FIGURE RETORICHE CON SOMMARIO - parte prima
https://drive.google.com/file/d/12zn8FXjPG3JDH9yJa8w0WrzWdjFG_siR/view?usp=sharing
MI RACCOMANDO DI REALIZZARE IL RIASSUNTO DEL RACCONTO DI BONTEMPELLI (INTERO, NON SOLO LA PARTE RIPORTATA SOTTO)
SOMMARIO SULLA RETORICA (1)
- Per definizione la retorica è ARTE DEL DIRE BENE, nasce nel mondo antico (greco-latino) e diventa oggetto di sistemazione scolastica.
- Una volta catalogate e classificate, le FIGURE RETORICHE divennero strumenti fondamentali della lingua scritta e parlata, procedimenti usati particolarmente in poesia, ma anche e ampiamente in prosa.
- La regina delle figure retoriche è la METAFORA, per etimologia SPOSTAMENTO, che riguarda il significato, da un ambito di idee a un altro.
- Esempi di metafora: Gianni è un vulcano di idee e Lisa ha uno sguardo di fuoco.
- L'ALLEGORIA, attraverso l'etimologia, ci conduce nel territorio del parlare diversamente, ovvero dire qualcosa di differente rispetto al senso letterale. Necessita di un’interpretazione, di un’esegesi, perché nasconde sotto un significato apparente, che può anche essere semplice e banale, un significato ulteriore, che viene stabilito dalla forza della tradizione (esempio delle Fabulae di Fedro).
- L'OSSIMORO, deriva etimologicamente dall’unione di due aggettivi, oxys [accento sull'ultima sillaba], che significa ACUTO e mòron, OTTUSO, alludendo quindi all’accostamento di due termini di significato opposto, che vengono così accostati per ricavare un terzo significato, per suggeriore un’ulteriore intuizione. Nella dimensione comunicativa comune sono ossimori espressioni come silenzio assordante, amara dolcezza, attimo eterno.
Ecco ora il racconto di Massimo Bontempelli, intitolato Il buon vento: riporto l'inizio e il link per leggerlo interamente.
Circa dodici anni fa avevo messo su per mio divertimento una specie di gabinetto di chimica, ove mi appassionavo a tentare esperienze col segreto proposito di trovare la sostanza di contatto tra il mondo fisico e il mondo spirituale. Un giorno, d'improvviso, me la trovai tra le mani, quella sostanza: fu, ognuno lo capisce, l'invenzione più miracolosa che possa immaginarsi.
Era una polverina, che raccolta nel cavo della mano non seppi giudicare se fosse calda o fredda: era impalpabile e imponderabile, pure anche a occhi chiusi la mia mano la percepiva; era incolore e visibilissima. Mi dava, il tenerla a quel modo, una specie di ebbrezza: è da notare che l'ebbrezza è appunto la condizione intermedia, e come di contatto, tra la sensazione d'una realtà fisica e lo stato d'animo puramente immaginativo. Tale era quella sostanza, come subito intuii, e come potei riconoscere in breve, quel giorno stesso, per caso, lungo una serie di fenomeni oltremodo curiosi che intorno a me si produssero, e che voglio raccontare per vedere chi ci crede.
Era d'estate, in un piccolo paese pieno di sole, che sta in mezzo a una pianura d'Italia.
Chiusa la polvere in una cartina, la misi nel portafogli. In questo atto m'accorsi che non avevo più danaro; ne cercai invano in tutte le mie tasche. Io non avevo ancora capito quali potessero essere gli effetti della virtù di quella polvere, immaginai rapidamente una serie d'esperienze costose per riconoscerli. Era mezzogiorno. Mi s'imponevano dunque due problemi di natura finanziaria: trovare il danaro per andare a pranzo, e quello per fare le esperienze. Il secondo assorbiva il primo. Uscii di casa, nel sole, con la mia polvere in tasca.
Le strade erano vuote. I miei passi risonavano sui lastrici battuti dalla fiamma del cielo. Pensavo. In paese conoscevo due uomini ricchi: Bartolo e Baldo. Sapevo che Bartolo andava qualche volta alla trattoria dello Sperone ardente, di cui Baldo era proprietario. Vi andai. Il padrone non c’era, era andato alla sua vigna; ma, o fortuna, c'era Bartolo, con la moglie (una grassona) e la figlia (una magretta). Stava terminando di pranzare. Lo affrontai subito: “Cercavo di lei, signor Bartolo, per associarla a una mia impresa. Ho scoperto una polvere prodigiosa. Non so ancora a che cosa serva ma so che essa sta esattamente sul limite tra la vita fisica e la vita metafisica. Ella intende l'importanza enorme della cosa. Mi occorre ch'ella mi somministri venticinquemila lire per le esperienze conclusive. Ci conto”. (In cuor mio contavo pure di prelevar subito cinque lire di quelle venticinquemila, per pranzare).
Bartolo s'affrettò a trangugiare precipitosamente, quasi da ingozzarsi, la pesca che stava sbucciando. “Alzatevi, donne” ordinò alla moglie grassa e alla figlia magra. Esse s'alzarono, e lui pure. E avanzò verso me. Aveva un vestito di tela bianca, e in capo un panama. Aveva gli occhiali d'oro e la barba bionda. Pareva una vespa nel latte. “Signor Massimo” mi rispose “lei non sa che io sono povero. Io non posso somministrarle nemmeno venticinque centesimi. Le giuro che nel farle questo rifiuto il cuore mi sanguina”.
Sostò. Lo guardai. Mi guardava, onde una gran timidezza mi prese, e abbassai lo sguardo.
E scorsi che sul suo petto, dalla sua parte sinistra, sotto la tasca del fazzoletto, sulla tela bianca del vestito c'era una piccola macchia rossa. Pensavo d'insistere. Ma mi avvidi che la macchiolina era fresca, e s'allargava. Stavo allora per avvertirlo, quando egli riprese a parlare: “Il cuore mi sanguina - ripeté - e io mi compiaccio di spiegarle...”.
Ma non sento più niente. Mi balena un sospetto, una speranza, una spiegazione, una illuminazione, forse, certo, anzi certo certissimo, capivo ora gli effetti della mia scoperta. L'uomo parlava entro il raggio d'azione della mia polvere, la sostanza che segna il punto di contatto e passaggio tra il mondo reale e il mondo delle immagini: ed ecco, lui parlava, la mia polvere operava: la mia polvere serve a realizzare le immagini: le immagini di cui fanno uso gli uomini parlando. Il cuore mi sanguina, egli aveva detto, e ripetuto. E il disgraziato...
Io ero senza fiato. La macchia aveva cessato d'allargarsi. Lo guardai. Era pallido. Colsi ora le sue parole.
“...non ho più quattrini” stava ridicendo, in atto d'andarsene, con voce fioca “e sa dove li ho buttati tutti? In un anno di cure, di cure per mia moglie e mia figlia”.
Fe' un cenno dietro le spalle. Perché le due donne, moglie grassa e figlia magra, s'erano ritirate in un angolo, un angolo quasi buio della sala, e là stavano, zitte.
“Ho fatto fare una gran cura dimagrante a mia moglie, e una gran cura ingrassante a mia figlia; e con questo bel risultato: mia moglie è una botte e mia figlia un'acciuga. Arrivederla, signor Massimo. Andiamo, donne”. Si voltò a loro, ma non c'erano più. Non si maravigliò. Brontolava: “Saranno andate a casa a prepararmi il caffè”.
Uscì barcollando, senza più voltarsi scomparve. Io allibito ficcai lo sguardo in quell'angolo buio della sala. C'era una botte. Un brivido rapido mi scivolò dai piedi alla fronte. Osai fare due passi verso quella cosa, mi fermai, così da lontano mi chinai un poco guardando laggiù. E ai piedi della botte c'era una piccola acciuga miserevole, salata. Sua moglie, e sua figlia. Arretrai. Caddi a sedere sulla sedia davanti al tavolino. […]
SI TROVA COMPLETO AL LINK http://docplayer.it/37987121-Verifica-sommativa-il-buon-vento-generi-massimo-bontempelli.html
Era una polverina, che raccolta nel cavo della mano non seppi giudicare se fosse calda o fredda: era impalpabile e imponderabile, pure anche a occhi chiusi la mia mano la percepiva; era incolore e visibilissima. Mi dava, il tenerla a quel modo, una specie di ebbrezza: è da notare che l'ebbrezza è appunto la condizione intermedia, e come di contatto, tra la sensazione d'una realtà fisica e lo stato d'animo puramente immaginativo. Tale era quella sostanza, come subito intuii, e come potei riconoscere in breve, quel giorno stesso, per caso, lungo una serie di fenomeni oltremodo curiosi che intorno a me si produssero, e che voglio raccontare per vedere chi ci crede.
Era d'estate, in un piccolo paese pieno di sole, che sta in mezzo a una pianura d'Italia.
Chiusa la polvere in una cartina, la misi nel portafogli. In questo atto m'accorsi che non avevo più danaro; ne cercai invano in tutte le mie tasche. Io non avevo ancora capito quali potessero essere gli effetti della virtù di quella polvere, immaginai rapidamente una serie d'esperienze costose per riconoscerli. Era mezzogiorno. Mi s'imponevano dunque due problemi di natura finanziaria: trovare il danaro per andare a pranzo, e quello per fare le esperienze. Il secondo assorbiva il primo. Uscii di casa, nel sole, con la mia polvere in tasca.
Le strade erano vuote. I miei passi risonavano sui lastrici battuti dalla fiamma del cielo. Pensavo. In paese conoscevo due uomini ricchi: Bartolo e Baldo. Sapevo che Bartolo andava qualche volta alla trattoria dello Sperone ardente, di cui Baldo era proprietario. Vi andai. Il padrone non c’era, era andato alla sua vigna; ma, o fortuna, c'era Bartolo, con la moglie (una grassona) e la figlia (una magretta). Stava terminando di pranzare. Lo affrontai subito: “Cercavo di lei, signor Bartolo, per associarla a una mia impresa. Ho scoperto una polvere prodigiosa. Non so ancora a che cosa serva ma so che essa sta esattamente sul limite tra la vita fisica e la vita metafisica. Ella intende l'importanza enorme della cosa. Mi occorre ch'ella mi somministri venticinquemila lire per le esperienze conclusive. Ci conto”. (In cuor mio contavo pure di prelevar subito cinque lire di quelle venticinquemila, per pranzare).
Bartolo s'affrettò a trangugiare precipitosamente, quasi da ingozzarsi, la pesca che stava sbucciando. “Alzatevi, donne” ordinò alla moglie grassa e alla figlia magra. Esse s'alzarono, e lui pure. E avanzò verso me. Aveva un vestito di tela bianca, e in capo un panama. Aveva gli occhiali d'oro e la barba bionda. Pareva una vespa nel latte. “Signor Massimo” mi rispose “lei non sa che io sono povero. Io non posso somministrarle nemmeno venticinque centesimi. Le giuro che nel farle questo rifiuto il cuore mi sanguina”.
Sostò. Lo guardai. Mi guardava, onde una gran timidezza mi prese, e abbassai lo sguardo.
E scorsi che sul suo petto, dalla sua parte sinistra, sotto la tasca del fazzoletto, sulla tela bianca del vestito c'era una piccola macchia rossa. Pensavo d'insistere. Ma mi avvidi che la macchiolina era fresca, e s'allargava. Stavo allora per avvertirlo, quando egli riprese a parlare: “Il cuore mi sanguina - ripeté - e io mi compiaccio di spiegarle...”.
Ma non sento più niente. Mi balena un sospetto, una speranza, una spiegazione, una illuminazione, forse, certo, anzi certo certissimo, capivo ora gli effetti della mia scoperta. L'uomo parlava entro il raggio d'azione della mia polvere, la sostanza che segna il punto di contatto e passaggio tra il mondo reale e il mondo delle immagini: ed ecco, lui parlava, la mia polvere operava: la mia polvere serve a realizzare le immagini: le immagini di cui fanno uso gli uomini parlando. Il cuore mi sanguina, egli aveva detto, e ripetuto. E il disgraziato...
Io ero senza fiato. La macchia aveva cessato d'allargarsi. Lo guardai. Era pallido. Colsi ora le sue parole.
“...non ho più quattrini” stava ridicendo, in atto d'andarsene, con voce fioca “e sa dove li ho buttati tutti? In un anno di cure, di cure per mia moglie e mia figlia”.
Fe' un cenno dietro le spalle. Perché le due donne, moglie grassa e figlia magra, s'erano ritirate in un angolo, un angolo quasi buio della sala, e là stavano, zitte.
“Ho fatto fare una gran cura dimagrante a mia moglie, e una gran cura ingrassante a mia figlia; e con questo bel risultato: mia moglie è una botte e mia figlia un'acciuga. Arrivederla, signor Massimo. Andiamo, donne”. Si voltò a loro, ma non c'erano più. Non si maravigliò. Brontolava: “Saranno andate a casa a prepararmi il caffè”.
Uscì barcollando, senza più voltarsi scomparve. Io allibito ficcai lo sguardo in quell'angolo buio della sala. C'era una botte. Un brivido rapido mi scivolò dai piedi alla fronte. Osai fare due passi verso quella cosa, mi fermai, così da lontano mi chinai un poco guardando laggiù. E ai piedi della botte c'era una piccola acciuga miserevole, salata. Sua moglie, e sua figlia. Arretrai. Caddi a sedere sulla sedia davanti al tavolino. […]
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