setta è fondato sull’annuncio del regno di Dio. Lo stesso tema riprende il predicatore Paolo, l’apostolo autore degli  Atti degli apostoli, che nel 51 d. C., nella seconda lettera ai Tessalonicesi, propone il più interessante documento per quanto concerne la concezione della storia imperiale. In questo testo l’apostolo dipinge un protagonista della storia, uno che definisce antikeimenos, ossia colui che si oppone a Dio, che si siede nel tempio del Dio mostrando se stesso come Dio. Costui è l’imperatore Caligola, che aveva fatto collocare la sua statua nel tempio di Gerusalemme, presentato anche per questo come un anticristo ante litteram, dato che la letteratura apocalittica cristiana si definisce successivamente e successivamente introduce questo soggetto. A ostacolare ancora l’avvento finale del nuovo regno è però qualcosa, che Paolo non identifica chiaramente nella lettera, ma è forse un evento storico: potrebbero essere gli ebrei che eroicamente si oppongono all’impero romano, impedendo che la manifestazione dell’antikeimenos arrivi alle sue estreme conseguenze. Si capisce che in questa fase il tempio di Gerusalemme sia, per i cristiani come per i giudei, un centro spirituale insostituibile, ma basta lasciare passare un secolo perché questa unità (supposta, forse) lasci spazio a ben altro: nella lettera di Barnaba del II secolo l’anticristo è un giudeo. Quando Paolo scriveva la sua pagina sull’antikeimenos, verso il 51, si era comunque già verificato un conflitto fra lo stato romano e un’intera comunità cristiana, quella di Roma: Claudio era amico dei Giudei (ai Giudei alessandrini confermò la cittadinanza di Alessandria e altri privilegi, condannando i loro persecutori), ma come imperatore era preoccupato dal mantenimento dell’ordine in tutto l’impero, voleva evitare tumulti di carattere religioso, così nel  44, alla morte di Erode Agrippa suo amico, affidò all’amministrazione romana tutto il suo territorio, nel timore che il figlio troppo giovane di lui, Agrippa II, non tenesse a bada quei territori tumultuosi.  Tornando dunque a Roma e alla contrapposizione tra giudei-cristiani e l’imperatore Claudio, già nel 41, all’inizio del suo regno, questi emanò un editto che proibiva ai Giudei di raccogliersi insieme (non è facile per noi capire cosa intendesse, l’editto è citato dallo storico del II sec. d. C. Cassio Dione che non spiega di più), ma è nel 49 che compie un passo decisivo, cacciando da Roma tutti i Giudei: gli storici, primo fra tutti Svetonio (operante a cavallo tra  I-II secolo, coevo di Tacito), non riportano la motivazione precisa, ma riferiscono di una generica accusa (spesso tumultuavano sotto la spinta di un Chrestus, impulsore Chresto tumultuantes). La notizia fa fede di un fraintendimento che pochi anni dopo, ai tempi di Nerone, sembrerebbe eliminato: quello secondo cui un Chresto sobillatore avrebbe guidato i Giudei. Resta quindi complicato capire se il provvedimento di Claudio fosse antigiudaico o anticristiano: le fonti dell’epoca, su questo, sono divise: le fonti giudaiche non lo considerano contro i Giudei, le fonti cristiane non lo giudicano contro i cristiani. Gli storici moderni  (Mazzarino per primo) lo annoverano tra i primi provvedimenti anticristiani, e quando Nerone avvierà la sua persecuzione, anche grazie ai distinguo ripetuti dai cristiani medesimi, essa sarà chiaramente rivolta solo contro i cristiani. Nel frattempo, comunque, si diffonde e si precisa la predicazione del citato apostolo Paolo, il quale, tra l’altro, insiste su un punto, che ricava da un passaggio dei Vangeli sinottici (particolarmente Matteo) in cui risuona il monito restituite a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio. Una possibile controversia interpretativa è attivata da restituite (non date), che potrebbe semplicemente alludere al fatto che, recando impressa, le monete, la figura dell’imperatore, che di fatto era colui al quale risaliva il diritto incondiviso di coniarle, esse dovessero essere debitamente restituite a lui. Viceversa l’intendimento prevalente e diffuso divenne quello secondo cui Paolo avrebbe sfruttato il passo evangelico per diffondere tra le comunità cristiane l’obbedienza allo stato romano, accompagnando questa indicazione con un’altra, ancora più cogente, riassumibile nel motto ogni autorità viene da Dio. Per il civis romanus Paolo lo stato romano è la via di conservazione delle forme giuridiche, nelle quali consistono le buone opere (Lettera ai Romani): Paolo, che rivolge simili ammonimenti proprio alla comunità romana e dopo gli editti di Claudio, vuole evidentemente impedire che la predicazione cristiana dia luogo a tumulti contro lo stato. L’apostolo, peraltro, aveva sperimentato la violenza del potere romano in svariate occasioni (subì tre fustigazioni in occasione di arresti durante viaggi missionari, come risulta da testimonianza sua), eppure evidentemente intendeva diffondere l’idea che il potere romano potesse essere un alleato per le buone opere o aveva la speranza che il potere in questione si ravvedesse e accogliesse il messaggio evangelico. Tale speranza andò comunque delusa: morì, probabilmente decapitato, durante la persecuzione neroniana di cui riporta notizia Tacito. A lui quindi ritorno, per la domanda originaria con cui ho dato inizio al discorso. Perché odiatori del genere umano nella rappresentazione datane. Possibile che in questa definizione si riassuma la percezione di un’assoluta alterità culturale. I cristiani apparivano, agli intellettuali del I secolo (ma a lungo anche in seguito), avversi al sistema di valori sui quali si edificava la loro esistenza. In questo senso ristretto, quindi, odiatori del genere umano, perché rifiutavano ciò che del genere umano apprezzavano persone abituate a considerare la vita terrena come l’occasione unica per esprimere se stessi e il proprio valore individuale e collettivo. Sotto questo profilo le due culture si differenziano totalmente anche per quanto riguarda la discussa attesa soteriologica: la salvezza desiderata essendo per i pagani realizzabile e realizzata nell’hic et nunc, per i cristiani procrastinata nella dimensione ultraterrena. Ovviamente questo intendimento ha un limite evidente: quello della sovrapposizione culturale prodotta dal tempo. Non a caso di cristiani odiatori del genere umano tratta Nietzsche nel suo saggio L’anticristo

Non bisogna abbellire né adornare il cristianesimo. Ha sostenuto una «guerra a morte» contro questo tipo superiore di uomo, ha censurato tutti gli istinti fondamentali di questo tipo, ha distillato da questi istinti il male: ha preso l’uomo forte come tipo del «reprobo», «l’uomo reprobo». Il cristianesimo ha difeso tutto ciò che è debole, basso, fallito, ha fatto un ideale della «opposizione» agli istinti di conservazione della vita sana; ha corrotto perfino la ragione delle nature più intellettualmente poderose, insegnando che i valori superiori dell’intellettualità non sono che peccati, vizî, «tentazioni». L’esempio più lamentevole è la corruzione di Pascal, che credeva nella perversione della sua ragione per opera del peccato originale, mentre era pervertita solo per opera del suo cristianesimo.(L’Anticristo, cap. V)

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2) In che cosa consiste e come si esprime il realismo di Tacito nei riguardi della politica del suo tempo?

Il realismo di Tacito si manifesta a partire dal suo sentimento di nostalgia provato nei riguardi di alcuni aspetti della res publica. Egli sostiene che i tempi hanno seguito una direzione diversa e che la libertà, precedentemente garantita durante l'epoca repubblicana, sia degenerata in licentia, vale a dire eccessiva libertà e sfrenatezza. Per porre fine a questa situazione e alle guerre civili che ne sono derivate (poco prima dell’avvento al potere di Ottaviano Augusto), l'unica soluzione è l'istituzione di un forte potere centralizzato contro coloro che, invece, vorrebbero ripristinare la repubblica. Durante l'epoca in cui vigeva il sistema della libertas, quando c'era un senso condiviso di libertà e servitium, un regime repubblicano era adeguato; tuttavia, con il declino di tali principi e l'ascesa della licentia, è diventato necessario il consolidamento del potere attraverso la figura dell'imperatore, in quanto, come espresso anche nel De clementia di Seneca, la virtù del governatore, che ha il potere assoluto, può trovare solo in sé  il proprio limite.

3) In che cosa consiste una biografia encomiastica? Entra nei dettagli di quella che Tacito dedica al suocero Agricola.

Il termine biografia encomiastica si riferisce ad una biografia scritta con intenzioni laudative, ovvero al fine di elogiare o esaltare il soggetto trattato, enfatizzandone gli aspetti positivi, le virtù, le realizzazioni e le qualità ammirabili.

Il primo scritto di Tacito, intitolato De vita Iulii Agricolae, è proprio una biografia encomiastica, composta e pubblicata tra la fine del 97 e l'inizio del 98. All’interno dei primi tre capitoli l’autore inserisce un'ampia prefazione, utile a presentare l'opera ed a delinearsi come scrittore, chiarendo la propria posizione nei confronti del passato regime ed esponendo i suoi programmi storiografici. Egli propone diversi temi, tra cui l'incolmabile distanza tra presente e passato e tra sé e gli scrittori antichi, inoltre ricorda con sdegno le conseguenze tragiche che l'elogio di due fieri oppositori del principato aveva avuto per gli autori, perseguitati ed eliminati da Domiziano, e per le opere stesse, bruciate sulla pubblica piazza. Successivamente, Tacito parla del regime dell'ultimo imperatore Flavio, caratterizzato da diversi eventi: la soppressione della libertas, la messa al bando dei filosofi, il controllo poliziesco sulle persone, così come sulle loro parole, e il soffocamento di ogni nobile attività letteraria e culturale. Si torna a vivere solamente con la morte del tiranno e la salita al trono di Nerva, il quale ha saputo unire principato e libertà, ma, nonostante ciò, l’autore parla di quanto sia complicato risuscitare l'attività degli ingegni dopo un tale periodo, poiché i rimedi agiscono più lentamente dei mali. Tacito, però, approfitta della situazione per celebrare la figura di un uomo accorto e prudente, che ha attivamente collaborato con i principi, sia buoni che cattivi: la sua obbedienza e disciplina gli permettono di ottenere l'importante carica di governatore della Britannia, assegnatagli da Domiziano. Quest’uomo è Agricola, suo suocero, e poiché potrebbe essere accusato di opportunismo, Tacito utilizza due strategie per difenderlo. In primo luogo, egli è una delle vittime innocenti di Domiziano ed insiste sulla pericolosa gelosia che i successi militari di Agricola avrebbero suscitato nel principe, inoltre, ascoltando tutte le voci che confermerebbero l’ostilità di Domiziano, ve n’è una riguardante la morte di Agricola, che pare essere stata causata da un veleno fattogli somministrare dall'imperatore. In secondo luogo, afferma che di fronte all’opzione di scegliere tra opporsi ostinatamente ad un governo malvagio oppure accettare di collaborarvi, tollerando soprusi, Tacito opterebbe, senza pensarci troppo, per la seconda alternativa, difendendola apertamente. L’intera opera è, infatti, percorsa da una polemica sottile e quasi sempre indiretta contro gli oppositori e coloro che li esaltano, in particolare è rinfacciata agli eroi stoici l’inclinazione a cercare a tutti i costi la bella morte che non produce nessun effettivo cambiamento e può trasformarsi in puro e semplice esibizionismo. 

4.                  Dopo aver definito il genere monografico, descrivi i contenuti della Germania.

Il termine monografico si riferisce ad un genere letterario o accademico che tratta in modo approfondito e dettagliato un singolo soggetto, argomento o questione specifica. 

Nel 98 d.C. Tacito pubblica il suo secondo scritto, intitolato Germania, o meglio De origine et situ Germanorum. Essa è l’unica opera monografica di carattere etnografico conservata dalla classicità latina. Composto di 46 capitoli, è diviso in due parti: nella prima l’autore descrive la Germania transrenana e i suoi abitanti, nella seconda racconta in maniera più specifica delle singole popolazioni e delle loro peculiarità. Dopo aver illustrato i confini della regione, inizia a tracciare le caratteristiche fisiche dei Germani e i loro mores, ovvero gli aspetti culturali della società. Nella seconda parte, invece, espone le istituzioni delle singole tribù, alcune solo nominandole, altre soffermandosi di più,  descrivendone condizioni di vita e costumi. La narrazione parte dalla descrizione delle tribù occidentali, per poi passare a quelle settentrionali ed orientali, concludendo, infine, l’opera con un capitolo riguardante le popolazioni nomadi a est della Vistola, che Tacito è indeciso se associare alla razza germanica o a quella dei Sarmati. Nel finale, però, l’autore interrompe bruscamente il racconto, affermando che tali notizie non sono verificabili, perciò decide di lasciarle in sospeso. Le sue fonti sono sia letterarie, come il De bello Gallico di Cesare e l’opera di Plinio il Vecchio, ma anche orali, ovvero sono testimonianze dirette di soldati, mercanti e prigionieri di guerra. In quest’opera Tacito manifesta un atteggiamento ambivalente: da un lato prova una sincera ammirazione per i costumi semplici e per la sanità morale dei barbari, dall’altro affiora, soprattutto nella seconda parte dell’opera, un atteggiamento di superiorità e disprezzo nei loro confronti, a causa dei loro sistemi di vita ancora piuttosto arretrati e primitivi, come l’incapacità di coalizzarsi stabilmente contro un nemico comune, che, secondo l’autore, è il più grave difetto dei Germani. Questa discordia, però, è un vantaggio per i Romani, che in tal modo riescono a tenerli sotto controllo, poiché se quelle popolazioni superassero le loro divergenze, sarebbero in grado di distruggere Roma.

5.                  Riassumi la questione della decadenza dell’oratoria come risulta impostata nel Dialogus de oratoribus pseudotacitiano.

Il Dialogus de oratoribus (Dialogo sugli oratori), probabilmente composto nel 102, è dedicato al tema della decadenza dell’oratoria e si distingue dalle altre opere tacitiane sia per il genere letterario, ma soprattutto perché considerata un’opera pseudotacitiana, in quanto l’attribuzione all’autore è stata ed è tuttora oggetto di discussione. Quest’opera, ambientata nel 75, tratta il tema de causis corruptae eloquentiae, già precedentemente dibattuto da Quintiliano, Seneca Padre e Petronio. Grazie alla sua forma di dialogo, Tacito può presentare e confrontare opinioni differenti, allargando la discussione ad altre questioni di interesse letterario. L’autore riferisce alcuni discorsi che afferma di aver ascoltato da parte di uomini a quei tempi considerati particolarmente eloquenti, ovvero tra Marco Apro e Giulio Secondo, due noti avvocati, che si recano da Curiazio Materno, senatore e oratore che ha da poco abbandonato l’oratoria per dedicarsi alla poesia tragica. Il dialogo inizia con Apro che rimprovera Materno di trascurare l’attività di oratore e avvocato, dunque, vi è un confronto tra oratoria e poesia, difese ed elogiate rispettivamente da Apro e Materno. A creare una breve pausa è l’arrivo di un quarto interlocutore, Vipstano Messalla, che imposta la questione centrale: i motivi delle differenze tra l’oratoria antica e quella moderna. Il primo ad intervenire è Apro, il quale pensa che nell’età contemporanea non vi sia decadenza, bensì evoluzione e trasformazione, contrariamente Messalla sostiene la tesi della decadenza dell’oratoria contemporanea, attribuendone la responsabilità alla negligenza dei genitori nell’educare i figli, al livello scadente delle scuole e alla futilità dei temi delle declamazioni. La parte restante dell’opera è occupata dall’intervento di Materno, che propone una causa diversa al declino dell’oratoria, quella politica: la causa più profonda e vera del declino dell’eloquenza è la perdita della libertà politica, stimolata in epoca repubblicana e totalmente assente durante il dominio della dinastia Flavia. Tuttavia, Materno esprime una pacata e positiva accettazione di tale realtà, affermando che la grande eloquenza è figlia dell’indisciplina che gli sciocchi chiamano libertà; essa non si sviluppa negli Stati pacifici e ben ordinati, perché in essi i migliori raggiungono subito l’accordo e le decisioni politiche non sono lasciate in balia di una folla ignorante, ma sono prese dal più saggio.

6.                  Tacito enuncia il suo programma come storico nei proemi delle sue opere storiche: delinealo nelle sue linee generali.

Tacito, nei proemi delle sue opere, accetta e rivendica le norme, in particolare i fondamentali principi della veridicità e dell’imparzialità, appartenenti alla tradizione storiografica che, da tempo, aveva elaborato le regole e gli schemi del genere e aveva avuto come illustri rappresentanti Sallustio e Livio. Il suo obiettivo è, pertanto, quello di indagare e ricostruire il vero, attraverso una raccolta di informazioni e notizie, testimonianze orali e fonti documentate, confrontate dallo stesso autore. Tacito rivendica, quindi, una posizione di neutralità ideologica, presentando più interpretazioni dello stesso fatto, senza prendere apertamente una posizione. Il suo metodo di inserire tutte le versioni insieme, conferendo rilievo a determinati elementi ed a scapito di altri, finisce così per creare un racconto ambiguo, che, nonostante non alteri i fatti, forza implicitamente l’interpretazione del lettore verso una determinata direzione. Inoltre, Tacito si avvale del diritto-dovere, rivendicato dagli storici antichi, di valutare gli eventi, per cui gli è consentito formulare severi giudizi, facendo trapelare un atteggiamento ostile nei confronti degli imperatori e una concezione profondamente pessimistica della natura umana.

7.                  Sine ira et studio: a quale proponimento si riferisce questa espressione?

L’espressione sine ira et studio, è posta al principio degli Annales di Tacito, autore che intende raccontare i fatti senza animosità né simpatia, distanziandosi, quindi, dai suoi predecessori attivi dopo l’instaurazione del principato, alcuni dei quali hanno modificato la verità col fine di adulare il princeps, altri poichè desideravano opporsi alla forma monarchica. Tacito promette di rimanere imparziale all’interno della sua documentazione storica e obiettivo nei confronti degli eventi che intende narrare. Sine ira et studio è una celebre espressione utilizzata anche al giorno d’oggi per definire un’azione caratterizzata da imparzialità e compiuta senza eccessivo coinvolgimento emotivo.

8) Descrivi i contenuti degli Annales e delle Historiae, precisando anche quali siano le parti di ciascuna opera a noi pervenute.

Gli Annales e le Historiae sono le due più grandi opere storiche di Tacito. La prima opera è dedicata alla dinastia dei Flavi, dunque, nonostante sia stata scritta dopo le Historiae, essa racconta degli eventi avvenuti tra il 69 e il 96, mentre la seconda opera parla del periodo della dinastia giulio-claudia, dalla morte di Giulio (14) alla morte di Nerone (68). Entrambe le opere hanno uno schema di tipo annalistico tradizionale e sono pervenute a noi solo in parte: le Historiae comprendevano molto probabilmente quattordici libri, dei quali possediamo solo i primi quattro e una parte del quinto, per quanto riguarda gli Annales, essi erano sedici libri, dei quali sono rimasti solamente i primi sei e dall’undicesimo al sedicesimo. 

Gli Annales si aprono con una prefazione contenente un sommario di storia costituzionale romana e un nuovo giudizio di condanna nei confronti degli storici del principato e delle loro opere, poiché eccessivamente compromesse o dall’adulazione o dall’odio. Tacito inizia dedicando una concisa sezione ad Augusto, per poi narrare, nei primi sei libri, del principato di Tiberio. In particolare si dedica al descrivere il processo di trasformazione dell’imperatore in un tiranno, ponendo accanto ad egli diverse figure di spicco che, indirettamente, mettono in risalto il suo carattere indecifrabile: nei primi due libri si tratta di Germanico, figlio adottivo di Tiberio, che, sedando gravi rivolte militari, suscita astio e gelosia nell’imperatore (alcune voci dicono che la sua morte sia avvenuta a causa di un avvelenamento, di cui, probabilmente, è responsabile Tiberio); dal quarto al sesto libro vi è la figura di Seiano, prefetto del pretorio di Tiberio, un individuo malvagio, corrotto e pericoloso. Nell’undicesimo e dodicesimo libro, Tacito racconta del regno di Claudio (47-54), imperatore debole e incapace, che non presenta alcuna evoluzione, viene dominato da liberti e mogli e ciò che maggiormente spicca sono le sue travagliate vicende familiari più che i suoi atti di governo numerosi e positivi. Nei libri dal tredicesimo al sedicesimo Tacito si sofferma sul principato di Nerone (54-68) e sul progressivo svelarsi della sua natura malvagia, fino alla degenerazione in tiranno e ad una serie terribile di delitti, tra cui quello della madre Agrippina, che toglie ogni freno alla degenerazione dei costumi privati dell’imperatore. La svolta politica del regno avviene nel 62, in relazione con la morte di Afranio Burro, il ritiro di Seneca e l’ascesa del nuovo prefetto del pretorio, Tigellino. Da questo momento l’eliminazione degli oppositori diventa pratica consueta, fino a quando nel 65 viene organizzata una vasta congiura da Gaio Calpurnio Pisone, sventata dal tradimento di un servo.

Le Historiae si aprono con una prefazione nella quale l’autore critica gli storici del principato, poiché inaffidabili, e si prefigge di attuare una nuova storiografia, più onesta e obiettiva. Tacito inizia esponendo l’argomento che tratterà, sottolineandone l’eccezionalità e accentuandone gli aspetti negativi. Nei primi tre libri l’autore offre una rapida panoramica della situazione di Roma e delle provincie all’inizio del 69, per individuare i fattori di crisi che portarono alla guerra civile, che, successivamente, viene descritta. Nel quarto libro narra del consolidamento a Roma del regime Flavio e della rivolta dei Batavi in Germania. Nella parte a noi pervenuta del quinto libro, si narrano i preparativi per l’assedio di Gerusalemme, avvenuto nel 70 da parte di Tito, poi viene fatto un excursus etnografico sui Giudei, animato dall’ostilità nei loro confronti.

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Filippo C.

NERO

Io sono un intrattenitore, l’impero un enorme spettacolo

 

Publio Cornelio Tacito, uno storico romano del I/II secolo d.C., dedicò parte della sua attività storiografica alla prima dinastia imperiale romana, quella Giulio-Claudia, nei suoi Annales

L’autore, nel rappresentare cronologicamente il regno di ogni sovrano, descrive come il potere assoluto abbia corrotto gradualmente, ma inesorabilmente, ogni princeps. I primi sei dei sedici libri di cui è composta l’opera sono dedicati a Tiberio. Il regno del secondo imperatore viene identificato dallo storico come una svolta autoritaria nell’organizzazione politica romana, attraverso il graduale affioramento dell’anima malvagia del sovrano.

Il regno di Claudio viene invece ricostruito nel XI e XII libro. Tacito lo delinea come un debole, dominato dalle donne e dai liberti, pur ammettendo i suoi numerosi e positivi atti di governo. La degenerazione del potere raggiunge, però, il suo apice con Nerone, la cui nomina a imperatore è descritta nella conclusione del XII libro. 

 

Dopo la morte dell’imperatore Claudio, voluta da Agrippina, la madre di Nerone, il prefetto del pretorio Burro scorta il giovane futuro imperatore al Senato per ratificarne la nomina a princeps. Tra la folla, che avrebbe dovuto incontrare prima di presentarsi  davanti ai patres conscripti, le reazioni sono tuttavia eterogenee. C’è  chi lo acclama senza esitazioni, ma anche chi si mostra incerto, dubitando della legittimità della presenza del figliastro di Claudio, e non del figlio legittimo, Britannico. Ma dato che nessuno pare opporsi, anche i recalcitranti  finiscono con l’applaudirlo. Il giovane si premura di fare promesse all’esercito, che lo nomina suo imperatore. I politici si attengono  dunque alla volontà dei soldati e non si verificano  rivolte nelle provincie dell’impero.

Claudio ottiene   l’apoteosi e trattamenti simili a quelli di Augusto. Tuttavia il suo testamento non viene aperto per paura della reazione del popolo: il potere sarebbe dovuto andare al legittimo figlio dell’imperatore.

Durante i funerali, come era tradizione, Nerone tiene un discorso di elogio al suo predecessore davanti al Senato. Tuttavia, date le scarse abilità oratorie del giovane, il discorso della corona viene  scritto da Seneca. Il testo si sofferma sulla nobiltà e sui trionfi della dinastia regnante e viene ascoltato in silenzio dagli astanti. Anche quando l’attenzione viene spostata sulla cultura del defunto e sulla prosperità presente sotto il suo regno, tutti rimangono seri. Ma quando Nerone accenna alla saggezza del suo patrigno, tutti scoppiano a ridere, a dispetto dell’austerità della situazione. I più anziani notano inoltre che Nerone era  il primo princeps a non essere in grado di scriversi un discorso da sé. 

Quella che precede è la riproduzione della  scena, teatrale e drammatica, dipinta nel XII libro degli Annales tacitiani, da cui  si possono capire le premesse del regno di Nerone. Egli è un ragazzo di diciassette anni, accolto da taluni come un sovrano illegittimo. L’imperium, infatti, sarebbe dovuto andare al suo fratellastro Britannico, il vero figlio di Claudio e suo erede. Come se non bastasse, durante i suoi primi giorni da sovrano, viene deriso e sminuito. Ciò pare creare un senso di inferiorità nel cuore dell’adolescente che sfocerà, con l’andar del tempo, in un megalomania, una possibile reazione a tale senso di minorità.

Nel XIII libro, Tacito si sofferma a narrare uno dei primi assassini politici avvenuti sotto Nerone, quello del giovane Britannico. Egli, come già accennato, era il legittimo figlio di Claudio, e per ciò stesso un pericoloso antagonista nella conquista del potere imperiale. Questa sua rilevanza politica viene  usata da Agrippina per instillare paura nel cuore dell’imperatore e tenerlo a bada. Infatti ella era solita affermare che avrebbe sempre potuto appoggiare il giovane fratellastro durante le discussioni con suo figlio. Britannico, insomma, è  una potentissima arma di ricatto.

Nei primi anni del suo regno, Nerone è turbato dai contrasti con sua madre, e la sua mente vaga spesso dall’autorità di lei all’indole di Britannico, che in un episodio senza importanza si è guadagnato larghe simpatie a scapito del princeps

Tale evento si svolge durante i primi Saturnali, una festa simile all’odierno carnevale, dalla nomina a imperatore di Nerone. Come da tradizione, gli adolescenti della corte si riuniscono e per gioco eleggono un re tra i presenti. Il caso vuole che Nerone stesso sia nominato sovrano. A tutti ordina di compiere azioni oneste. A Britannico, invece,  di intonare un canto stando ritto davanti a tutti con lo scopo di umiliarlo. Egli, però, con dignità, canta in mezzo agli altri. Canta della fine del regno di Nerone e della sua illegittimità, manifestandosi agli occhi dell’imperatore  consapevole del pericolo che rappresenta per il sovrano. Nessuno lo deride e tutti lo commiserano, nel modo più sincero possibile dato che la baldoria aveva bandito qualsiasi tipo di dissimulazione. Il princeps si rende conto di quanto sia stato odioso il suo atto, il che aumenta ancora di più il suo astio nei confronti del fratellastro. Inoltre, le minacce della madre non accennano a diminuire, e Nerone non osa ordinare apertamente la morte di Britannico. Decide allora di avvelenarlo durante un banchetto. Una volta ingerito il veleno, Britannico si accascia quasi immediatamente. I meno accorti, di fronte a ciò che sta succedendo scappano impauriti, gli altri si girano verso il princeps, l’ovvio mandante dell’assassinio.  Ma egli, del tutto indifferente, dice che  doveva essere un attacco di epilessia di cui il giovane soffriva. Tuttavia, sul viso di Agrippina lo sgomento, il terrore e l’impotenza si manifestano inequivocabilmente. La donna si rende conto di aver perso uno dei suoi ultimi strumenti di controllo (ricattatorio) nei confronti del figlio. Dopo un breve momento di dolore, però, il banchetto continua lietamente.

Questo è un vero e proprio  kairos nella vita di Nerone, un momento di svolta. Liberandosi fisicamente di Britannico, si emancipa da una doppia soggezione: quella generata dalla paura di avere in lui un contendente al potere imperiale e quella proveniente dal ricatto materno, eliminando appunto la suprema arma della madre. E di questo  sono consci tanto l’imperatore quanto Agrippina che, al contrario di suo figlio (che sfodera la più naturale delle indifferenze), non riesce a dissimulare affatto i moti del suo animo. Lei è finita politicamente, e chi conosce già la storia potrebbe aggiungere “non soltanto”.

Nerone, dopo aver reso impotente la madre, decide di farla ammazzare. Ma un’operazione diretta sarebbe stata motivo di uno scandalo, forse, irreparabile. Decide, dunque, di far naufragare la sua nave. Data la natura imprevedibile del mare, nessuno avrebbe mai pensato che fosse stato tutto architettato dal sovrano stesso. L’imperatore, allora, si mostra, in quel periodo, molto premuroso con la madre per tranquillizzarla e deviarne ogni sospetto. Una notte lei si imbarca e la nave viene fatta affondare. Il caso vuole però che la madre sia un’ottima nuotatrice: si lancia  in mare, guadagna a poderose bracciate la riva e si rifugia in una sua villa vicino alla costa. Da lì invia un servo a palazzo per informare suo figlio di essere sana e salva. Nerone, sentendo che sua madre è ancora viva, si sente morire: l’attentato poteva essere utilizzato per aizzare i pretoriani e l’opinione pubblica contro di lui e mettere fine seduta stante al suo regno. La madre, sfortunatamente per lei, ha altri piani: pensa ancora  di poter scampare all’ostilità del figlio fingendo di non aver pensato a nessun suo coinvolgimento riguardo a ciò che è successo, per riappacificarsi con lui. Ignaro di questo, il princeps convoca  Seneca e Burro per discutere il da farsi. La soluzione viene trovata da un liberto, Aniceto. Egli suggerisce di mandare  suoi uomini a completare il lavoro, in quanto l’esercito regolare era troppo legato alla famiglia imperiale e si sarebbe rivoltato contro il princeps udendo tale ordine. Una piccola milizia entra nella villa dove si era rifugiata poc’anzi Agrippina. Ella fino alla fine non accettai l’idea che suo figlio potesse concepire il matricidio. Viene brutalmente trafitta al ventre, che si premura di offrire ai sicari,  da Aniceto e dai suoi uomini. Così almeno riporta, con gusto teatrale, lo storico Tacito. 

Con l’omicidio di sua madre, resa però già praticamente impotente dalla morte di Britannico, Nerone perde tutti i suoi freni inibitori. Ma le sue passioni, il canto e l’esibirsi come auriga, sono considerate disdicevoli per un imperatore dalla morale romana. Seneca e Burro allora, fanno costruire uno stadio-teatro privato dove il princeps ha la possibilità di esibirsi liberamente. Ma un intrattenitore ha bisogno di un pubblico. La struttura viene aperta anche al popolo romano, che lo acclama con grande entusiasmo, e coinvolge la nobiltà in esibizioni artistiche ben poco virili per i maschi e vergognose per le donne. Inoltre, intorno allo stadio nasce una microeconomia di merci che incitano alla lussuria. Questa corruzione fa decadere gli antichi costumi romani. In questo ambiente nascono i cavalieri romani detti “Augustiani”. Essi, onorati per la loro mansione, passano il loro tempo semplicemente ad applaudire il princeps e a simulare  la sua gloria.

In questa descrizione, Tacito muove una forte denuncia contro la degenerazione di Nerone, raffigurato come un vizioso despota che premia gli immorali nella misura in cui gli antenati avrebbero premiato i virtuosi. Queste manie di protagonismo raggiungono il culmine tuttavia quando l’imperatore proclama di essere un dio. Ma queste frivolezze sarebbero state interrotte da un terribile disastro.

Nel 64 d.C. un devastante incendio si abbatte su Roma. La causa scatenante, però, è incerta:  c’è chi dice che si sia originato per caso chi  per colpa dell’imperatore. Molto semplicemente, probabile si sia generato  tra le botteghe di combustibili e abbia preso subito forza. Si propaga prima nella parte bassa delle case, poi le supera  e infine ridiscende per le strade. La città diventa presto totalmente preda delle fiamme: le strade tortuose, le case troppo vicine le une alle altre favoriscono la propagazione dell’incendio. Le grida dei cittadini  indifesi si elevano sopra a quell’inferno. Tutti cercano di mettersi in salvo su strade sovraffollate di disperati. Taluni, che avevano appena  perso i loro cari o tutti i loro beni a causa dell’incendio, si gettano volontariamente tra le fiamme. Nessuno le combatte, sia perché non  osa, sia perché diffondono voci secondo cui  certi figuri  proibivano di spegnerle e scagliavano fiaccole per alimentarlo, affermando che così  era stato ordinato. L’autore scrive che lo asserirono forse solo per rubare meglio tra le rovine o forse perchè ciò gli era stato effettivamente ordinato. Tacito non  chiarisce questo dubbio, ma si limita ad esporre tutte le versioni.

Nerone, che in quei giorni si trovava ad Anzio, decide di agire immediatamente per soccorrere la cittadinanza, fissando il prezzo del grano e ordinando un imponente piano di ricostruzione. Inoltre stila un preciso ed efficace codice urbanistico per scongiurare altre tragedie come quella che si era appena abbattuta sull’Urbe. Ma tutte queste misure, volte a conquistare il favore del popolo, non riscuotono l’effetto voluto a causa delle voci sul suo coinvolgimento nello scatenamento dell’incendio. In effetti Nerone, a seguito della devastazione inaudita delle fiamme ordinò la costruzione di un nuovo e immenso palazzo, la domus aurea. Per riabilitare  la sua immagine attribuisce  la colpa ai cristiani, visti dai romani come una perversa e oscura setta ebraica. Iniziano delle crudelissime persecuzioni, nel corso delle quali si sprecano i supplizi disumani,  nei quali periscono innocenti sbranati dai cani, crocifissi o usati come torce viventi per illuminare la città. Sono  infine condannati, non tanto per aver appiccato l’incendio, ma per un loro presunto odio contro l’umanità. Queste atrocità tuttavia riscuotono l’effetto opposto: un senso di compassione si diffonde tra la cittadinanza. I cristiani passano dall’essere il capro espiatorio a vittime dell’odio dell'imperatore. Tacito, malgrado manifesti una forte ostilità nei confronti del cristianesimo, denuncia fortemente le persecuzioni e le vite sacrificate non utilitate publica, sed in saevitiam unius absumerentur, non per il pubblico bene bensì alla crudeltà di uno solo.

 

In conclusione, il potere assoluto, così come nel caso del suo predecessore Tiberio, svela gradualmente la vera natura di Nerone. Questa sua indole si manifesta fin dalla giovinezza, quando il suo fratellastro Britannico incarna la sua impostura di regnante illegittimo ed è usato come arma di ricatto da sua madre. Inoltre, viene considerato dal principio un imperatore meno dotato dei suoi predecessori. Nerone tenta di colmare questo senso di inferiorità nei confronti di Britannico e delle aspettative politiche, questo vuoto che monta dentro di lui, attraverso l’iperbolico accumulo di potere. Nel giro di poco tempo fa ammazzare prima il suo fratellastro poi la madre, per liberarsi delle cause della sua sofferenza, il che non fa altro che allargare quella specie di  voragine interiore. Infatti con loro cadono anche i suoi ultimi freni inibitori. Egli dà  sfogo alle sue passioni nonostante la loro incongruenza con norme sociali dell’epoca. Questa sua ricerca di potere si rende ancora più evidente quando, a causa della perdita di consensi tra la cittadinanza romana, incita ad una crudelissima e spregiudicata persecuzione contro i cristiani, soltanto per riaffermarsi come idolo del popolo. Tuttavia, l’apice delle sue tendenze megalomani è raggiunto quando passa dal considerarsi sopra la legge a situarsi di là da essa. Si presenta come un dio che cammina, il massimo attore, cantante e auriga, che con la sua sublime bravura è in grado di ammaliare una platea altrettanto gloriosa, il popolo romano. “Io sono un intrattenitore; l’impero un enorme spettacolo”. 

 

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