ESERCITAZIONE PER LA VERIFICA DEL 27 GENNAIO - TUTTI I MATERIALI e ESERCIZI MODELLO
Presentazione dell'autore
Fedro è il primo favolista latino di cui ci sia giunta l'opera. Nato in Macedonia, verso la fine del I secolo a. C., fu presumibilmente portato a Roma come schiavo in giovanissima età. Una prima informazione in questo senso giunge dall'epiteto libertus Augusti, con cui è accompagnato il suo nome nel manoscritto che contiene le sue Fabulae. Liberato dal princeps, potè completare l'istruzione e dedicarsi a insegnare e a scrivere. Tra le poche notizie biografiche ricostruibili figura, per essere stata annotata da lui stesso, una sorta di persecuzione da parte del famigerato ministro di Tiberio di nome Seiano, che avrebbe sferrato un attacco personale nei confronti di Fedro, reo di aver larvatamente criticato il potere dell'epoca e la quasi permanente sopraffazione di deboli e umili da parte dei potenti. Analogamente ricostruibile da sue annotazioni, lo scarso successo goduto dalla sua opera presso i contemporanei: la fama di Fedro, infatti, nasce tardivamente, di sicuro dopo l'età umanistico-rinascimentale, anche in ragione dello sfruttamento in ambito scolastico dei suoi componimenti, rappresentativi di una lingua semplice e chiara e di un contenuto morale edificante.
L'opera di Fedro si è fissata nel tempo in cinque volumi di favole in versi, per un totale di cento componimenti. L'umanista Niccolò Perotti nel 1470 ha integrato il manoscritto con una scelta di 32 favole dell'Autore, nota come Appendix Perottina. Sebbene a Roma Fedro sia pioniere del genere favolistico, esso non ha in lui il suo primo praticante. Infatti fra il VII e il VI secolo a. C. in Grecia Esopo, anch'egli schiavo, scrive le prime favole note nel mondo occidentale, in forma prosastica. Da Esopo Fedro trae ispirazione secondo il principio di aemulatio, riprendendo quindi la forma dominante della sua opera, ovvero l'apologo animalesco, ma variandolo sostanzialmente dal punto di vista formale (adotta appunto i versi, in particolare i senari giambici in uso nella commedia) e contenutistico, inserendo anche personaggi umani. L'origine schiavile di entrambi i favolisti viene spesso utilizzata per spiegare il tipo di visione del mondo che, nell'insieme, si può ricavare dalle loro opere: sotto le apparenze animalesche, vizi e virtù si contrappongono sulla scena del mondo, e dal conflitto, nonché dai vincitori del medesimo, prevale l'impressione che i forti e gli arroganti siano destinati ad avere la meglio in quella sorta di lotta per la vita alla quale si è chiamati a partecipare dalla nascita alla morte.
Prologus (I, 1)
Aesopus auctor quam materiam repperit,
hanc ego polivi versibus senariis.
Duplex libelli dos est: quod risum movet,
et quod prudenti vitam consilio monet.
Calumniari si quis autem voluerit,
quod arbores loquantur, non tantum ferae,
fictis iocari nos meminerit fabulis.
Lupus et Agnus (I, 2)
Superior stabat lupus, longeque inferior agnus.
Tunc fauce improba latro incitatus iurgii causam intulit:
"Cur - inquit - turbulentam fecisti mihi aquam bibenti?"
Laniger contra timens:
"Qui possum - quaeso - facere quod quereris, lupe? A te decurrit ad meos haustus liquor."
Repulsus ille veritatis viribus:
"Ante hos sex menses male - ait - dixisti mihi".
Respondit agnus:
"Equidem natus non eram!"
"Pater, hercle, tuus - ille inquit - male dixit mihi!"
Atque ita correptum lacerat iniusta nece.
Haec propter illos scripta est homines fabula
Ranae regem petunt (I, 3)
Athenae cum florerent aequis legibus,procax libertas civitatem miscuit,
frenumque solvit pristinum licentia.
Hic conspiratis factionum partibus
arcem tyrannus occupat Pisistratus.
Cum tristem servitutem flerent Attici,
(non quia crudelis ille, sed quoniam grave
omne insuetis onus), et coepissent queri,
Aesopus talem tum fabellam rettulit.
'Ranae, vagantes liberis paludibus,
clamore magno regem petiere a Iove,
qui dissolutos mores vi compesceret.
Pater deorum risit atque illis dedit
parvum tigillum, missum quod subito vadi
motu sonoque terruit pavidum genus.
Hoc mersum limo cum iaceret diutius,
forte una tacite profert e stagno caput,
et explorato rege cunctas evocat.
Illae timore posito certatim adnatant,
lignumque supra turba petulans insilit.
Quod cum inquinassent omni contumelia,
alium rogantes regem misere ad Iovem,
inutilis quoniam esset qui fuerat datus.
Tum misit illis hydrum, qui dente aspero
corripere coepit singulas. Frustra necem
fugitant inertes; vocem praecludit metus.
Furtim igitur dant Mercurio mandata ad Iovem,
adflictis ut succurrat. Tunc contra deus
"Quia noluistis vestrum ferre" inquit "bonum,
malum perferte". Vos quoque, o cives, ait,
hoc sustinete, maius ne veniat, malum.
Presentazione della favola
La favola sotto riportata è antologizzata col titolo Il lupo magro e il cane grasso, anche se ben potrebbe addirle un titolo come Quanto vale la libertà. Protagonisti, come da prevalente impostazione delle favole esopiche e fedriane, sono due animali: un cane, connotato secondo tradizione come deputato a tutelare, proteggere, favorire, in cambio del mantenimento, gli interessi materiali del padrone, e un lupo, anche lui canonicamente descritto come creatura libera e selvaggia, refrattaria a qualsiasi forma di addomesticamento. L'impostazione dialogica, spesso prescelta dal poeta, consente una caratterizzazione dei due animali fin dall'inizio precisa. Il lupo manifesta subito il suo stupore per l'aspetto florido del cane, in contrasto con la condizione di magrezza in cui versa lui, che pure è dalla natura ben più dotato in termini di forza predatoria. Il cane gli rivela immediatamente quale sia il segreto delle sue ottime condizioni di salute e gli suggerisce di abbandonare la vita raminga per affidarsi alle cure d'un padrone, in cambio di minimi servigi. Sedotto dalla prospettiva allettante di avere cibo in abbondanza e senza soverchia fatica, il lupo si predispone a seguire il suggerimento del cane, ma lungo la strada s'accorge di una dettaglio dal suo punto di vista non trascurabile: il collo del cane reca i segni di una catena, che gli viene rivelato essere una sorta di scotto da pagare in cambio del mantenimento in precedenza magnificato. La morale della favola, come da topos favolistico proposta alla fine, è affidata a un'orgogliosa proclamazione del lupo: nemmeno un regno accetterebbe, se in cambio dovesse cedere la sua libertà.
Cani perpasto macie confectus lupus | Casualmente un lupo dall’aspetto emaciato incontra un cane bello florido; salutatisi reciprocamente, si fermarono a discorrere: “Da dove ti viene questa splendida forma? Come hai fatto a procurarti un simile aspetto? Io, che sono ben più forte di te, muoio di fame.” Il cane, in poche parole, gli spiega: “Ti troveresti nella mia medesima condizione, se potessi rendere un servizio come quello che fornisco io al padrone”. “Quale servizio?” chiede il lupo. “Custode alla porta, in difesa dai ladri e della casa di notte. Si ottiene pane a volontà; il padrone lascia gli avanzi della mensa; i servi gettano i bocconi e gli scarti. Così mi riempio la pancia senza fatica.” “Eccomi pronto: ora patisco le intemperie, conducendo una vita difficile nei boschi. Quanto è più semplice vivere in una casa e saziarsi abbondantemente in totale agio!” “Vieni con me, allora”. Mentre procedono, il lupo s’accorge del collo del cane spelacchiato da una catena. “Da dove viene questo segno, amico mio?” “Non è nulla”. “Ma dimmelo comunque, per piacere”. “Poiché sembro vivace, qualche volta mi legano, perché di giorno io stia quieto e sia bello sveglio quando sopraggiunga la notte: al crepuscolo, libero, vado in giro dove mi pare e piace”. “Ma se uno ne ha voglia, è libero di andarsene?” “No di certo” rispose. “Caro il mio cane, goditi pure ciò di cui fai vanto; da parte mia, non vorrei essere re, a scapito della mia libertà”. CB |
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