SAFFO - CATULLO - DANTE: PERCORSO ATTRAVERSO TESTI (ORIGINALE LATINO/TRADUZIONE)

FOCUS DI PRESENTAZIONE DEGLI AUTORI, COMPRESO IL TRADUTTORE QUASIMODO, PROPOSTI IN QUESTO APPROFONDIMENTO ATTIVATO DALLA LETTURA DELLA VITA NUOVA

I FOCUS: SAFFO

Nessuna fonte ci fa sapere quando e dove sia stato roso dai topi l’ultimo manoscritto di Saffo o di Menandro, scriveva Paul Maas in una efficace sintesi delle Sorti della letteratura greca antica a Bisanzio. E commentava: Di avvenimenti di tal genere è fatta la storia della perdita della letteratura antica.  Certo è che nel XII secolo, a Bisanzio, il dottissimo Tzetzes lamentava  la perdita completa delle poesie di Saffo, nell’introduzione al suo trattato Sulla metrica pindarica. Ma non aveva certo a disposizione un catalogo collettivo, per cui la sua affermazione può anche apparire problematica. Comunque, ciò che s’era perso nel Medio Evo, ogni tanto e sia pure in piccola parte rispuntò, in particolare tra Otto e Novecento, dagli scavi in Egitto: spezzoni di libri su papiro, via via finiti sotto terra con il declino e la definitiva scomparsa della civiltà greca in quella regione. Così, ad esempio, abbiamo recuperato parecchio Menandro, autore della commedia nuova greca,  Aristotele, e anche un po’ di Saffo, poetessa nata nell’isola di Lesbo, forse a Mitilene, alla fine del VII secolo a.C. La nuova poesia di lei, affiorata nel 2015, purtroppo da collezione privata (dunque senza precisazioni sul momento del rinvenimento e sulla provenienza) ha la fortuna di essere stata affidata ad un esperto come Dirk Obbink, professore a Oxford, che ha provveduto a pubblicarla una rivista specialistica di papirologia ed epigrafia.

Si tratta di due frammenti: il più ampio è stato denominato il frammento dei fratelli,  perché vi si nominano Carasso e Larico, i due fratelli di Saffo, già noti attraverso lo storico Erodoto (II,135)da cui apprendiamo anche altre informazioni su Carasso, il quale, dopo aver speso molto denaro per riscattare, in Egitto, una cortigiana, era tornato a Mitilene, ispirando a Saffo una poesia piena di critiche nei suoi confronti. .
Il nuovo frammento si pone come antecedente immediato di questo fatto noto, dato che  ci fa sapere che Carasso sta tornando. I nuovi frammenti non apportano nulla di nuovo, quindi, ma si collegano con quanto sapevamo già di Saffo e che ora riporto di seguito. Dall’isola originaria, Lesbo, Saffo dovette fuggire con la famiglia in occasione di torbidi scoppiati per motivi politici, andando in esilio in Sicilia, forse ad Akragas (Agrigento).  Un’informazione abbastanza certa riguarda la sua attività principale, educatrice di giovani donne, in un contesto che, pur non rintracciandosi il termine nei frammenti a noi pervenuti, poteva forse definirsi tìaso. Con questo nome veniva originariamente indicato un culto tributato a Dioniso, ma divenne poi genericamente sinonimo di setta, confraternita. Saffo si dedicava alla formazione culturale e spirituale delle ragazze e di questo si trovano molte tracce nei suoi scritti, in cui la divinità più onorata è Afrodite. Sempre dai suoi scritti sono ricavabili indicazioni sull’importanza annessa, nelle relazioni interpersonali, alla dimensione amorosa, nonché sessuale, senza alcuna rilevanza di distinzione fra amore etero o omosessuale. L’insistenza con cui invece si ricostruisce ancor oggi l’orizzonte di pensiero e sentimento di questa scrittrice ricorrendo a questa terminologia è fuorviante, in quanto frutto della nostra prospettiva culturale profondamente dominata dall’esigenza di circoscrivere e etichettare. Afrodite, infatti, è dea dell’amore in tutte le sue declinazioni, e in questo senso sono da intendere gli omaggi recatele da Saffo attraverso, o insieme, alle fanciulle da lei educate alla vita. Saffo componeva  Inni, Odi, Epitalami (canti nuziali),  componimenti sempre accompagnati da musica e versificati nella forma quantitativa propria della lingua greca come di quella latina (la metrica italiana, invece, è accentuativa: di qui un’altra difficoltà di traduzione peculiare dei testi in poesia). Sulla data di morte di Saffo non si hanno certezze: la leggenda alla quale hanno dato consistenza poetica sia Ovidio sia Leopardi vuole che si sia gettata dalla rupe di Leucade (isola di Lefkada) per disperazione d’un amore non corrisposto per il barcaiolo Faone. 

https://it.wikipedia.org/wiki/Saffo_a_Leucade#/media/File:Antoine-Jean_Gros_-_Sappho_at_Leucate_-_WGA10704.jpg

FOCUS 2: CATULLO

Le uniche notizie biografiche su Catullo sono quelle rilevabili dai suoi carmi, dato che non ci sono pervenute biografie scritte da antichi su di lui. Nacque nella prima metà del I secolo a. C., probabilmente in Gallia Cisalpina (Italia settentrionale), da famiglia agiata: a Sirmione, sul lago di Garda, dove si trovava una villa di famiglia, il padre di Catullo avrebbe ospitato varie volte Giulio Cesare (l’informazione ci è fornita dallo storico Svetonio, vissuto tra I e II secolo d. C.). Intorno al 60 si trovava già a Roma per studiare, come tutti i giovani di buona famiglia, ma rifiutò di dedicarsi alla carriera politica, al cursus honorum, per votarsi totalmente alla poesia: la corrente poetica che contribuì ad animare insieme ad altri venne, con intenzioni dispregiative, definita neoterismo (dal greco neòteoroi, traducibile come più nuovi¸ e latinizzato in poetae novi) da Cicerone, che considerava la poesia un’attività indegna del civis romanus votato per definizione alla partecipazione attiva alla vita politica. Sempre intorno al 60 Catullo incontra una donna, che canterà sempre col nome di Lesbia (“la fanciulla di Lesbo”, in onore di Saffo), forse identificabile con Clodia, sorella del tribuno della plebe Publio Clodio Pulchro, acerrimo nemico di Cicerone e protagonista delle violente lotte politiche del periodo, e moglie del proconsole nel territorio Cisalpino, Quinto Metello Celere.  Un altro evento che risulta testimoniato da un componimento è la morte, avvenuta nella Troade probabilmente nel 58, del fratello di Catullo, al quale egli era molto legato. Nel 57 accompagna il pretore Caio Memmio (dedicatario del De rerum natura che il poeta Lucrezio scrive in quegli anni) in Bitinia, si reca sulla tomba del fratello nella Troade e, ritornato a Sirmione, vi trascorre gli ultimi anni della sua breve vita, morendo nel 54. Tutti i carmina di Catullo sono stati raccolti, secondo l’uso inaugurato dagli alessandrini nel III secolo a. C., in base a criteri metrici e non cronologici:  sono 116 carmi suddivisi in tre sezioni, ossia dal primo al sessantesimo le cosiddette nugae, sciocchezzuole, versi leggeri, dal sessantunesimo al sessantottesimo i carmina docta, comprendenti elegie (soprattutto di argomento sentimentale), epilli (carmi che cantano vicende epiche), epitalami (canti nuziali) e dal sessantanovesimo all’ultimo, epigrammata ossia epigrammi o elegie tutti in distico elegiaco (esametro e pentametro) ma di argomenti affini alla prima sezione, di contenuti molto varî. La lettura del Liber consente tra l’altro di ricostruire la concezione dell’amore di Catullo, ispirata dalla vicenda sentimentale vissuta con Lesbia-Clodia.

FOCUS 3: SALVATORE QUASIMODO

Nato in Sicilia, a Modica, nel  1901, Ungaretti si dedica precocemente e da autodidatta alle lingue classiche. Le sue prime poesie, raccolte in Acque e terre, 1930 e Oboe sommerso (1932), per citare solo le prime, sono ispirate dai miti antichi e epigrammatiche nella forma: brevi, concentrate, a volte criptiche, affini in questo all’ispirazione della poesia ermetica, che in tale periodo rappresenta una delle scelte espressive dei poeti italiani. Quasimodo insegna letteratura italiana al Conservatorio Verdi di Milano dal  1941 e fino alla morte, avvenuta a Napoli nel 1968. Nel 1959 viene insignito del premio Nobel. Nel corso della vita, oltre a comporre moltissime raccolte e saggi critici,  pratica assiduamente la traduzione di poeti greci e latini, dai lirici greci a Virgilio e Catullo, cura  alcune traduzioni da Shakespeare, e compila un'antologia della Lirica d'amore italiana, dalle origini ai nostri giorni (1957) e un'altra della Poesia italiana del dopoguerra (1958). 

TESTI CON TRADUZIONE  E COMMENTO

Il Fainetai moi di Saffo  nella traduzione di Salvatore Quasimodo

A me pare uguale agli dei 

      chi a te vicino così dolce 

      suono ascolta mentre tu parli 

      e ridi amorosamente. Subito a me 

5    il cuore si agita nel petto 

      solo che appena ti veda, e la voce 

      si perde nella lingua inerte. 

      Un fuoco sottile affiora rapido alla pelle, 

      e ho buio negli occhi e il rombo 

10  del sangue nelle orecchie. 

      E tutta in sudore e tremante 

      come erba patita scoloro: 

      e morte non pare lontana 

      a me rapita di mente. 

       Da Lirici greci, in Poesie e discorsi sulla poesia, Mondadori, 1971

 Liber di Catullo, carmen 51, aemulatio del Fainetai moi 

TESTO IN LATINO CON LETTERALE ACCANTO (come interlineare)

Ille mi par esse deo videtur,  egli a me [mi, per mihi, è un troncamento]  pari essere a un dio sembra

ille, si fas est, superare divos, egli, se lecito è, superare gli dei,

 qui sedens adversus identidem te  che sedendo di fronte contiuamente te

 spectat et audit  guarda e ascolta

 dulce ridentem, misero quod omnis dolcemente ridente, a misero  cosa che tutti [omnis sta per omnes]

eripit sensus mihi: nam simul te,  strappa si sensi a me: infatti non appena te,

Lesbia aspexi, nihil est super mi  o Lesbia ho visto, niente  a me sopravvive [superest]

< vocis in ore>,                             [si tratta di una lacuna compensata per ipotesi] della voce in bocca

lingua sed torpet, tenuis sub artus  ma la lingua si intorpidisce, una sottile sotto le giunture

 flamma demanat, sonitu suopte   fiamma si diffonde,  e [-te è un'enclitica]di un suono loro

 tintinant aures, gemina teguntur  tintinnano le orecchie, i due si coprono

 lumina nocte.    occhi di notte. 

Otium Catulle tibi molestum est; L'ozio o Catullo a te è molesto;

otio exultas nimiumque gestis;   per l'ozio ti esalti e troppo agiti;

otium et reges prius et beatas   l'ozio sia i re in precedenza sia felici

perdidit urbes.      ha mandato in rovina città

RIORDINO (SENZA INTERVENTI PER MIGLIORARE L'ITALIANO)

Egli a me sembra essere  pari a un dio,  egli, se è lecito, [sembra] superare gli dei, che sedendoti di fronte continuamente ti  guarda e ascolta mentre ridi dolcemente, cosa che a me misero strappa tutti i sensi: infatti non appena ti ho visto,  o Lesbia, a me nulla sopravvive  della voce in bocca, la lingua si intorpidisce, una sottile fiamma si diffonde sotto le giunture, di un suono loro  tintinnano le orecchie, i due occhi si coprono di oscurità. L'ozio o Catullo a te è molesto;   per l'ozio ti esalti e troppo agiti; l'ozio ha mandato in rovina sia i re in precedenza sia felici città.

TRADUZIONE FINALE RIELABORATA PER "DIRE QUASI LA STESSA COSA" (CB)

Mi pare un dio, sì, azzardo, 

anche superiore agli dei,

chi, sedendoti accanto,

senza sosta ti guarda e ascolta 

ridere dolcemente, 

e io mi sento svenire, poveretto: 

appena ti vedo, Lesbia mia, 

mi manca il respiro,

s’intorpidisce la lingua,

una fiamma pervade le membra, 

mi fischiano le orecchie,

le tenebre mi offuscano la vista.

Ti fa male stare in ozio, Catullo; 

nell’ozio ti esalti troppo;

l’ozio ha mandato in rovina re e città prospere.

COMMENTO COMPARATISTICO

Nel testo di Saffo, qui tradotto dal poeta novecentesco Salvatore Quasimodo, l’io lirico pone attenzione a chi riesca a stare vicino all’essere da lui amato. La vicinanza dell’amato per l’io lirico è infatti fonte di un turbamento fisico imponente e descritto in qualche particolare: il cuore batte velocemente alla sola vista e la capacità di parlare viene meno. Segue l’evocazione di una condizione assimilabile a una sincope: senso di calore, abbassamento della vista, ronzio acustico, sudorazione e tremito involontario. La poetessa si sente morire e preda della follia, rapita da una divinità, completamente avvinta dal furor. Val la pena ricordare, a questo proposito, che il furor, ovvero appunto una condizione di turbamento profondo dello spirito che per gli antichi corrispondeva alla follia e potrebbe essere accostato a quello che nell’immaginario cristiano diventa la possessione, è una parola che condivide la stessa radice delle Furiae, dette anche Dirae o Erinni, divinità infere, ossia infernali, del pantheon greco-romano, incarnazioni o personificazioni dello stato d’animo sconvolto di chi abbia un rimorso per aver commesso qualche atto criminoso. In tal caso le Furie intervengono a perseguitare chi si sia macchiato della colpa, finché non riesce a espiare e a placare le Furie che si trasformano a quel punto in divinità benevole, dette Eumenidi, ossia divinità della buona disposizione d’animo. Il furor, inoltre, può essere tanto identificabile con un’ira guerriera e sanguinaria, come quella trasmessa a Ercole dalla camicia imbrattata col sangue di Nesso, quanto con un forsennato sentimento amoroso, in genere mal diretto, ovvero orientato verso qualcuno che non corrisponde il sentimento o lo tradisce. Gli esempi mitici soccorrono nell’identificazione di questa passione. Fedra, la moglie di Teseo  che s’innamora del figliastro Ippolito dal quale non è corrisposta, è una classica incarnazione del furor, ovvero di un desiderio amoroso appunto forsennato e incontrollabile, che pare essere di provenienza esterna, divina. A sostanziare questa percezione, ancora una volta è la vicenda mitica:  Fedra è figlia di Pasifae, la sventurata moglie di Minosse che viene maledetta dagli dei per colpa del marito e s’innamora  follemente di un toro, col quale soddisfa la sua voglia grazie a un marchingegno a forma di giovenca  costruito da Dedalo.

Nel componimento catulliano, invece, dopo un inizio che ricalca la composizione di Saffo, manca il riferimento alla follia e compare piuttosto una sorta di alleggerimento sentimentale, sotto forma di riferimento alla condizione esistenziale che favorirebbe questa perdita di controllo: l’ozio che consente al poeta di dedicarsi all’amore è, immaginiamo con un pizzico d’ironia, evocato in analogia con quello che può mandare in rovina i popoli rammollendone le virili inclinazioni. L’aemulatio si manifesta qui come distanziamento dal modello: Catullo sottrae alla sua versione dedicata a Lesbia, la tragicità che la poetessa greca aveva invece conferito al suo grido d’amore rimasto senza eco. 

Focus 1 (Vita di Dante, lavori di gruppo)

Nascita, condizione della famiglia, Beatrice, Vita nuova  e stilnovismo. 

La data di nascita di Dante Alighieri, battezzato Durante di Alighiero degli Alighieri, non è conosciuta con esattezza, anche se solitamente viene indicata attorno al 1265. Tale data è ricavata da alcune annotazioni autobiografiche riportate nella Vita Nuova, nonché dal raffronto con il celebre verso iniziale  della Divina commedia,  nel mezzo del cammin di nostra vita, dal quale, ambientandosi nel 1300 il viaggio e essendo considerati i 35 anni la metà esatta dell’esistenza probabile di un essere umano, si evince appunto l’anno indicato; un ulteriore raffronto consente anche di approssimare il giorno di nascita, dato che  nella cantica Paradiso alcuni versi del XXII canto indicano che Dante sia nato sotto il segno dei gemelli, quindi tra il 21 maggio e il 21 giugno. 

Della madre, che morì presto, non sappiamo che il nome, Bella degli Abati. Il padre, Alighiero di Bellincione, che morì nel 1283 e  si dedicò ad attività mercantili, apparteneva a una famiglia della piccola nobiltà guelfa di Firenze. Le notizie sull’origine della famiglia ci sono note grazie al racconto di Cacciaguida, un trisavolo di Dante protagonista di tre canti centrali del Paradiso (XV; XVI e XVII), che partecipò alla I Crociata in Terra Santa, dove morì nel 1148.

Beatrice Portinari, detta Bice, nacque a Firenze nel 1265/66, figlia di Folco Portinari e moglie di Simone dei Bardi, e morì nel 1290 all’età di soli 24 anni. La data di nascita di Beatrice è stata ricavata per analogia con quella di Dante, mentre la data di morte è stata tratta dalla Vita Nuova, come molte delle altre notizie biografiche. È, secondo alcuni critici letterari, la donna che Dante trasfigura nel personaggio di Beatrice, ovvero la musa ispiratrice del poeta. Anche Giovanni Boccaccio, grande ammiratore di Dante e autore del Trattatello in laude di Dante, del 1362, nel commento alla Commedia fa esplicitamente riferimento alla giovane. I documenti certi sulla vita di Beatrice sono molto scarsi, portando perfino a dubitare della sua reale esistenza. L’unico che darebbe concretezza storica al personaggio è il testamento del padre Folco Portinari, datato al 1287, nel quale lascia del denaro alla figlia, di nome appunto Beatrice. Sempre in tema di scarne notizie cronachistiche, Beatrice andò in moglie, quando era appena un’adolescente, a Simone dei Bardi e sarebbe poi morta di parto. Naturalmente è possibile che Dante si sia inventato Beatrice, ma questo non influenza minimamente la natura dell’amore assoluto  che dura oltre i confini della morte, che pone al centro della sua ispirazione, a iniziare dalla Vita Nuova, concepita fra il  1292 e il 1295. In quest’opera Dante rievoca le occasioni reali in cui il poeta e la fanciulla prima, la donna poi, si sarebbero incontrati.  

Dante nella sua Vita Nuova inserisce 31 liriche scritte da lui stesso nei precedenti dieci anni, sulle quali compie un'operazione di riordino e commento analitico, spiegandone genesi, significato e  struttura: un vero e proprio esercizio di critica letteraria che l’autore compie sulle sue stesse liriche,  riportate nel testo alternandole con parti in prosa, secondo un tecnica definita prosimetro. Dante inizia il racconto del suo amore per Beatrice dal giorno in cui gli apparve per la prima volta all’età di nove anni; nove anni più tardi Beatrice rivolge a Dante il suo primo saluto. Successivamente si ritira per meditare sulla sua amata, addormentandosi, e così gli appare in sogno Amore, che dopo aver fatto mangiare a Beatrice il cuore del poeta, piangendo si allontana verso il cielo insieme alla donna. Per avere una spiegazione della visione Dante invia ad alcuni trovatori del suo tempo il sonetto A ciascun’alma presa e gentil core. Tra le numerose risposte che riceve, una, da parte di Guido Cavalcanti, segna l’inizio di un’affettuosa amicizia tra i due poeti. Dante nasconde il suo amore per Beatrice, fingendo che il suo interesse fosse  rivolto ad un’altra donna (per questo definita donna-schermo), per la quale scrive alcune rime. Compone una lirica che elenca le sessanta più belle donne fiorentine, e al nono posto compare Beatrice. Dopo la partenza da Firenze della donna-schermo, Amore appare al poeta nelle sembianze di un pellegrino e gli indica il nome di un’altra donna da usare come schermo del suo sentimento. Questo atteggiamento espone Dante alla maldicenza della gente, tanto che Beatrice arriva a togliergli il saluto. Afflitto per esser stato privato del saluto dell’amata, Dante si isola da tutti e nel sonno ha una nuova visione di Amore, che lo invita a comporre un testo per confermare a Beatrice la sua fedeltà. In seguito Dante, condotto da un suo amico, incontra Beatrice ad un matrimonio. Alla vista di Beatrice, non riesce a nascondere l’amore per la donna, e per questo le altre donne presenti e lei medesima Beatrice cominciano a prendersi gioco di lui. Dante, umiliato, si ritira nuovamente e compone un sonetto. Nel frattempo muore il padre di Beatrice e il poeta chiede ad alcune donne cosa sia accaduto  per poi comporre altri sonetti. Poco tempo dopo la morte di Beatrice, Dante si ammala, e dopo nove giorni, indirizzato da Amore, descrive in un sonetto a Guido Cavalcanti un’apparizione di Beatrice preceduta da Giovanna-Primavera, la donna amata dal suo amico. Successivamente, descrive i benefici effetti prodotti dall’apparizione e dal saluto di Beatrice sugli uomini in generale e su di lui in particolare, in ulteriori  sonetti. Dopo aver illustrato ciò che lega Beatrice al numero nove e aver ricordato la lettera sulla condizione di Firenze da lui scritta, Dante riprende il filo del racconto della morte della sua amata. Più tardi durante il primo anniversario della morte di lei, Dante si accorge con stupore che ha cominciato a dimenticare Beatrice. Un giorno, però, gli ritorna in mente la donna com’era quando l’aveva incontrata per la prima volta, riprendendo così a pensare a lei. Nell’ultima pagina dell’opera, dopo aver fatto riferimento a un mirabile visione, con la quale sembra riferirsi al paradiso, e quindi al progetto di scrivere quella che diventerà la  Divina commedia, annuncia di non voler più scrivere di Beatrice se non nei termini di quella benedetta che contempla direttamente la gloria di Dio. 

Il Dolce Stil Novo, conosciuto anche come stilnovismo, stil novo o stilnovo, è un  movimento poetico sviluppatosi tra il 1250 e il 1310. Principale responsabile della ricostruzione della sua genesi è Dante, che indica come padre fondatore il poeta Guido Guinizzelli da Bologna, (morto nel 1276). Lo Stil Novo fiorirà ulteriormente, nell’ultimo scorcio del ‘200, a Firenze, per poi estinguersi ma influenzare ancora la poesia di Francesco Petrarca nel Trecento. Caratteristica peculiare dello stilnovismo è l’aver messo in secondo piano la  sofferenza dell'amante, per dare piuttosto centralità alla celebrazione delle doti spirituali dell'amata, a prescindere dalla corresponsione o meno del sentimento amoroso. L'origine della denominazione di questa corrente si rintraccia nella Divina Commedia di Dante Alighieri, precisamente nel canto XXIV del Purgatorio: l’anima del rimatore guittoniano Bonagiunta Orbicciani da Lucca definisce infatti la canzone dantesca Donne ch'avete intelletto d'amore con l'espressione dolce stil novo e al contempo rende note le caratteristiche del poetare di cui stiamo trattando. Con tale stile  si affermava un nuovo concetto di amore desiderato e pressoché impossibile, che non prescinde dalla tradizione culturale e letteraria trobadorica e siciliana, ma introduce una nuova concezione del femminile, spiritualizzato ovvero angelicato:  la donna, nella visione stilnovistica, ha la funzione di indirizzare l'animo dell'uomo verso la sua nobilitazione e sublimazione, raggiungibile nell'Amore assoluto, a sua volta identificato con la purezza attribuita al regno divino. La donna angelicata, che nello stilnovo è identificata da un più o meno parlante nome proprio (Beatrice che corrisponde a colei che rende beati), è oggetto di un amore  platonico e inattivo: non si tratta più, infatti, come avveniva nella letteratura cortese, di cercarla e conquistarla, dato che parlare di lei (poetare per lei) è pura ascesa e nobilitazione dello spirito, puro elogio e contemplazione descrittiva-visiva, che consente al poeta di mantenere sempre intatta e potente la propria ispirazione, in quanto diretta a un oggetto volontariamente cristallizzato e, appunto, irraggiungibile.  

Virginia, Francesco, Giuseppe, Matteo  

SINTESI PER PUNTI DELLA LEZIONE INTRODUTTIVA ALLA VITA NUOVA

  •  La Vita nuova è un’opera giovanile di Dante: la concepisce e scrive fra il 1292 e il 1296.
  •  Aveva già composto molte poesie, confluite poi nelle Rime e probabilmente  anche  il Fiore (1283-1287), una raccolta di 232 sonetti che compendiano il Roman de la Rose, un poema allegorico in lingua d’oil e in  ottosillabi (come Lancillotto),  iniziato nel 1237 da Guillaume de Lorris, che ne scrisse 4058 versi, e completato nel 1280 da Jean de Meung, che scrisse più di 18000 versi.  
  • Chrétien de Troyes,  Andrea Cappellano, in latino il suo trattato De amore, operano presso Maria di Champagne, nel XII secolo.
  • Stesso periodo, nel sud della Francia e in lingua d’oc, fiorisce la lirica trobadorica, accompagnata da musica, destinata a diffondersi in Italia settentrionale, in Sicilia alla corte di Federico II, in Spagna, in Grecia, in Germania, dove  dà luogo al Minnesang. I trovatori cantano in lingua d’oc, mentre le stesse tematiche in lingua d’oil vengono cantate dai trovieri.
  • Nel XIII secolo, i luoghi in cui ulteriormente si elabora la tematica amorosa in poesia sono la corte di Federico II di Svevia e di suo figlio Manfredi, con una massima fioritura fra il 1230 e il 1250 (scuola siciliana, che si esprime in volgare siciliano illustre), Bologna (con Guido Guinizzelli, attivo tra il 1235 e il 1276), la Toscana (con Bonagiunta Orbicciani da Lucca, Chiaro Davanzati, Compiuta Donzella). Contemporaneo è anche Guittone d’Arezzo, la cui vena è molto variegata, spaziando dal tema amoroso a quello politico e quello religioso. Nalcanto XXIV, vv. 52-63, lo stilnovismo viene così delineato:

E io a lui: «I’ mi son un che, quando 
Amor mi spira, noto, e a quel modo 
ch’e’ ditta dentro vo significando».

«O frate, issa vegg’io», diss’elli, «il nodo 
che ‘l Notaro e Guittone e me ritenne 
di qua dal dolce stil novo ch’i’ odo!

Io veggio ben come le vostre penne 
di retro al dittator sen vanno strette, 
che de le nostre certo non avvenne;

e qual più a gradire oltre si mette, 
non vede più da l’uno a l’altro stilo»; 
e, quasi contentato, si tacette.

  • Nel canto XXVI del Purgatorio l’agens incontra Guido Guinizzelli, al quale invece riconosce di essere stato un suo ispiratore: di qui l’idea che questo poeta bolognese sia stato un precursore dello stilnovismo, in quanto sentito come tale da Dante:

E io a lui: "Li dolci detti vostri,
che, quanto durerà l’uso moderno,
faranno cari ancora i loro incostri".

  • Allo stilnovismo fiorentino partecipano poi Dante, Guido Cavalcanti, Lapo Gianni, tutti e tre attivi, in ambito stilnovistico, nell’ultimo scorcio del XIII secolo.
  • (i componimenti sono sempre intitolati attraverso il primo verso: Guido, ‘vorrei che tu e Lapo ed io)

Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io
fossimo presi per incantamento
e messi in un vasel, ch’ad ogni vento
per mare andasse al voler vostro e mio;

sì che fortuna od altro tempo rio
non ci potesse dare impedimento,
anzi, vivendo sempre in un talento,
di stare insieme crescesse ’l disio.

E monna Vanna e monna Lagia poi
con quella ch’è sul numer de le trenta
con noi ponesse il buono incantatore:

e quivi ragionar sempre d’amore,
e ciascuna di lor fosse contenta,
sì come i’ credo che saremmo noi.

Una breve analisi

Il condizionale vorrei, nel primo verso, sostiene  il componimento fino al penultimo verso, inanellando 8 congiuntivi subordinati a questo verbum voluntatis, e inserendo solo all’ultimo verso un’altra subordinazione di tipo comparativo, sì come i’ credo e una subordinata oggettiva di nuovo al condizionale. L’analisi sintattica, nella sua fredda eloquenza, ci mette di fronte a una rivelazione di significato molto interessante: il poeta sta tessendo un’immaginazione, un sogno, che si rafforza per via del ricorso a un verbo che fa appello a una facoltà attraverso cui gli esseri umani possono determinare il loro destino, la volontà. Questa volontà, per quanto condizionata, può produrre molti effetti, in primo luogo quello di unire tra loro i protagonisti del sonetto, amici e amiche, in una condizione di corrispondenza d’amorosi sensi (come si esprimerà, a secoli di distanza in altro contesto poetico Foscolo) capace di produrre una contentezza che il poeta crede possibile.

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CANTO IV e V - MATERIALI UTILI da aggiungere agli appunti presi durante le lezioni

CANTO IV

Il passaggio del limes è avvenuto prodigiosamente: il III canto si è chiuso con un lampo e lo svenimento, il IV si apre con un greve truono, un suono cupo, che risveglia il viator. Ricuperata la vista, egli si guarda intorno e vede una valle d’abisso dolorosa, che ‘ntrono accoglie d’infiniti guai ovvero una concentrazione di dolori che risuona di infiniti lamenti, un immenso burrone dal quale promanano suoni laceranti. L’inferno urla ed è oscuro, profondo e il viator deve presto arrendersi (v.12) non vi discernea alcuna cosa. Quanto alla sua guida, è addirittura impallidita: tutto smorto è Virgilio, che lo invita a seguirlo nel cammino. Il viator, accortosi del color assunto dal viso di Virgilio, manifesta la sua preoccupazione: come faccio a seguirti, gli dice, se tu che sei solito rassicurarmi hai paura? Virgilio, lo rassicura: non è paura, quella che gli legge sul viso il discepolo, ma pietà, ossia quella compassione con la quale sappiamo quanto sia necessario ingaggiare una lotta scendendo nell’inferno. Si entra, dunque nel primo cerchio, dipinto per cominciare attraverso i suoni, sospiri che fanno tremare l’aria, poi immagini: turbe numerose di infanti, donne, uomini che non sono sottoposti ad alcuna punizione specifica (martìri) ma pure soffrono. Virgilio sollecita una domanda da parte di Dante, e si risponde prima che questi possa prendere la parola: non sono peccatori questi spiriti, ma i loro meriti non sono sufficienti a renderli degni d’altra collocazione (questo è sottinteso) perché no furono battezzati; se vissero in tempi precristiani, poi, e tra questi Virgilio si annovera, non adorarono debitamente Dio. Per tai difetti, e non per altro rio semo perduti, e sol di tanto offesi che sanza speme vivemo in desio. Suonano, questi versi, come un’addolorata, mestamente addolorata, epigrafe sul limbo di cui Virgilio fa parte: luogo in cui il desiderio si eterna e fa soffrire, trattandosi del desiderio fondamentale, quello che ha per oggetto la verità, la luce, ossia Dio. Dante prova a sua volta un intenso dolore, che si rapprende in una domanda: è mai uscito qualcuno dal limbo? Qualcuno di questi condannati per nessuna colpa ha mai raggiunto il paradiso? Allude, Dante, e Virgilio non può non accorgersene: nel Vangelo è scritto che Cristo scese, prima di risorgere, nell’inferno e vi avrebbe piantato il suo vessillo, oltre ad aver condotto con sé in Paradiso Adamo, Abele, Noè, Mosè e la sua discendenza. Virgilio  conferma che, quando lui si trovava da poco nel limbo, Cristo fece la sua comparsa e condusse per la prima volta tutti costoro in paradiso (dinanzi a essi, spiriti umani non eran salvati). Condotta a termine questa spiegazione, l’attenzione del viator è attratta da una foco, una luce, che riesce a vincere il buio dell’inferno. Si inanella una serie di terzine in cui domina un campo semantico legato al termine onore, volto a predisporre l’arrivo di quattro grand’ombre, dall’aspetto né triste né lieto, una delle quali ha una grande spada in mano: è Omero, poeta sovrano, insieme a Orazio satiro, Ovidio e Lucano. Si uniscono a loro e il viator ha buon agio di celebrare un momento per lui di grande piacere: sesto fra cotanto senno. I discorsi tra loro non vengono riportati (parlando cose che ‘l tacere è bello),  e avanzano fino a un castello, dal quale promana la luce di cui sopra, che rappresenta un inatteso locus amoenus: circondanto da sette mura, da un fiume, chiuso da sette porte, contiene al suo interno un prato verdeggiante, dove s’incontrano ancora tante persone, dall’aspetto autorevole. Sono gli spiriti magni la cui vista produce ancora uno stato di esaltazione anche nell’agens. L’elenco che segue spazia dalla letteratura alla storia, evidente omaggio al maestro: Ettore, Enea, Elettra, Camilla, Pentesilea (regina delle Amazzoni),Latino, Lavinia, Bruto che cacciò Tarquinio, Lucrezia, Giulia, Marzia, Cornelia, e, tutto solo, il Saladino. Poi Socrate, Platone, Democrito, Diogene, Anassagora, Talete, Empedocle, Eraclito, Zenone, Orfeo, Euclide, Avicenna e Averroè. Sono così tanti, che non può scriverli tutti, la camminata si interrompe, Virgilio e Dante rimangono soli e procedono verso il buio totale. 

CANTO V  per punti (con nozioni fondamentali per l'insieme)

          

·         Si passa dal primo al secondo cerchio, dal limbo al cerchio dei lussuriosi. La lussuria è il primo dei sette peccati capitali a essere punito. Seguiranno:  GOLOSI (III cerchio),  AVARI E PRODIGHI (IV), IRACONDI E ACCIDIOSI (V), poi  mura della città di Dite, ERETICI (VI),  VIOLENTI (VII) suddivisi in contro il prossimo, contro sé stessi e contro Dio-natura-arte, cioè bestemmiatori, sodomiti, usurai, FRAUDOLENTI (VIII) divisi in malebolge di mezzani, adulatori, simoniaci, indovini, barattieri, ipocriti, ladri, consiglieri fraudolenti, seminatori di discordia, falsari, TRADITORI (IX) divisi  nelle quattro zone di caina, antenora, tolomea e giudecca, corrispondenti rispettivamente a chi tradisce parenti, patria, ospiti, benefattori.

·        Dei sette peccati capitali mancano invidia e superbia, inserite invece in purgatorio.

·        L’auctor ci informa all'inizio del canto che il cerchio è più stretto del precedente (l’inferno è un imbuto), ma il dolore  è maggiore e i dannati si lamentano e imprecano..

·        A guardia del cerchio si trova Minosse, mitico re di Creta, da Dante degradato sotto tutti i profili (è  mostro che ringhia e ha la coda) e come una caricatura di giudice, giacché non ha alcun potere decisionale, ma solo esecutivo; anche  il modo in cui esprime le sentenze è caricaturale.  

·        Tenta di fermare il viator, ma il viaggio è “fatale”.

·        L’auctor introduce alcune notazioni su suoni e  colori: regna l’oscurità e l’aria rumoreggia tempestosamente, presagio della punizione del contrappasso.

·        Un turbine eterno, che non cessa di bistrattarle, causando i loro lamenti, grida, bestemmie.

·        A un certo punto cambia il  tono della poesia:  similitudini  molto delicate, aeree,  che equiparano i dannati a stornelli, poi a gru (infine colombe, richiamate dal desiderio,  Paolo e Francesca).

·        Dante si rivolge a Virgilio per sapere chi siano le anime percosse dalla tempesta: il maestro gli risponde con un elenco. Torna il motivo della pietà dell'agens,   che gli fa quasi smarrire i sensi.

·        Visione di due anime che procedono leggere e unite; per descriverle l’auctor si serve della citata similitudine con  colombe richiamate dal desiderio.

·        A parlare, e così sarà per tutto il dialogo, è solo una delle due, che si esprime in toni gentili (da cor gentil...) dicendo che se il re dell’universo (Dio, che non può essere nominato ma solo alluso per perifrasi) fosse loro amico, lo pregherebbero per Dante.

·         L’amore ha determinato la vita e la morte dei due, che continuano (e ciò viene sottolineato) a stare insieme, mentre caina attende il loro uccisore.

·        Dante ascolta e prova un forte turbamento, finché Virgilio non lo distoglie da esso chiedendogli  a cosa pensi. La risposta lascia spazio a interpretazioni: pensava a quanta dolcezza, a quanto desiderio condussero i due alla scelta dolorosa. Forse pensava anche a sé stesso in frangenti simili. 

·        Prende quindi a parlare rivolgendosi all’anima come a persona nota, di cui sa il nome, Francesca, e le rivolge una domanda straordinariamente intima: come giungeste alla reciproca rivelazione dell’amore?

·        Francesca risponde con quella che possiamo intendere come una velata critica alla domanda: non c’è cosa peggiore che ricordarsi del tempo felice quando si è nel dolore. Si dice però disposta al sacrificio di rispondere, se il desiderio di sapere di Dante è tanto intenso.

·        Il racconto è sobrio e coinvolgente: stavano leggendo insieme dell’amore di Lancillotto per la regina Ginevra, quando in un crescendo iniziarono a turbarsi finché un  passo in particolare li travolse, quello in cui il paladino bacia il sorriso della regina. Dall’immaginazione alla realtà: anche “questi”, come lo nomina Francesca, la bacia. La lettura non prosegue, si apre un’altra ellissi accompagnata dal pianto dello spirito che non ha detto una parola. La compartecipazione e la pena di Dante sono così profonde, che egli si sente morire e perde coscienza. 

U Un trafiletto di cronaca, una pura invenzione romanzesca, l’ennesima variazione su tema di un topos vecchio (diventato vecchio) come il mondo, nella realtà come nell’immaginazione. Tanto basta per scrivere 21 terzine nelle quali viene immortalato l’amore che rende folli e  che ha il suo naturale porto all’inferno.

 




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