DISPENSA PER L'ANNO SCOLASTICO 2022/2023: ITALIANO
DISPENSA DI LETTERATURA ITALIANA
IV ANNO
INDICE
PREMESSA ................................................................................................ 3
QUADRO CRONOLOGICO
Terminologia,
date e nomi............................................................................ 5
INTRODUZIONE
Umanesimo
e Rinascimento, due epoche che sognano................................ 6
IL SOGNO DEL PASSATO
Forma
e contenuto ovvero stile e educazione................................................ 9
IL SOGNO DEL PASSATO
Moralità.......................................................................................................
13
ARIOSTO...................................................................................................
17
IL SOGNO DEL FUTURO
Pensiero
e immaginazione........................................................................... 24
IL SOGNO DEL FUTURO
Tutto
in un punto........................................................................................
28
MACHIAVELLI........................................................................................
30
RABELAIS.................................................................................................
37
CERVANTES.............................................................................................
44
TASSO........................................................................................................
56
CALDERON DE LA BARCA...................................................................
67
DAL MANIERISMO AL BAROCCO...........................................................
75
COMMEDIA DELL’ARTE
Dal
re del Carnevale a Zanni......................................................................
81
GOLDONI..................................................................................................86
ILLUMINISMO.........................................................................................
93
NEOCLASSICISMO.................................................................................
97
ALFIERI ...................................................................................................
99
ROMANTICISMO....................................................................................103
GOETHE....................................................................................................111
FOSCOLO.................................................................................................121
BIBLIOGRAFIA........................................................................................139
PREMESSA
Questa
dispensa rappresenta un primo esperimento, da parte mia, di didattica capovolta adattata alle peculiarità della
disciplina oggetto di trasmissione, ovvero la letteratura italiana. La metto a
disposizione come file in google drive, condividendo il link (accessibile a
tutti) su due miei blog, rispettivamente intitolati Plancton e Riveder le stelle.
I miei studenti potranno, a seconda dei loro metodi di ascolto in classe e di
studio a casa, servirsene in forma esclusivamente elettronica o esclusivamente
cartacea (la stampa eventuale è a loro
cura) o ancora alternativamente nell’una e nell’altra. In ogni caso, dato che
il file resta a disposizione, sarà sempre possibile accedere a quello della versione
originale, mentre ogni studente potrà personalizzare con appunti e inserimenti
di testo la propria dispensa.
In
occasione di ogni lezione in classe assegnerò un certo numero di pagine della
dispensa da leggere con attenzione (secondo la didattica capovolta si tratta di
un vero e proprio studio preliminare),
annotandosi passaggi in merito ai quali chiedere chiarimenti, perché in classe
si possa procedere con un’attività di consolidamento della comprensione della
dispensa e, soprattutto, con la proposta di argomenti (autori, passi di testi)
da approfondire per farli diventare saggi scritti da condividere anche
attraverso esposizione agli altri. A tutti gli studenti è data la possibilità
di scegliere in quale forma procedere con la dimostrazione di aver assimilato e
di essere stati stimolati dagli argomenti proposti: 1) compiendo una ricerca
(approfondimento) guidato dall’insegnante; 2) predisponendo uno scritto inerente agli
argomenti proposti, concepito secondo una griglia data dall’insegnante (in
questo caso non è richiesto approfondimento, ma restituzione del materiale dato,
rispondendo a domande concettuali), e sapendolo esporre oralmente. Ne consegue
che le forme di verifica siano di quattro tipi differenti: verifica scritta
sotto forma di ricerca; verifica orale sotto forma di esposizione alla classe
della ricerca medesima; verifica scritta strutturata dall’insegnante su
argomenti trattati (nella dispensa e/o da altri studenti); esposizione orale
ricavata da quest’ultima verifica scritta. Tutti gli studenti dovranno comunque
essere valutati, sul materiale o a partire dal materiale delle dispense, da tre
a cinque volte circa, con almeno due valutazioni orali nel primo trimestre e
tre nel pentamestre. Tali valutazioni sono comunque da considerare a parte rispetto a quelle degli svolgimenti
scritti effettuati in classe, come temi delle tipologie previste dall’esame di
stato attualmente in vigore.
La
dispensa rende possibile agli studenti interventi diretti sul testo con note esplicative, testi
aggiuntivi e quanto ritengano utile a rendere il materiale personalizzato in modo
da favorirne lo studio, annullando la necessità di ricorrere a lezioni
esclusivamente frontali e riducendo anche la necessità di servirsi di libri di
testo.
Fortemente
raccomandato, invece, il ricorso a edizioni integrali e cartacee di alcune
delle opere prese in esame: Orlando
furioso, Mandragola, La vita è sogno,
Locandiera, Mirra. Quanto agli altri
materiali citati o analizzati nella dispensa, essi sono disponibili on line e
ho sempre indicato in nota e/o in una bibliografia e sitografia al fondo, ove
reperirli, compresi link per ascolti musicali o rappresentazioni teatrali a
disposizione su you tube che corredano alcuni percorsi di studio.
Infine,
qualche ulteriore precisazione su peculiarità della dispensa, che, essendo messa a disposizione su blog
pubblici, è leggibile da chiunque. L’ho concepita a partire da mie lezioni
frontali, frutto di ricerche e analisi del testo realizzate nel tempo,
rielaborate alla luce di ulteriori letture condotte recentemente. Dato che la
finalità fondamentale è quella di evitare, o meglio rendere marginali, proprio
le lezioni frontali, sostituite da
rielaborazioni guidate e approfondimenti realizzati da studenti, accade che nel
testo io accenni a qualche autore o tematica, in modo da suscitare curiosità in merito che
possano dare luogo a elaborazioni da
parte degli allievi. Queste ultime potranno poi essere integrate nel testo
della dispensa, che quindi ha le caratteristiche di un lavoro in permanente
cambiamento e destinato a diventare collettivo, così come in effetti, nella
migliore delle realizzazioni possibili, potrebbe essere il lavoro scolastico. Quanto
all’impostazione complessiva, è tradizionalmente storicistica e, come ormai è
prassi anche nella didattica più tradizionale, comprende autori non solo italiani,
ma francesi, spagnoli e tedeschi, escludendo inglesi e americani dal momento
che, nel corso di studi scientifico, questi vengono trattati nell’ambito della
disciplina corrispettiva svolta da altro insegnante. Come scelte espressive, ho
eliminato il più possibile il ricorso alla lettera maiuscola, per esprimere
così quello che, in un celebre intervento sull’uso delle maiuscole
nell’italiano contemporaneo, il linguista Nencioni definisce sentimento della lingua. Ho sostituito
quasi sempre al termine uomo quello
di essere umano, mentre nell’insieme della dispensa non si è posta la questione
di genere per quanto riguarda gli autori, che sono tutti uomini. Alle
scrittrici dedicherò attenzione esclusiva nella prossima dispensa, corredata da
adeguata introduzione.
QUADRO
CRONOLOGICO
Terminologia, date e nomi
PER
LA STORIA LETTERARIA E ARTISTICA
1300:
umanesimo
1400-1500:
rinascimento
1500-1600:
manierismo e barocco
1700-1800:
neoclassicismo e protoromanticismo (Sturm
und Drang)
1800:
romanticismo
PER
LA STORIOGRAFIA
1492:
inizio dell’ETÀ MODERNA (traversata oceanica di Colombo, reconquista dei re cattolici e cacciata da Granada dei musulmani; riforma
luterana e 95 tesi Wittenberg, 1517; concilio di Trento e controriforma,
1545-’63; nascita dello stato moderno)
1492-1681:
SIGLO DE ORO, PRIMA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE (apogeo e caduta dell’impero
spagnolo, colonialismo, sviluppo industriale in Gran Bretagna)
1700:
età dell’ILLUMINISMO, delle MONARCHIE ILLUMINATE, delle RIVOLUZIONI BORGHESI
(americana, francese)
1800:
età del RISORGIMENTO, degli STATI NAZIONALI, della SOCIETÀ DI MASSA, dellla SECONDA
COLONIZZAZIONE, delle MIGRAZIONI
PER
LA FILOSOFIA E LA STORIA DEL PENSIERO
1500-1600:
rivoluzione copernicana e galileiana
1600-1700:
messa in discussione definitiva del principio di autorità religiosa legata alla
sacralità della Bibbia
1800:
idealismo e positivismo; materialismo storico.
INTRODUZIONE
Umanesimo e Rinascimento, due
epoche che sognano
Gli antichi, greci e romani indistintamente, tendevano a personificare. Una
loro figura retorica prediletta è la prosopoea,
personificazione, ossia προσωποποιία (latinamente personarum
confictio) con la quale si conferisce sostanza individuale a qualcosa che ne è privo o ne ha poca:
astrazioni come l’occasione,
diventano ad esempio kairòs, o meglio
ancora Kairòs[1],
personificazione divina del momento fatale in grado di produrre svolte nelle esistenze
umane. L’espressione rientra poi nel
contesto teatrale, come documenta il latino, giacché la confictio,
letteralmente finzione, di personaggi
rappresenta una sorta di soggetto
collettivo, una voce corale, che raccoglie in sé gli avi o la societas nel suo insieme. Colto alle sue
origini, il fenomeno della personificazione contribuisce all’ampliamento del pantheon sempre più fittamente popolato
delle due culture: Eris, Ate, Deimos e Phobos, ovvero Contesa,
Inganno, Terrore, Paura, entrano a farne parte sia col contributo dei
tragediografi del V secolo a. C. (Eschilo, Sofocle, Euripide), sia con quello
originario di Omero, col quale risaliamo almeno fino all’VIII. Le
personificazioni, di cui si servono appunto tanto Omero quanto i tragici, sono incarnazioni
di concetti e la rappresentazione artistica, anche quella iconografica, è
la prima ad aver dato spazio a queste figure. Difficile stabilire se il gusto
di rappresentare abbia o meno precedutol’elaborazione dei concetti. In ogni
caso, per arrivare a collegare questa premessa alla presentazione del periodo
umanistico e rinascimentale, ricordo che tra le personificazioni più antiche figura Hýpnos, il Sonno, parente stretto del Sogno, Óneiros, entrambi citati nella Teogonia di Esiodo, poeta greco del
VII-VI secolo a.C., autore della più vasta e accurata riproduzione di miti a
noi pervenuta dai primi secoli della poesia. Figlio della Notte e di Hérebos, e gemello di Thànatos
(Morte), è probabile, secondo i poeti che ne cantano le gesta, che Hýpnos vivesse negli Inferi, intento a
svolgere ruoli cruciali in diversi miti dalle molteplici diramazioni: uno fra
tutti, quello in cui appare come un giovane alato e impegnato a percorrere le vie del mondo per addormentare
uomini e cose. Quanto all’Óneiros,
fratello del primo, non gli viene attribuita una vera e propria personificazione,
per quanto accada che una divinità
potente, in genere Zeus, se ne serva come emissario di comunicazioni per
qualcuno che necessita di essere consigliato: è il caso di Agamennone durante
la guerra di Troia, raggiunto da un Óneiros
che lo incita a combattere, assumendo la voce e le sembianze del saggio
Nestore.
I sogni, dunque, sono ora il mio approdo
per introdurre le epoche di cui stiamo per occuparci. Dal territorio mitico in
cui li si delinea in origine, complice la personificazione, al fine di
riconoscere la loro importanza consistente
nella vita degli esseri umani, accenno ora alla valenza che ai sogni è stata
riconosciuta dalla psicologia, psicoanalisi soprattutto, quanto alla loro funzione di contenere messaggi
dell’inconscio, di quello individuale come del collettivo. A questo proposito,
avvicinandomi sempre più al cuore del discorso, ricordo che per quanto i sogni
rappresentino un’esperienza dei singoli, alla quale si associa una loro
difficile, ardua, comunicabilità, essi non di rado sono stati esperienze
collettive e condivise, documentate una volta di più soprattutto, ma non solo,
in sede artistica. Arrivo al punto. Tra le possibili continuità ravvisabili tra
due epoche contigue e affini come umanesimo e rinascimento ve n’è una che segue
proprio il filo del sogno. Sì, anche le epoche, ossia le collettività umane che
si raccolgono sotto il loro segno, sognano. Nel senso che a un certo punto
alcuni concetti, concetti astratti che potrebbero essere destinati a perdersi
nell’etere e a non lasciare tracce, ovvero memorie, diventano così potenti
motivi ispiratori da trasformarsi in qualcosa di concreto come una poesia, una rappresentazione, un poema, un
saggio, un dramma, una traduzione. Se ammettiamo quindi che le epoche sognino, possiamo anche provare a
indicare quale sia il sogno dominante delle due di nostro interesse.
Il sogno dell’umanesimo, come si può evincere già dalla denominazione,
è di istituire il regno delle humanae litterae. Il sogno
dell’umanesimo è, almeno in parte, un sogno del passato. Di quello
che c’è stato, con quel quid di
nostalgia che ammetterlo (ammettere che sia
stato) comporta, e di quello che non c’è stato ma sarebbe pur potuto
esserci e, quindi, almeno nella memoria, e un po’paradossalmente, può essere (ri)prodotto. Entrando in
qualche iniziale dettaglio, gli umanisti, col loro sogno del passato, anzi, per dare forma e guidare azioni col loro sogno
del passato, vogliono ritornare a
possedere le conoscenze culturali degli antichi, con la convinzione che essi
avessero raggiunto una cima, da cui successivamente (nel medio evo, età di mezzo, alla cui definizione dispregiativa non a
caso hanno contribuito proprio loro, quelli venuti
dopo) si era precipitati. Di qui la passione filologica, che si manifesta
in inesausta ricerca di manoscritti, e che conduce a pellegrinare per l’Europa,
come già abbiamo visto, uno tra i primi umanisti, Petrarca. Ma questo sogno, per arrivare ad avere la consistenza alla quale le
personificazioni aspirano, deve ulteriormente precisarsi nei suoi obiettivi
ultimi: ritrovare opere del
passato significa per gli umanisti avere a disposizione dei modelli. Il sogno
del passato, dunque, è anche sogno di
una ripetizione. Gli umanisti si
pongono come obiettivo l’aemulatio,
raggiungere e superare i modelli passati, possibilmente su due piani. Quello
artistico, ma pure quello morale. Gli umanisti credono infatti che la civiltà
antica abbia elaborato una concezione dell’essere umano particolarmente raffinata,
alla quale fa riferimento il termine umanesimo in sé stesso: filosofia dell’essere umano, con pieno
riconoscimento di quello che nobilita principalmente quest’ultimo, ovvero la ratio, una ragione che, certo, va
conciliata con la religione,
trasformata in docta religio magari,
sintesi di filosofica antica e
cristiana.
Il sogno del rinascimento è più ambizioso di quello umanistico: non è sogno
di una ripetizione ma di un rinnovamento.
Non sogno del passato, ma sogno del futuro. Anche i rinascimentali sono spesso
in ammirazione e contemplazione del passato, dell’antico, ma di questo fanno un
punto di partenza e non d’arrivo. Si situano oltre l’emulazione, non si
lasciano intrappolare nella convinzione che sia stato raggiunto un vertice una
volta per tutte, ma elaborano a loro volta un nuovo mito, che contiene in sé
appunto l’idea di un progresso possibile. Per definire questa differenza mi limito a un
esempio: il rinascimento predispone, prepara e ospita una rivoluzione, quella copernicana del 1500,
vero terremoto nel mondo delle idee. L’eliocentrismo scardina il geocentrismo e
impone di fare i conti con la
relatività, in una sua prima formulazione ancora distante da quella cui
perverrà nel novecento Einstein. Per una rivoluzione così, occorre che il
sognatore, l’epoca in questione, si fidi molto di sé, sia anche molto ambiziosa
e predisposta all’hybris, costi
quello che costi. Mi servirò, per dimostrare quanto sia necessario coltivare
sogni rivoluzionari e arditi al fine di dare spazio a una differenza così
sostanziale fra le due epoche, di un’opera letteraria in modo particolare: L’Orlando furioso di Ludovico Ariosto,
poema che non sarà possibile riassumere ma dovrà essere letto a due livelli.
Quello macroscopico, del labirinto che si vede dall’alto con la sua geometrica
perfezione, e quello microscopico, delle tracce che lasciano gli esseri umani
erranti percorrendone le vie incomprensibili e ingannevoli, che però conducono
pur sempre da qualche parte, quand’anche tornino indietro e si ripetano,
identiche o a poca distanza, come vogliono i labirinti meglio concepiti, quelli
che non restano uguali a se stessi nel tempo, ma cambiano forma a seconda di
chi racconta cosa sia accaduto quando li ha percorsi, di quanto riesce a
ricordare e da come ricorda.
Prima di introdurre e analizzare l’Orlando
furioso, però, propongo un percorso attraverso pochi scrittori del periodo
umanistico, per dare un po’ di consistenza al sogno del passato di cui ho scritto.
.
IL
SOGNO DEL PASSATO
Forma e contenuto ovvero stile e
educazione
Si tratta ora di conoscere alcune figure di umanisti. Sottolineo il
plurale: non esiste un tipo di umanista,
ma diversi profili, alcuni certo più incisivi di altri, ma tutti in grado di
concorrere per dare appunto fondamento allo studio di questo periodo. Gli
umanisti sono spesso anche, talvolta soprattutto, filosofi. Nel senso
etimologico del termine, ossia persone che utilizzano la filosofia per
comprendere il mondo, la realtà, la metafisica, l’arte e il linguaggio. Ci
vogliono competenze multiple, per ottenere
(o avvicinarsi a ottenere) questo risultato, ed è per questo che gli
umanisti sono così tanto rivolti al passato. Nei testi latini e greci, anche in
quelli arabi ovviamente, è contenuto tanto pensiero che si può rendere
ulteriormente funzionale ai tempi. Preciso questa aderenza degli umanisti al
tempo, perché ovviamente la loro formazione tende a essere storicista, tendono
a essere cultori del passato che vivono nel presente e progettano,
predispongono a un futuro sia pure (fermo restando il distinguo iniziale) senza quella vis rivoluzionaria che apparterrà come segno distintivo al
rinascimento. Da notare che in questa progettazione del futuro è pur compresa
una forte componente religiosa, in grado di armonizzarsi con visioni laiche,
naturalmente, com’è proprio dell’anima umanista quale si può già cogliere, a
ben vedere, in Dante. Mi soffermo brevemente su questo punto: se c’è un cultore
delle humanae litterae, un umanista precursore, questo certo è Dante nel IV canto dell’Inferno. Tralasciando la notazione
suggestiva, ossia il fatto che il canto intero sia una specie di monumento
eretto in omaggio alle biblioteche, estrosamente condotto rendendo quella del
limbo una paradossale biblioteca vivente,
dove sono dei morti a mostrare la loro intatta vitalità, consideriamo il fatto
che Dante renda Omero, Virgilio, Ovidio, Orazio e Lucano altrettanti pilastri
di una costruzione artistica concepita
per contenere il senso del mondo della sua epoca. Sotto questo profilo la Divina commedia è esattamente il miglior
risultato artistico che un umanista potrebbe desiderare, mettendo a frutto la sapientia degli antichi e creando così
una perfetta sintesi di forma e di contenuto. Rem tene, verba sequentur, possiedi la materia e le parole verranno
di conseguenza, unito a vir bonus dicendi
peritusi, si saldano a costituire al tempo stesso punto di partenza e punto
d’arrivo di una ricerca filosofica che è davvero arduo stabilire se sia laica o religiosa
ovvero pagana o cristiana.
Anche se le distinzioni sono fondamentali, rappresentano un armamentario dal
quale non si può prescindere, pure è importante occasionalmente liberarsene per
scoprire illuminanti contiguità, assolute coincidenze e arditi ossimori.
Ma arrivo a un autore, come
promesso: l’umanista filosofo Marsilio Ficino. Nato a Figline Valdarno nel 1433,
e morto a Careggi nel 1499, autore di un ampio lavoro di traduzione e di
commento dell'opera di Platone, di Plotino e degli scritti ermetici. Nella Teologia platonica (1469-74), contro gli
sviluppi naturalistici e irreligiosi dell'aristotelismo, propone la ripresa del
pensiero platonico e ne mostra l'affinità con il cristianesimo. Per via di un innesto con la speculazione
orientale e greca, Ficino elabora una filosofia
religiosa, segno per lui della presenza del Verbo nella storia, in cui rientrano Zoroastro e Mosè, Ermete Trismegisto e Platone, i pitagorici e i
neoplatonici, per poi trovare un
coronamento nel cristianesimo. In
alternativa al naturalismo aristotelico e soprattutto averroistico,
questa filosofia cristiana è per Ficino
una via di liberazione dal mondo
sensibile e una fuga verso il Vero, ossia Dio, reso manifesto nel Verbo
incarnato, ossia Cristo. Centrale in Ficino è il tema della dignità
dell’essere umano, ripreso da Pico della Mirandola in anni di poco successivi
(1486, De dignitate hominis). Oltre
al contenuto relativo alla centralità dell’uomo e al suo costituire in sé
stesso un microcosmo che riproduce umano e divino, verso i quali può dirigersi, a seconda delle proprie
aspirazioni e per una volizione della quale è responsabile sempre, è
fondamentale sottolineare come sia Ficino sia Pico sottraggano al controllo
esclusivo dei teologi argomenti ritenuti religiosi, trattandoli in una
prospettiva umanistica, ovvero laica. Si tratta di un cambiamento
sostanziale, nella direzione di un affrancamento dalle gerarchie metafisiche e
teologali, che dunque si predispone in età umanistica dando luogo a quella
continuità fra umanesimo e rinascimento che è probabilmente la caratteristica
saliente della quale tenere conto in ogni caso nel trattare l’argomento.
Un discorso affine riguarda l’importante questione del nesso fra studia humanitatis e formazione morale e
civile, nonché funzione dei dotti (saggi, sapienti, studiosi) all’interno della
società. Persino la filologia, per quanto studio eminentemente tecnico, può
essere messa al servizio, nella prospettiva umanistico-rinascimentale, del
libero e critico pensiero che contraddistingue coloro che non si appagano di
verità stabilite una volta per tutte da auctoritates,
ma rivendicano il diritto all’indagine e al vaglio costante delle fonti
utilizzate. Per esemplificare questo nuovo argomento, scelgo di trattare del
contributo dato dall’umanista Lorenzo Valla, vissuto fra il 1407 e il 1457, il
quale scrive un testo intitolato De falso
credita et ementita Constantini donatione declamatio, ovvero una
puntualissima disamina di tutte le prove adducibili per dimostrare come il
documento citato nel titolo altro non fosse che un falso storico, dal quale sarebbero però derivate vere conseguenze nella storia delle
relazioni fra papato e impero e, ovviamente, di tutti gli esseri umani vissuti
sotto l’egida di entrambi ma soprattutto
in balìa delle lotte quasi permanenti fra i due poteri. Valla sviluppa
quindi la questione della falsità del
documento di donazione che avrebbe siglato l’imperatore Costantino a favore del
papa Sivestro I nel IV secolo, assegnandogli de iure e de
facto la sovranità dell’impero d’occidente.
Non mi accingo a scrivere per vanità di accusare e
lanciare filippiche: questa che sarebbe una turpe azione sia lontana da me; scrivo,
invece, per svellere l’errore dalle menti, per allontanare con moniti e
rimproveri, dalle colpe e dai delitti...”,
si legge nell’introduzione, in cui Valla dichiara di volersi dedicare a
un’operazione di svelamento alla
quale ci si potrebbe ancora ispirare oggi, a fronte di una moltiplicazione di
casi in cui la contraffazione della verità, la manipolazione della medesima, è
alla base del controllo delle menti, delle coscienze, dei comportamenti
sociali, della politica. Senza alcun dubbio la dimostrazione di Valla passa
attraverso una serie di prove filologiche, proposte con acribia e senso
storico, ma a me importa soprattutto sottolineare come la formazione filologica
sia totalmente messa al servizio di un ideale che intende, così, trovare la
maniera di uscire dalla dimensione astratta in cui è relegato per definizione,
trasformandosi in un nuovo modello di
pensiero. Colgo pertanto già nell’umanista Valla, qualcosa di quel sogno che nel discorso introduttivo ho
attribuito ai rinascimentali. La constatazione, che si limita a essere tale, è finalizzata a sottolineare come il discorso
dell’assoluta continuità fra i due periodi sia quello più opportuno da
condurre, per riuscire a rendere conto delle molteplici sfaccettature di questi
movimenti del pensiero. Torno però ancora un poco sul contenuto del saggio di
Valla. L’umanista confuta la validità del documento a partire dalla
considerazione che né l’imperatore Costantino né il papa Silvestro erano
insigniti di poteri giuridici che permettessero loro di assumere le parti che
la donazione comporta, ovvero quella di donatore e di beneficiario del dono.
Basta questo a inficiare la legaliltà
del documento che, pur palesemente falso, è riuscito a diventare vero nel senso in cui possono esserlo le
falsificazioni nella storia del mondo: a essere veri sono gli effetti che l’esistenza del falso comporta, ossia le
prese di posizione che ne conseguono, le difese ideologiche (con pretesa di
supporto concreto) di quanto il falso in questione autorizza.
Lo studio condotto da Valla sul falso
storico citato può quindi essere assunto
come pura espressione di un obiettivo che umanesimo e rinascimento condividono:
quello di rendere libero il pensiero, di affrancarlo dalla servitù non solo
delle auctoritates ma del pensiero
medesimo quando non sappia riconoscere tutte le sue potenzialità. Rispetto alla
sententia terenziana contenuta nell’Heautontimorùmenos[2],
che suona homo sum, humani nihil mihi
alienum puto, sono un essere umano e
tutto quello che è umano mi interessa e riguarda, si tratta evidentemente
di uno sviluppo ulteriore: non è questione infatti di circoscrivere, per via di definizione, l’umano, ma di permettergli
uno sviluppo, un progresso che si avvale necessariamente, sono propriamente il suo ossigeno, di autonomia e libertà.
Un ultimo riferimento, in questa sezione
dedicata a individuare pochi concetti e
autori attraverso i quali cogliere caratteristiche fondanti dell’umanesimo,
dedico al tema cruciale dell’educazione. Guarino Guarini da Verona (1374-1460)
dà inizio nella sua città a una scuola di humanae
littarae che, nel 1436, si trasforma, con il passaggio del maestro a
Ferrara, in un’isituzione educativa
destinata a restare a lungo un modello per l’umanesimo europeo. Tre i corsi,
elementare, grammaticale e retorico, con una progressione connessa con i ritmi
di apprendimento naturali e lo sviluppo
delle capacità degli scolari. Maggior riguardo è dedicato allo studio di
Cicerone, Quintiliano e della Rhetorica
ad Herennium. Il punto centrale della preparazione sono però filosofi e
poeti, Omero, Virgilio, Demostene,
Cicerone, anche se la struttura dell’insegnamento è enciclopedica e culmina nelle
discipline matematiche, aritmetica, astronomia e musica. Un altro grande
maestro del tempo è Vittorino de’ Rambaldoni da Feltre (1378-1446). Nella sua
scuola mantonava, la Gioiosa,
ricevevano l’istruzione figli di sovrani come i Gonzaga, di borghesi e di
persone umili. L’insegnamento era sempre enciclopedico e culminante nelle matematiche, ma prevedeva conoscenze
approfondite nelle lingue latine e greche, così da permettere la lettura
diretta delle opere dei filosofi antichi, dei medici e dei teologi. L’obiettivo esplicito di
questo innovatore della pedagogia era quello di portare nei diversi domini del
sapere una mentalità libera e critica, formata nella conoscenza delle lingue e
del discorso, radici di ogni disciplina.
Tutt’altro che pedanti grammatici e oziosi
retori, questi fondatori di scuole
umaniste mostrano di avere consapevolezza di come le dottrine basilari
rappresentino un, certo ineludibile, strumentario da porre al servizio della
ricerca continua, della comprensione sempre più avanzata dei principia della natura. Concludo questa
carrellata, approdata ora al tema dell’educazione, parafrasando quanto scrive
Leonardo Bruni, che appartiene alla seconda generazione degli umanisti, nel suo De
Studiis et litteris, 1422-1429: nessuna conoscenza può essere davvero
limpida e comprensibile senza la bellezza
della forma, ma egualmente le lettere sarebbero
sterili senza le conoscenze reali, e la
perizia delle lettere e la cognizione della realtà sono tra loro sempre congiunte. Vedremo poi, nella carrellata
corrispettiva a questa che dedicherò ad autori rinascimentali, come la
personalità destinata, in pieno rinascimento, a compendiare forse al massimo
grado questa già evidente propensione al radicamento nell’esperienza di ogni
speculazione teorica sia Leonardo da
Vinci.
IL
SOGNO DEL PASSATO
Moralità
Il termine moralità deriva da mos, costume. Il mos maiorum, letteralmente costume
degli antenati, è un pilastro della civiltà e della cultura romane dalle
origini fino alla prima età imperiale. Quest’ultima, infatti, in particolare
con Ottaviano Augusto secondo fondatore
dopo Romolo, di cui recupera non a caso il culto, si preoccupa ancora, non solo
formalmente, di rispettarlo e diffonderne i valori. Mos maiorum significa fedeltà al passato, che fornisce garanzia ai
successi del futuro, alla missione imperiale, meglio ancora imperialistica, di Roma. L’etimologia, come sempre,
dice molto, ma non tutto. E soprattutto può rischiare di circoscrivere troppo a
determinate coordinate temporali, che sono al contempo vincoli storici e
culturali, responsabili di una limitazione del discorso. La moralità alla quale voglio fare
riferimento è in questo caso quella che abbiamo appena visto animare gli
scritti dei primi e secondi umanisti, filologi, maestri, artisti e tecnici. Persone
interessate al funzionamento della natura
e degli esseri umani che in lei, malgrado lei, in qualche caso, vivono e si
ingegnano a farlo nel miglior modo possibile. Il punto di partenza è, si
evince da questa ultima concettualizzaizone, il rapporto che s’instaura fra
esseri umani e natura, nei termini di una volontà da parte dei primi di
comprendere la seconda, in quanto essa rappresenti sia il contesto sia rientri nello stesso soggetto che si autoassegna il
compito di indagarla e studiarla, ovvero gli esseri umani medesimi. Natura è
ovunque, dentro e fuori di noi, quindi l’imperativo categorico di comprenderla
rientra nella sfera delle azioni morali,
azioni che possono indirizzare e guidare il modo di stare al mondo di singoli e
colletività. Agli umanisti, come a seguire ai rinascimentali. la morale
interessa molto. In questo nessuna differenza tra loro e nemmeno rispetto agli
antichi. L’ossessione dei boni viri
si manifesta peculiarmente negli scritti politici di Cicerone, e continua a
essere un interesse privilegiato anche nei secoli che seguono il medioevo. Si tratta per esempio di convincersi, di trovare prove convincenti, del fatto che
attraverso lo studio e la conoscenza si possa arrivare a comportarsi secondo bonum e utile, quindi si possa diventare esempi per gli altri e, attraverso
una circolazione positiva, giungere a creare una societas dove regni davvero l’eudaimonìa,
la felicità. Il cerchio, che qui ho velocemente tracciato, è questo: il cerchio
della moralità che può interessare davvero a tutti, perché tutti ne trarrebbero
identici benefici. Il mondo antico escludeva ancora dai tutti quella specie di res,
cose, alla quale dava il nome di servi,
schiavi, ma nell’epoca di cui ci
stiamo occupando, almeno rimanendo a un livello macroscopico e limitando lo
sguardo all’Europa, questo non è più ammesso. La schiavitù è stata abolita,
almeno appunto nella forma specifica che aveva fino alla servitù della gleba di
età medievale. Discorso anche questo molto interessante, che però devo qui
lasciare da parte, per mantenere il filo principale.
Gli umanisti collegano, quindi, la morale all’eudaimonìa come già avevano
fatto alcuni filosofi particolarmente apprezzati in ambito greco-latino, ad
esempio gli stoici. Leggendo Seneca[3], autore del I secolo d.
C., età di Nerone, si capisce chiaramente quale sia il nesso:
Da nulla,
quindi, bisogna guardarsi meglio che dal seguire, come fanno le pecore, il
gregge che ci cammina davanti, dirigendoci non dove si deve andare, ma dove
tutti vanno. E niente ci tira addosso i mali peggiori come l'andar dietro alle
chiacchiere della gente, convinti che le cose accettate per generale consenso
siano le migliori e che, dal momento che gli esempi che abbiamo sono molti, sia
meglio vivere non secondo ragione, ma per imitazione. Di qui tutta questa
caterva di uomini che crollano gli unì sugli altri. Quello che accade in una
gran folla di persone, quando la gente si schiaccia a vicenda (nessuno cade,
infatti, senza trascinare con sé qualche altro, e i primi provocano la caduta
di quelli che stan dietro), capita nella vita: nessuno sbaglia solo per sé, ma
è la causa e l'origine degli errori degli altri; infatti è uno sbaglio
attaccarsi a quelli che ci precedono, e poiché ognuno preferisce credere,
piuttosto che giudicare, mai si esprime un giudizio sulla vita, ma ci si limita
a credere: così l'errore, passato di mano in mano, ci travolge e ci fa
precipitare. Gli esempi altrui sono quelli che ci rovinano; noi invece staremo
bene appena ci staccheremo dalla folla. Ora, in verità, il popolo, contro la
ragione, si fa difensore del proprio male. E succede come nei comizi quando,
mutato che sia il volubile favore popolare, a meravigliarsi dell'elezione dei
pretori sono proprio quelli che li hanno eletti: approviamo e nello stesso
tempo disapproviamo le medesime cose; è questo il risultato di ogni giudizio
che si dà secondo quel che dicono i più.
Il
monito è esplicito: si tratta di non accordarsi al pensare comune, non
limitarsi sempre a credere ma
imparare a esprimere giudizi,
liberandosi dalla tirannide esercitata dagli esempi altrui. La lotta della
ragione, è evidente, si conduce contro quell’avversario temibile che è il senso comune, un sentire condiviso e superficiale, rispetto al quale occorre creare
anticorpi che, torniamo così a un tema già trattato, l’educazione può fornire,
quella educazione che etimologicamente riconduce all’atto di uscire, condurre fuori da (e-ducere) quello che possiamo figurarci
come un recinto, la prigione della quale è importante in primo luogo vedere le
sbarre, altrimenti l’atto di liberarsene è radicalmente impossibile.
Sempre
il pensiero antico ispira agli umanisti l’idea che sia doveroso arrivare,
attraverso l’educazione, all’edificazione di una morale sia astratta sia pratica in grado di incidere
profondamente nelle relazioni sociali. L’eudaimonìa
è possibile non solo al saggio, come singolo che viva ritirato ad esempio,
ma auspicabile per la collettività, previo riconoscimento di un insieme di
valori nei quali ci si riconosca e che si desiderino rendere operanti. A questo
proposito sempre Seneca si sofferma sul tema, quando nel suo trattato politico De clementia[4]
dà forma precisa a questo disegno pensando anche di aver trovato il momento
storico e il soggetto adatto a dargli realizzazione.
La felicità così
celebrata consiste nel dare la salvezza a molti, nel richiamare alla vita dal
seno della morte stessa, nel meritare con la clemenza la corona civica. Nessun
ornamento è più degno del rango di un principe, nessun ornamento è più bello di
questa corona "per aver salvato i cittadini": né le armi nemiche
sottratte ai vinti, né i carri macchiati del sangue dei barbari, né le spoglie
conquistate in guerra. Potenza divina è salvare in massa e tutto un popolo;
uccidere molti e senza discriminazione è la potenza degli incendi e dei crolli.
Particolarmente
interessante la sottolineatura di come sia degno
del rango di principe essere riconosciuto come un sotèr, salvatore (con quanto di provvidenziale, anche senza il
cristianesimo, il termine sottintende); a questo profilo si contrappone quello
del massacratore, colui che uccide molti
e senza discriminazione come una forza bruta per la quale non viene nemmeno
evocata la natura, ma una di quelle circostanze occasionali, volute da un cieco
destino, come incendi e crolli. Sintetico e eloquente, Seneca riconosce
al sovrano, con svariate argomentazioni precedenti a questa, prerogative e
comportamenti propri di un pater, ben
disposto nei confronti dei sudditi, la cui protezione e il cui benessere
sono al vertitce dei suoi interessi. Raffigurato sempre come colui che dà, non come uno che riceve,
se non rispetto, il monarca ha un carico di responsabilità nei confronti dei
sudditi in effetti paragonabile a quello genitoriale, e molte delle immagini di
cui il filosofo si serve per illustrarne i compiti sono derivate direttamente
dalla tradizione educativa propria dello stoicismo. Gli eventi tradiscono del
tutto le aspettative, inizialmente positive, del filosofo che ha indossato
panni di pedagogo e poi di consigliere di Claudio Nerone. Il quale, lungi dal
mettere in pratica gli inviti alla clemenza, manifesta volontà sempre più dispotiche
e autocratiche, facendo il vuoto intorno a sé con mezzi violenti, dei quali
farà le spese, oltre a sua madre Agrippina, anche il maestro medesimo che lei
aveva prescelto per guidare saggiamente il figlio nella gestione dell’impero.
L’esempio
della riflessione condotta da Seneca e della pratica, per quanto non coronata
da successo, che ne consegue, permette d’intendere quale sia l’obiettivo
principale di chi ragioni in una prospettiva di socialità e di politica:
si tratta di coniugare l’aspirazione dei singoli a una condizione di benessere
e di libertà, con quella collettiva di mantenere un ordine di cui sia garante
un’autorità riconosciuta come benintenzionata
e, ancor più, che possa essere a ragion veduta ritenuta in grado di soddisfare
le aspettative di cui si è detto. Risalendo a un punto originario del discorso,
è istruttivo fare riferimento a quanto scrive Petrarca, che qui evoco nelle
vesti di primo umanista, nella
celebre epistola XII delle Familiares,
indirizzata a Nicola Acciaiuoli, siniscalso del re Luigi di Napoli e prossimo
sovrano. Diffusissima in epoca umanistica, come dimostrano tra l’altro i tanti
codici che la trasmettono in originale latino, è stata anche ampiamente
volgarizzata, all’interno di antoligie a carattere politico.
Concepita
da Petrarca come institutio regia,
ossia un trattato sull’educazione e sul comportamento pubblico e privato del
perfetto principe, sintetizza una serie di luoghi comuni che, in pieno
rinascimento, Machiavelli confuterà, non di rado capovolgendoli, nel suo Principe. Risuonano esattamente i
cardini del mos maiorum, rivisti in
chiave cristiana: rispetto di Dio, amore per la patria, osservanza della
giustizia, del giusto mezzo nel quale risiede la virtù, ricerca del consenso,
pratica dell’amicizia e di un comportamento sempre equo, per evitare risentimenti. Da notare che, un
po’ come nel caso di Seneca con Nerone, anche in questa occasione il
dedicatario del testo, Acciaiuoli, era un ambizioso e un cinico, nient’affatto
refrattario a utilizzare metodi brutali pur di ottenere il potere e mantenerlo.
Chiaro, insomma, che il problema sempiterno dell’incoerenza in agguato nello
svolgimento di qualsivoglia incarico, ma in modo particolare di quelli che assegnano
maggior potere su numeri estesi di persone, si ripropone a tutti i pensatori,
restando sostanzialmente irrisolto, anche se invece la questione della legittimità è accettata come un dato di
fatto: può ben essere, insomma, che un soggetto riconosciuto come nient’affatto
meritevole di detenere e esercitare il potere ne sia invece insignito, senza
che altri possano rivendicare diritti di veto nei suoi riguardi.
ARIOSTO
Ariosto,
dal punto di vista cronologico (Reggio Emilia, 1474, Ferrara 1533) si colloca a
cavallo tra umanesimo e rinascimento, ma
in considerazione dei ragionamenti intrattenuti sinora, è chiaro che nel suo
caso la labilità dei confini epocali già rilevata, ma pure la caratterizzazione suggestiva utilizzata
all’inizio con riferimento a tipologie di sogni, possono contemporaneamente
risultare efficaci tanto per impostare un discorso iniziale quanto per entrare
in dettagli analitici. Ariosto è infatti
un contemplatore e ammiratore del passato, e pure un creatore innovativo e
estroso, attraversato da intuizioni al di fuori del tempo, che riconducono sia
nella direzione dell’Antico sia presagiscono sviluppi posteriori, che arrivano
fino al nostro tempo. Ma certo per dare costrutto a una lettura che vi inizi,
nel senso sacro del termine, al mondo
ariostesco conviene possedere qualche riferimento in più, compresi quelli
biografici, per quanto resi funzionali sempre alla lettura. Concepisco quindi
di seguito una sintetica vita di Ariosto.
Reggio Emilia, città natale del poeta, fa parte
all’epoca del ducato di Ferrara, sotto il dominio della casa d’Este. Il padre
Niccolò è capitano della rocca di Reggio, presidio militae del ducato, al tempo di Ercole I. Nell’infanzia di
Ludovico la famiglia si trasferisce spesso,
per approdare nel 1482 a Ferrara, dove si svolge la sua istruzione,
compresa quella accademica, culminante nell’ottenimento del titolo di
giurisperito. Il contatto con il teatro avviene
in questo stesso periodo: nella corte estense si organizzano spettacoli e il
giovane Ariosto realizza il suo primo testo drammatico nel 1493, ispirato dalle
Metamorfosi di Ovidio, la Tragedia
di Tisbe. Si tratta di una svolta esistenziale: abbandona gli studi
giuridici e si dedica completamente allo studio delle humanae litterae. Da questo momento la letteratura è il suo
principale interesse, Petrarca un suo primo fondamentale riferimento, ma per
potervisi adeguatamente dedicare entra nella sfera d’influenza del mecenate
estense, sempre Ercole I, che lo accoglie nella corte in veste di famigliare. Ariosto poi ottiene sempre
più credito e entra in contatto diretto col cardinale Ippolito d’Este.
Necessità economiche e familiari
contingenti, nei cui dettagli non entro, lo costringono poi a occuparsi di
amministrare proprietà a Reggio Emilia. Tornato alla corte estense, in quegli
anni vivacissimo centro culturale, crea una vasta trama di rapporti amicali e
d’interesse, ottiene lo status di chierico e si pone definitivamente al
servizio del cardinale Ippolito, usufruendo di benefici ecclesiastici e
rendite. Si tratta di un periodo d’infelicità, per lui, come testimonia nella Satira I, perché deve mettere in secondo
piano l’attività artistica rispetto alle necessità cortigiane e di servizio. Fino
al 1513, data epocale per lui, come preciserò tra breve, la vita di Ariosto
comprende sia attività di scrittura, in parte preparatorie del futuro Orlando furioso, sia incarichi militari
e diplomatici. Il 1513 è però anno cruciale perché al soglio pontificio giunge
Giovanni de’ Medici, figlio di Lorenzo e amico di Ariosto, col nome di Leone X.
Lo stesso anno conosce Alessandra Benucci,
moglie del suo amico Tito Strozzi. Fra i due nasce una relazione
destinata a durare nel tempo e a rimanere comunque clandestina, anche dopo la
morte dello Strozzi, per evitare la perdita dei diritti della donna sui beni e
i figli del defunto e a Ariosto la perdita dei benefici ecclesiastici. Nel 1516
il poeta dà alle stampe una prima edizione, ancora incompleta, limitata a 40
canti, dell’Orlando furioso e nello
stesso anno si consuma la definitiva rottura delle relazioni con il cardinale
Ippolito d’Este, che peraltro non aveva per nulla apprezzato il poema appena
pubblicato e che Ariosto si rifiuta di seguire a Buda dove gli era stata
assegnata la nuova sede vescovile. Da questo momento egli diventa uno degli
stipendiati d’Alfonso d’Este, prosegue con successo crescente a scrivere opere
teatrali e pubblica una seconda volta il Furioso,
sempre nella versione in 40 canti. Il duca, che riconosce in lui tanto doti di
poeta quanto di amministratore, gli affida il governo della provincia di
Garfagnana: sono gli anni fra il 1522 e il ’25, quelli in cui il poeta deve ancora piegarsi alle
necessità di un servizio che non gli piace, ma al quale si adatta e che presta
in modo esemplare. Tornato a Ferrara,
pur dovendo ancora ottemperare a incarichi svariati, può dedicarsi all’attività
letteraria e nel 1532 revisiona definitivamente l’Orlando furioso e lo dà alle stampe in 46 canti, mandandone copie a
principi e signori delle corti italiane, per ottenere giudizi e consigli.
Mentre la fama e il successo di Ariosto si diffondono, la sua salute peggiora:
un’enterite lo conduce alla morte nel
1533.
Dalla sintetica biografia si evince che la poesia sia
stata l’attività artistica primariamente praticata da Ariosto: le sue opere
sono in prevalenza in versi, tanto quelle teatrali, quanto le satire quanto
ovviamente il poema, al centro del nostro interesse. In prosa solo le prime
commedie e le lettere riunite come Epistole.
In particolare l’Orlando furioso è un
poema epico in ottave, schema ABABABCC, con cui Ariosto continua e conclude la
storia incompiuta del poeta Boiardo
(1441-1494), autore dell’Orlando
innamorato, ripreso nel punto esatto dell’interruzione.
Propongo allora, prima di passare a conoscere direttamente il poema, una
ricostruzione del materiale narrativo di cui sia Boiardo sia Ariosto si sono
serviti per concepire le proprie opere poetiche. Intanto occorre risalire a un
evento storico: cronache ufficiali carolinge riportano quanto accaduto nel 778 a Roncisvalle, negli anni in cui
l’esercito di Carlo combatteva con sorti alterne contro gli arabi in Spagna,
ovvero un agguato teso alla retroguardia delle truppe franche, nel corso del
quale cadde, tra gli altri, un tal Hruodlandus. Tre secoli dopo
Roncisvalle, intorno al 1100, all’epoca della prima crociata, con l’Europa
pervasa da spirito combattivo e polarizzata in mondo cristiano contro mondo
musulmano, Turoldo (il nome compare alla fine dell’opera) compone in francese
un poema epico, intitolato Chanson de
Roland. I personaggi di questo testo, ambientato a Roncisvalle, sono il re dei Franchi Carlo, il re dei
Saraceni Marsilio, Roland, Gano di Maganza. Con la spada Durendal, donatagli
dall’arcangelo Gabriele, Roland fa miracoli, ma i suoi guerrieri cadono uno a
uno e solo quando ormai è allo stremo suona l’olifante per chiamare Carlo. Il
personaggio di Orlando, è poi variamente ripreso in cantari francesi, sempre descritto solo negli
ultimi momenti della vita, tutto racchiuso nell’episodio della morte. A
differenza di quelli d’oltralpe, i cantari in Italia aggiungono dettagli: ad
esempio in alcuni Orlando è figlio di Milone di Clermont e di Berta, sorella di
Carlomagno. Milone, sedotta la fanciulla, per sfuggire alle ire del fratello di
lei, la rapisce e porta in Italia, dove Orlando nasce in Romagna o, secondo
altri, nel Lazio. Nel seguito della vita, Orlando ottiene titoli onorifici
presso la Santa Sede. Sempre nei cantari, prende corpo la figura di una sorta
di contraltare di Orlando: Rinaldo, suo cugino, spirito ribelle, mentre anche
Carlo Magno subisce una sorta di abbassamento e degradazione. In epoca
rinascimentale, il personaggio di Orlando conosce una grande fortuna: a Firenze
Luigi Pulci (1432-1484) mette in rima in modo caricaturale, pare su commissione
della madre di Lorenzo il Magnifico, le gesta dei paladini, scrivendo il Morgante.
A Ferrara è un dignitario della corte estense, il citato Matteo Boiardo che con
Orlando innamorato ripropone l’epopea
cavalleresca con spirito distaccato ma non burlesco, come Pulci, bensì pervaso
di malinconia e nostalgia.
Il Furioso di Ariosto eclissa
completamente l’immediato precedente, che finisce, nella considerazione
collettiva, per essere ridotto a una sorta di antefatto.
Concludo questa ricostruzione con un elenco dei principali, fra i moltissimi
personaggi: la bellissima Angelica che Galafrone, re del Catai cioè della Cina,
manda a Parigi per sconvolgere i paladini Orlando e Rinaldo; l’altro figlio di
Galafrone, Argalìa, guerriero dalle armi fatate e dall’elmo a prova di colpo (a
entrambi i figli dona inoltre un anello magico che rende invisibili); Ferraù,
saraceno, primo vincitore della “preda” Angelica; Agricane, saraceno,
protagonista d’un famoso duello (sempre per conquistare Angelica); Namo di
Baviera, scelto per custodire Angelica finché o Rinaldo o Orlando dimostrerà di
essere il più valoroso a combattere contro i saraceni; il guerriero saraceno
Ruggiero e la guerriera cristiana Bradamante, sorella di Rinaldo, destinati a
diventare i capostipiti della stirpe estense, previa conversione al
cristianesimo del primo; il mago Atlante, che nutre sentimenti paterni per
Ruggiero, da lui allevato, e che tenta di ostacolare la realizzazione del destino del
suo pupillo dal momento che, attraverso
le arti magiche, ha letto nel suo futuro una vita breve in caso di nozze con
Bradamante; il fante Medoro, di umili origini, che conquista il cuore di
Angelica nel momento in cui ella lo trova ferito mortalmente su un campo di
battaglia e lo salva con le sue conoscenze di medicina e di magia.
Nello stesso stile sintetico della biografia, propongo
ora una panoramica del poema, impostata in modo da suggerire una sorta di
chiave di lettura privilegiata, che successivamente espiciterò. Lascio
l’indicazione dei canti in grassetto per favorire una veloce consultazione.
Il I canto è interamente occupato da un vorticoso
avvicendarsi di inseguimenti e ricerche all’interno di una intricata foresta.
In essa, luogo per elezione di sentieri che si biforcano e, non di rado,
tornano anche indietro, Angelica, Ferraù, Orlando, Rinaldo, Sacripante e
persino un cavallo, Baiardo, cercano elmi, persone, vie di fuga, e trovano non
di rado altra cosa da quella che stavano cercando, oppure quella che cercavano
in precedenza e che avevano ormai sostituita con altra; o ancora non trovano nulla, ma si perdono e ritornano
al punto di partenza.
Ben due canti sono dedicati alle magie del mago Atlante, in particolare ai
suoi castelli incantati: si tratta del IV e del XII. Nel IV canto
il castello è sito fra le giogaie dei Pirenei, è d’acciaio lucente ed è luogo
di piacere assoluto: si dissolve poi nel nulla in seguito alla richiesta di
Bradamante, che ha combattuto e vinto, sino a un certo punto, il vecchio mago inducendolo
a porre fine alla magia. Nel XII il
nuovo castello di Atlante si trova in una pianura non lontano dalla Manica, è
di marmo e ha una porta d’oro, così almeno sembra a qualcuno dei cavalieri che
ci si trova invischiato. Il fatto è che il castello è in grado di far vedere a
ciascuno qualsiasi cosa, è una specie di vorticoso nulla che può diventare
tutto, perché sono i cercatori a dare forma e sostanza a quel che c’è
all’interno. Insomma: il palazzo è deserto, forse non ci sono nemmeno le mura,
ma superato il recinto che delimita la sua magica esistenza ciascuno vede
quello che lo ossessiona, sente le voci che lo chiamano e ne implorano la
presenza, vede baluginare capelli biondi (è il caso di Orlando che vede
Angelica) o bianchi elmi (Ruggiero che vede Bradamante). Tutti i cavalieri,
cristiani e mori, prima o poi si trovano fagocitati dal castello, che come un
buco nero risucchia con forza interi eserciti. Se qualcuno tenta di uscirne,
ecco una voce si leva dalla finestra e lo richiama, e la ricerca continua.
Unico a non restare irretito nel castello è Astolfo, al quale spetta il
compito, nel XXII canto, della dissoluzione del
medesimo, ovvero di esorcizzare una volta per tutte questa sorta di ragnatela di sogni e di
desideri provvisoriamente evocata dall’incantesimo del mago. Vien da pensare
che, dopo la sua scomparsa, essi non facciano altro che rientrare nella mente
dei protagonisti.
Questo è tanto vero, che la vicenda della follia d’Orlando anche così può
configurarsi: siamo ai canti XXIII e XXIV, nei quali si dipana il
racconto della scoperta da parte di Orlando di quanto accaduto fra Angelica
e Medoro nel XIV canto. La prima parte della narrazione si
configura come un elaborato autoinganno: come se il castello di Atlante,
quel vortice di nulla che può diventare tutto, abitasse la mente di Orlando,
gli facesse trovare risposte fintamente razionali, corrispettivo di visioni
ingannevoli, a inquietanti interrogativi posti dalla realtà. Orlando cerca di
rimanere prigioniero del suo castello di fantasie, o meglio, come le abbiamo
definite imbattendoci in esse, astruse menzogne utili a difendere il suo cuore
e la sua mente dall’assalto della realtà, dalla rivelazione di una verità
crudele, ormai immutabile. Ma le prigioni che ci si costruisce da soli si
spalancano all’improvviso, senza bisogno di interventi magici, piuttosto per
l’irruenza della realtà, che nel caso di Orlando ha la voce benevola d’un
pastore che, ironia dell’Autore, gli racconta tutto, gli apre gli occhi e le
orecchie, a fin di bene (crede). Angelica, racconta il pastore ignaro di
infierire crudelmente sul cuore innamorato di Orlando, si è innamorata
perdutamente di Medoro, e l’ha sposato.
Certo un po’ catartica è, allora, per il lettore che si è immedesimato nel
pianto senza fine del paladino, che ha provato la pena di chi sente d’esser
morto in se stesso, per la scomparsa d’un altro da sé che amava, la visione di
Angelica a gambe all’aria nel canto XXIX: la seduttrice, la femme fatale, è diventata all’occhio
pazzo di Orlando tutt’uno con la puledra che cavalca, e il paladino, nudo e
feroce come un animale, le si scaraventa addosso per prendere dalla coda la
cavalla, con quel che segue per colei che vi stava sopra. Una catarsi poco
nobile, ma sicuramente giocosa.
Con Astolfo sulla luna, nel XXXIV canto, la ricerca, che
ha compreso tra i suoi oggetti anche il nulla, si fa provvidenziale, guidata,
quindi destinata a sicuro successo. Astolfo è il cavaliere della provvidenza
che deve restituire il senno a Orlando, ma anche a se stesso e ad altri
paladini. Pure questa ricerca, però, porta a imbattersi in altro, per noi
rivelatore: sulla luna, per una sorta di legge della conservazione dell’energia
trasposta a qualsiasi cosa, si trova tutto quello che si crede perduto sulla
terra. Fama, preghiere, voti, lacrime, sospiri, tempo dei giocatori, ozio degli
ignoranti, progetti irrealizzati, desideri, regali fatti a re e principi avari,
elemosine lasciate come testamento, la donazione di Costantino, la bellezza
delle donne. Per offrirvi una nuova metafora, la luna è rappresentata da
Ariosto come la soffitta di una famiglia di collezionisti matti. E poi la valle
delle ampolle con il senno, tanto senno da far pensare che sulla terra, che
comunque nella luna ha il suo specchio, regni solamente la pazzia. Alla fine
del canto, due parche tessono la sorte
dell’uomo, sempre ambigua e incomprensibile. Così nel seguente, il XXXV,
il poeta propone una chiave d’intendimento
dell’enigma della vita, che sposta l’attenzione sui mistificatori per
eccellenza, i poeti che fanno e
contraffanno, raccontano e mistificano, rendono Augusto santo e benigno (a far questo è la
tuba di Virgilio), una bagascia Elissa, che ebbe il cor tanto pudico. Così se tu vuoi che ‘l ver non ti sia ascoso,
tutta al contrario l’istoria converti: che i Greci rotti, e che Troia vittrice,
e che Penelopea fu meretrice”. Come dire che, sulla terra, nel mondo vero,
la verità poetica è rara quasi quanto il senno, ed è per questo che i labirinti
non finiscono mai. Tutto si può dire, tutto si può trasformare, immagine vera e
immagine specchiata si scambiano le parti, il rovescio e il diritto sono
ambedue chimere.
Alla fine dobbiamo arrivare, tutte le storie finiscono, in un modo o
nell’altro. L’epilogo dell’Orlando
furioso, apparentemente già predisposto dal momento in cui Orlando
rinsavisce, Carlo ha vinto la guerra, Ruggiero si è convertito e son pronte le
nozze con Bradamante concessagli dal fratello Rinaldo, sembra prossimo, e
invece si interpongono ancora eventi, prima della conclusione al XLVI canto. Il padre di Bradamante,
infatti, non sapendo niente di Ruggiero, ha promesso la figlia in sposa a
Leone, figlio dell’imperatore di Grecia Costantino. Ruggiero riesce solo a far
rimandare il matrimonio con Leone e a partire per la Grecia per spodestare
Costantino e Leone. In incognito Ruggiero combatte dalla parte dei Bulgari, in
guerra con i Greci, e dà tali prove di valore che gli offrono la corona di
Bulgaria. Leone, vedendolo combattere, inizia ad ammirarlo visceralmente.
Costantino, invece, riesce a catturare e imprigionare Ruggiero, sottoponendolo
a tortura, da nemico pericoloso quale lo riconosce. Leone però, che appunto lo
idolatra (senza sapere chi sia) lo libera, conquistandosi eterna riconoscenza.
Di nuovo Ruggiero si trova in un dilemma terribile (come quando era diviso fra
Atlante e Bradamante: Atlante peraltro muore
dal dispiacere di non essere riuscito, dopo la distruzione del secondo
castello, a proteggerlo), dato che il debito di gratitudine per il rivale gli
strazia la coscienza. Bradamante intanto ha convinto re Carlo a indire un
torneo: concederà la sua mano al cavaliere che riuscirà a resisterle dall’alba
al tramonto. È sicura che le sarà facile vincere Leone, mentre Ruggiero le
resisterà e lei potrà sposarlo. La poverina non sa che il suo amato ha stretto
un patto di fedeltà con Leone e che Leone si farà sostituire da lui in
combattimento: dunque Ruggiero, per lealtà, deve combattere con la donna amata,
resisterle e permettere che sposi il suo rivale. Viene quindi creduto
vincitore Leone, ma la sorella di Ruggiero, Marfisa, riesce ancora a imporre una
prova: visto che suo fratello ha chiesto per primo la mano di Bradamante, che
si attenda il suo ritorno perché Leone si batta con lui. Leone accetta,
pensando di far combattere per lui il cavaliere sconosciuto, ossia Ruggiero. A
questo punto deve proprio risolversi il conflitto interiore di quest’ultimo,
dato che non può combattere con se stesso. Alla fine trionfa la magnanimità
generale (il crescendo di generosità ce lo faceva supporre): Leone rinuncia a
Bradamante e Ruggiero, re di Bulgaria, finalmente può sposarla. Dopo nove
giorni di banchetto, spunta fuori dagli anfratti del poema quello che potremo
definire l’ultimo eroe: lo spavaldo, sfortunato, smodato Rodomonte, re
d’Algieri, al seguito di re Agramante, protagonista di alcune avventure
guerresche che mettono in luce appunto la sua sfrenata natura. Rodomonte arriva
al banchetto di nozze come con l’intento di impedire che la vicenda si compia:
sfida a duello Ruggiero con la motivazione che egli, convertendosi al
cristianesimo, avrebbe tradito il suo re Agramante. La battaglia è aspra, i due
contendenti sono molto forti, ma alla fine l’anima sdegnosa di Rodomonte,
bestemmiando, si scioglie dal corpo, ed egli scende nell’Averno.
Così si congeda da noi il Poeta, con una discesa nell’Averno dell’incarnazione
del principio di sfrenatezza, della smodata ferocia, della baldanza inconsulta.
Un congedo repentino e malinconico, con
l’immagine finale d’un cavaliere pieno di forza che viene assorbito nel gorgo
d’Acheronte. Tutto finisce, anche l’energia guerriera, anche i duelli ad armi
pari e, probabilmente, anche un’epoca intera, in parte nostalgica e
fiduciosamente affidata alla contemplazione del tempo che fu.
Ho cercato di scegliere, fra le migliaia di tessere a disposizione per
iniziare la lettura del poema, quelle che potessero permetterci di seguire un
filo conduttore, un filo d’Arianna, in questo labirinto concepito dal poeta con
l’intento di attingere al sublime,
ovvero a un livello di perfezione che si addicesse a quell’ambiente colto e
raffinatissimo che è la corte estense fra Quattrocento e Cinquecento. Le elenco,
allora, per rendere più facile, da questo momento in poi, il lavoro analitico.
Prima tessera: il poeta al contempo libero
e cortigiano (funzionario),
ovvero Ariosto che si deve adattare al contesto o deve adattare il contesto a
se stesso. Seconda tessera: una vicenda, quella dell’agguato di
Roncisvalle, evento collaterale e
destinato a sicuro oblìo, che è storica
e diventa un mito di grande risonanza, cresce come un’onda e si muove
nello spazio, dalla Francia all’Italia, dal medioevo al rinascimento. Terza
tessera: una serie di poeti che sviluppano, in pieno rinascimento la storia
cavalleresca e la alimentano variamente in base alla propria sensibilità. Così
arriviamo ad Ariosto e alla composizione che impegna gran parte della sua
esistenza. Prendiamo, per cominciare, la tematica più appariscente (badate, non sostengo sia quella sostanziale): la guerra. La guerra è lo scenario principale dell’Orlando furioso, dato che quel mondo è tutto in guerra. Non solo: la guerra
fornisce uno status ai personaggi del
poema, primo fra tutti il protagonista Orlando, rendendoli cavalieri (anche donne come Bradamante e Marfisa), intenti fra
l’altro, ma non solo, a combattere per la causa che si trovano a difendere, la
cristiana o la saracena. La guerra svolge una funzione scenografica,
strutturale dunque, ma pure pretestuosa. La sostanza dell’umano è altrove, ma la
guerra in corso rende possibile (è un paradosso) mettere almeno un po’ d’ordine
in quello che altrimenti sarebbe il caos del mondo: da una parte ci sono i
pezzi bianchi, dall’altra i pezzi neri. Il mondo diventa un’enorme scacchiera
dove ciascuno ha una parte precisa, pedone, torre, cavallo, alfiere, regina e
re. Ma Ariosto, già Boiardo prima di lui, non segue certo le regole degli
scacchi. Nel gioco di guerra dell’Orlando
furioso l’ordine è solo, ripeto, un
elemento esteriore. Serve ogni tanto sapere che Orlando è un cavaliere
cristiano e Ferraù è pagano, ma non sempre. Il caos del mondo è tale, che non
c’è ordine imposto da un evento come la guerra (che esige schieramenti, ideali,
stendardi) che tenga. Potrebbe avvenire la stessa cosa per la narrazione, ossia
che si perda nella molteplicità delle fughe in avanti, degli errori nella
scelta dei sentieri, dei fraintendimenti relativi a sé e agli altri,
nell’oscuramento dei sensi prodotto o meno di magie, si perda nella
moltiplicazione e permanente intrecciarsi, sospendersi e riprendersi di nuovo
degli inseguimenti. Potrebbe avvenire, ma non accade. Perché il poeta, nel suo poieìn non si perde mai: gli strumenti a sua
disposizione, ars e ingenium, secondo la lezione degli
antichi, impediscono evidentemente che questo accada. Lo impedisce forse
soprattutto quel miracolo di perfezione formale che è l’ottava ariostesca, sulla quale a questo punto è necessario che io
mi soffermi.
Italo Calvino, denuncio per la prima volta il mio debito, ma il suo
magistero critico ha già operato variamente (senza contare che noi ci serviamo
per la lettura del suo Orlando furioso)[5], ha scritto in merito
all’ottava ariostesca che il suo segreto consiste nel seguire il vario ritmo del linguaggio parlato, nell’abbondanza di
quelli che furono definiti gli accessori inezzenziali del linguaggio, così come nella sveltezza della battuta
ironica; ma il registro colloquiale è solo uno dei tanti suoi, che vanno dal
lirico al tragico allo gnomico e che possono coesistere nella stessa strofa.
Ariosto può essere d’una concisione memorabile: molti suoi versi sono diventati
proverbiali: ecco il giudizio uman come spesso erra! oppure oh gran bontà dei cavalieri antiqui. Prosegue, Calvino, rilevando come dal punto
di vista tecnico l’ottava sia fondata su una discontinuità ritmica: sei versi a
rime alterne e due conclusivi a rima baciata, con un effetto di anticlimax, un brusco cambiamento di
ritmo che può ben veicolare cambiamenti di tono, di contenuto, rendendosi
portatrice della varietà che caratterizza
il narrare del poeta, nella forma come nella sostanza. A ben vedere, anzi, è
possibile collegare questa caratteristica dell’ottava al filo conduttore di cui
sopra, il caos del mondo che, come ci si può attendere da lui, procede per
salti e cambiamenti improvvisi, per sconcerti e casualità soprendenti.
IL SOGNO DEL FUTURO
Pensiero e immaginazione
Una disputa molto originaria riguarda a chi si debba riconoscere il
primato, in termini di avvicinamento alla
verità (al logos, alla sapientia, al divino, l’elenco potrebbe
essere lungo e contraddittorio, ma mi limito) fra la poesia (l’arte) e la filosofia.
La prima, ribadisco una volta di più, ha a che vedere con il fare, il creare (dal nulla o da elementi dati, anche questo è un distinguo
di cui si dovrebbe tener conto), la seconda con l’amore per la sapienza, con la
coltivazione del pensiero puro, in una dimensione quindi astratta che sembra
voler rifuggire dalla concretezza. L’una e l’altra, tuttavia, sono accomunate
da una necessità, quella di servirsi del linguaggio, della parola (in tal caso
il campo si restringe a una fra le arti), ovvero della retorica o dell’oratoria
o, ancora, della filologia, che denuncia dall’etimo il suo apparentamento con
il logos, con la verità, ma anche appunto con la parola,
da cui siamo partiti. Nel periodo umanistico e in quello rinascimentale, in
questo caso non importa mantenerli distinti, la vexata quaestio alla quale ho appena accennato si propone in tutta
evidenza: per quanto le discipline citate si colleghino, possano anzi connotare
contemporaneamente esistenze di tanti autori, non viene meno la competizione da
cui sono partita, ma soprattutto non viene meno un interrrogativo di fondo che
non solo le riguarda, ma potrebbe addirittura metterne in discussione
l’esistenza e il senso. Ridotto ai minimi termini l’interrogativo è: quale
conoscenza (scientia) è in grado di
restituire il senso dell’esistenza?
Torniamo allora a Dante, al suo IV canto
dell’Inferno e all’ossimoro già
citato: la biblioteca vivente di morti.
Non ho rilevato, nella citazione precedente del canto, come i morti preferiti
del poeta siano tutti pagani. Omero, Virgilio, Orazio, Ovidio e Lucano, orrevol gente e bella scola, sono, senza riserva alcuna da parte di Dante, indicati
come espressioni eterne (anche nel senso di in
grado di eternare) del pensiero nella sua forma evidentemente più alta e
pura, ossia quella artistica. Dante umanista, ma anche rinascimentale, quindi,
ha perfettamente chiaro quello che i suoi immediati successori riformuleranno
anche grazie a lui, anzi, grazie al culto che alcuni di loro coltiveranno di
lui. Certo la poesia di Dante è, come scrive Leonardo Bruni[6] fecundata
e inrichita et stabilita da vera scienza e moltissime discipline, è una poesia filosofica, poesia che può
comporre un sapiente. Il giudizio di Leonardo Bruni nei confronti di Dante riconosce come matrice della sua poesia lo
studio, non un’ispirazione, tanto meno di una di tipo profetico. A noi interessa esclusivamente per una
ragione: anche senza riferirsi al piano divino, è possibile delinare un
percorso conoscitivo che conduce, attraverso la poesia, alla conoscenza totale.
In questo gli antichi sono maestri indiscussi e non si può prescindere da loro.
Il riferimento a Dante, però, è proficuo anche per un altro motivo. La poesia è
pure, noi viceversa non possiamo prescinderne, immaginazione. Il pensiero ne necessita,
qualunque sia l’oggetto della sua indagine: ma certo la ricerca filosofica,
anche quella teologica naturalmente, ha una pretesa originaria e ricorrente che
non sfiora nemmeno (dato che ne contraddirebbe l’essenza) la poesia. Mi
riferisco alla pretesa di occuparsi di oggetti definiti per così dire prima di essere immaginati. La poesia
invece sembra praticare la via opposta: le sue immaginazioni sono in grado di
diventare realtà, si impongono all’intelletto col furor che la facoltà denominata immaginazione possiede, e per
veicolare il quale si serve della parola, del logos. Arrivo per questa via, come avevo preannunciato, a Leonardo da
Vinci. Non citando lui direttamente, per cominciare, ma Paul Valery, che in Léonard et les philosophes (1929) scrive che i filosofi si consumano (invano?) nel tentativo di far parlare il
pensiero; Leonardo ha per fermo che il pensiero possa essere meglio immaginato e dipinto. Il bello colpisce; nel bello, dice il Simposio, si produce, si crea. Insomma, annota
Valéry, si tratta di riconoscere alla creazione poetica e all’immaginazione,
che non solo ne è presupposto, ma anche materia, una funzione conoscitiva. Da
questo deriva di necessità il senso dell’analisi letteraria, persino di quella
che pratichiamo noi a livello scolastico: l’esegesi, l’interpretazione dei
testi, nella sua costante varietà e variabilità (a seconda degli intelletti che
vi si applicano e delle epoche, per citare due variabili ovvie) si può
intendere come un avvicinamento (mai un approdo) alla verità, o meglio, alle
verità, di nostro interesse. Verità
psicologiche, esistenziali, religiose, inerenti all’individuo o alla
collettività o alle relazioni fra individui e collettività. Un elenco che si
può dilatare o restringere, ma comporta pur sempre una convinzione di partenza:
quella secondo cui prima si immagina e poi si dà forma all’immaginazione. Il si non è però indeterminato come la
grammatica vuole: nel si in questo
caso si racchiude un riferimento ai poeti, esattamente quelli che Ariosto, nel
XXXV, cita come principali responsabili di un’operazione senza fine di
manipolazione del vero, caratterizzata da una vis inesauribile, paragonabile o coincidente con quella necessaria
a dare vita all’esistente, un soffio
vitale, uno spiritus mundi, anche
più che demiurgico a ben vedere. L’immaginazione in effetti determina un prima in cui quello che lei ha plasmato
non esisteva ancora, e un dopo in cui
la presenza
reale di questo oggetto immaginato, se non l’essenza
del medesimo, si manifesta. Così l’artista rende esistente ciò che non sarebbe
se non fosse per la sua immaginazione: operazione creativa in sé inerente alla filosofia, ma che alla filosofia non è
concessa, nel suo essere limitata dai mezzi che utilizza, ovvero ragione e
parola finalizzate all’indagine degli
enti e non alla loro invenzione.
Ma ora passo sul serio a Leonardo da Vinci, occupandomi di una specifica
selezione di suoi scritti, nell’insieme sterminato della sua produzione. Nato nel 1452, dal 1490, quando già la sua
attività di pittore si è espressa in capolavori come La Vergine delle Rocce (entrambe le versioni), si dedica a un tipo
di studio che si collega direttamente al nostro tema portante in questo
momento. Gli interessa stabilire un nesso metaforico fra comportamenti
individuali e fenomeni naturali, rendendo il risultato di esso componimento
letterario. Così prendono forma le sue Favole,
che rappresentano una novità rispetto alla tradizione favolistica antica,
risalente a Esopo e a Fedro. Per comprendere di cosa si tratti, conviene fare diretto
riferimento a un testo, la favola, dedicata a aria e acqua.
Trovandosi
l’acqua nel superbo mare, suo elemento, le venne voglia di montare sopra
l’aria, e confortata da foco elemento, elevatasi in sottile vapore, quasi parea
della sittigliezza dell’ari; e montato in alto, giunse infra l’aria più sottile
e fredda, dove fu abbandonata dal foco. (Codice Forster, c. 2r)
Consideriamo,
a partire da questo incipit, le
caratteristiche attribuite all’acqua, che Leonardo scrive essere abitata da un
desiderio di elevazione, per favorire il quale chiede aiuto al fuoco, che
facendola evaporare la rende simile all’elemento suo modello (al quale lei,
l’acqua, aspira), l’aria appunto, con la quale riesce effettivamente a confondersi (l’acqua diventa, complice il fuoco, aria) com’era suo desiderio, mentre il
fuoco, una volta esaurito tale compito l’abbandona. Purtroppo per lei, però,
una volta arrivata in alto e raffreddatasi, l’acqua torna a essere se stessa, e
ricade sulla terra in forma di grandine (E
piccoli granicoli, sendo restretti, già s’uniscano e fannosi pesanti, ove,
cadendo, la sup si converte in fuga, e cade del ciel; onde poi fu beuta dalla
secca terra, dove lungo tempo incarcerata, fe’ penitenzia del suo peccato. Codice
Forster III, c. 2r). Dunque
Leonardo racconta sia l’evento fisico del passaggio di stato dell’acqua ad aria,
il fenomeno dell’evaporazione, sia
fornisce un’interpretazione morale del comportamento degli elementi coinvolti:
l’acqua evapora perché desidera essere
come l’aria, ma questa sua hybris
comporta una punizione, che altro non è se non un ritorno circolare alla
condizione di partenza. Fondamentale notare che con questo racconto Leonardo dà
vita a una tecnica compositiva che ancora non esisteva: niente a che vedere con
il simbolismo dei bestiari, lapidari,
erbari medievali (ai quali si potrebbe erroneamente assimilare l’esempio),
perché non si tratta qui di riconoscere un signum
divino impresso nella creazione,
quindi una sorta di lingua determinata del deus
absconditus, ma proprio, all’opposto, di riconoscere al linguaggio
utilizzato immaginificamente la
funzione di mettere in relazione concetti/oggetti differenti, rendendoli unica
metafora. Sottolineo ancora il concetto: Leonardo sperimenta le potenzialità
della parola e della retorica
contemporaneamente nel campo scientifico e in quello umanistico. In questo
senso inventa uno stile, in cui opera al massimo grado il senza soluzione di continuità che, ironia della sorte, è
espressione mutuata dall’ambito scientifico, medico, e accquisisce, attraverso
la negazione, un significato esattamente opposto a quello originale. La soluzione
di continuità è in medicina una separazione fra tessuti, ma il senza, che precede sempre l’espressione
nel linguaggio comune, contribuisce invece a mettere in rilievo un’assenza di
separazione. Proprio quella che, tornando a Leonardo, il pensatore
rinascimentale intende concretizzare, rendendola poesia nel senso originario del termine, con la favola dell’aria
che presume poter diventare qualcosa
di diverso da sé e viene alla fine ricondotta alla natura che le è propria. Lo
stile che Leonardo sperimenta ha una potenzialità espressiva che ancora impegna
i suoi esegeti: la favola metaforizza e al tempo stesso descrive un processo
senza venir meno all’interesse naturalistico e senza fraintenderlo in alcun
modo. Anche questo concorre a rendere radicalmente differente lo studio
leonardesco dalle intenzioni dei sopra citati bestiari e affini: questi
ultimi non si peritavano di inventare arricchendo le caratteristiche dell’animale o
pietra o pianta argomento di descrizione con particolari del tutto fantastici,
funzionali a rendere esplicito un senso simbolico attribiito a prescindere.
Viceversa Leonardo si serve dell’elemento, anzi, degli elementi naturali
riconosciuti nelle loro effettive funzioni per creare un’immagine (metafora)
all’interno della quale si istituiscono inediti (ossia non ancora pensati da
nessuno) rapporti fra piani diversi, naturale e umano, cioè psicologico e
morale. Un’altra favola, la quinta, contenuta nel medesimo codice che tramanda
la precedente, racconta una storia molto simile. Fuoco e acqua bollente
competono per la loro egemonia: Il foco
contende l’acqua posta nel laveggio, dicendo com l’acqua no merita star sopra
il foco, re delli elemente, e così vo’ per forza di bollore cacciare l’acqua
del laveggio; onde quella per farli onore d’ubbidienzia, discende in basso e
annega il foco. (Codice Forster III, c. 30r). L’acqua, grazie alla sua
umiltà, ha la meglio sul fuoco, spegnendolo dopo essere fuoriuscita dal paiolo.
Da notare che Leonardo rende queste favole una sorta di chiosa, oppure esse
nascono contestualmente, a esperimenti condotti per verificare i vari
comportamenti descritti. Egli, mediante un sistema di segni testuali
(linguaggio), visivi (disegni) e di pratica sperimentale, intende definire il
carattere degli elementi naturali da un punto di vista scientifico, per poi,
grazie alla letteratura, rappresentare in metafora le dinamiche documentate
nella sua esperienza.
IL SOGNO DEL FUTURO
Tutto in un punto
L’idea che tutto possa essere racchiuso in un punto coincide con almeno due
immaginazioni: la prima riguarda un occhio divino che tutto vede. Nell’occhio divino è contenuto quindi tutto, ciò che è stato, che è, che sarà,
in un eterno presente che è anche spazio infinito. L’immaginazione in questione
rimbalza attraverso i secoli e prende il nome di una lettera dell’alfabeto
ebraico, aleph, o in alternativa di
quello greco, alfa. La seconda immaginazione richiede invece di
pensare al modello cosmologico divulgato come big bang. L’universo avrebbe iniziato a espandersi a velocità
elevatissima a partire da una condizione di concentrazione e densità estreme della materia. Sono due immaginazioni, due pensieri astratti, ai quali si riconducono teorie
religiose, filosofiche, scientifiche e che ispirano l’arte da migliaia di anni.
Nel rinascimento, complici tutte le discipline che abbiamo citato fino a questo
momento, gli studiosi approdano a una rappresentazione del tutto in un punto che è provvista di una tale eloquenza da renderla
un ottimo sostitutivo di qualsiasi discorso sistematico: la rappresentazione dell’uomo vitruviano[7],
penna e inchiostro di Leonardo, ancora una volta, che rappresenta proporzioni perfette dell’umano inscritto,
circoscritto e cicoscrivente due figure geometriche perfette, il quadrato, che
rappresenta la Terra, e il cerchio, che
rappresenta il piano divino, il Cielo.
L’άνθρωπος raffigurato, essere
umano in movimento, riprodotto in proporzioni perfette, rappresenta un
microcosmo che rimanda al macrocosmo nel senso che lo contiene oltre a esserne
contenuto. L’essere umano sintesi di micro e macrocosmo, concepito a partire da
un trattato di architettura, ma anche trascendendolo, può ben essere
considerato una variazione sul tema del tutto
in un punto. Anche in questo caso, come in quello dell’aleph o della teoria cosmologica del big bang, si tratta di
racchiudere tutto in un’unica
rappresentazione, dando luogo nuovamente a una metafora, di quelle di cui
Leonardo è maestro e che sembrano caratterizzare il suo stile comunicativo in
senso lato, ovvero non solo per quanto riguarda la pratica letteraria. Fra
l’altro si manifesta qui un nuovo magistero, quello dell’architettura, alla
quale il trattato vitruviano (che Leonardo non aveva letto in quanto non ancora
disponibile in volgare) dedica proprio all’inizio una manifesta lode, Architecti est scientia pluribus disciplinis
et variis eruditionibus ornata, insomma una scienza che compendia in sé
tutte le altre e rammenta l’omaggio di Leonardo Bruni a Dante, riconosciuto
come maestro di filosofia per via della poesia. Gli umanisti come i
rinascimentali sono spesso inclini a riconoscere la superiorità del pensiero
che non si autoconfina nello specialismo, cercando anzi di trarre beneficio
dagli sconfinamenti, dai prestiti, dalle contaminazioni. Solo così si riesce a
superare l’angustia della compilazione e dell’erudizione, attingendo a quei
vertici che è poi l’arte nelle sue varie declinazioni a riuscire a rendere
manifesti a tutti, anche fuori dal circuito dei cosiddetti dotti. Innegabile,
infatti, che le arditezze architettoniche, come le rappresentazioni figurative,
non fossero esclusivamente destinate ai ricchi committenti ma, grazie al fatto
di trovarsi in edifici frequentabili da tutti, come le chiese ad esempio,
potessero ben essere godibili da un numero esteso di soggetti. Non così le
riflessioni teoriche, ovviamente, ma il rilievo appena fatto non perde valore
per questo: il periodo di cui ci stiamo occupando è manifestamente animato da
un entusiasmo (etimologicamente essere abitati da un dio, ovvero avere in sé un dio) attivo nei riguardi
della possibilità di rendere migliori le condizioni di esistenza anche
collettiva. In questa direzione si volgono le riflessioni teoriche che
riguardano l’organizzazione politica, come vedremo in particolare studiando
Machiavelli e il suo Principe.
Naturalmente gli ostacoli per la realizzazione di disegni siffatti, per quanto
concepiti appunto con entusiasmo,,
sono molteplici, ma è notevole lo sforzo noetico
compiuto in questi secoli, del cui contributo non possiamo fare a meno ancora
oggi.
MACHIAVELLI
Venerazione per gli
antichi maestri, interesse costante per le cose
del mondo, la politica, attivismo del negotium
e dell’otium, queste possono essere
alcune essenze della vita di
Machiavelli, che ora evoco in uno stile riassuntivo ma non troppo, vista la
rilevante importanza degli eventi da lui vissuti direttamente nei testi che
saranno oggetto di nostro studio e approfondimento, ovvero Principe e Mandragola. Niccolò nasce a Firenze nel 1469, figlio di
Bernardo, dottore in legge e di
Bartolomea de' Nelli. I suoi primi studi sono condotti classicamente: grammatica, storici latini, filosofia. Precoce l’avvicinamento alla politica: tra il
1492 e il 1494 cerca di stringere rapporti con Giuliano de' Medici,
destinatario, forse, di una sua composizione pastorale. Caduti i Medici e
affermatasi l'autorità di Savonarola, Machiavelli si avvicina a quei settori di
aristocrazia che, dopo una fase di ambiguo consenso, passano all'opposizione
aperta nei confronti del frate e ne provocano la rovina. In questa luce si
spiega come, entrato in concorso fin dal febbraio 1494 per un ufficio minore,
subito dopo il supplizio di Savonarola (23 maggio), Machiavelli sia
nominato segretario della seconda
cancelleria e poi segretario dei Dieci. La sua experienza
delle cose moderne, rivendicata
nella prima pagina del Principe, consiste
nel servizio diplomatico che svolge presso
le principali corti italiane e straniere, tra cui una missione presso Caterina
Sforza, contessa di Forlì, e una in Francia per richiedere all'alleato un
maggiore impegno nella guerra pisana, fra il 1500 e il 1501. Nel giugno
dell'anno seguente è coadiutore di Francesco Soderini nell'ambasciata a Cesare
Borgia, detto il Valentino, allora impadronitosi di Urbino; dall'ottobre
1502 al gennaio 1503 svolge una seconda legazione presso il Valentino, in coincidenza con la ribellione
dei luogotenenti, che il Borgia doma senza scrupoli, ricorrendo all'astuzia e
alla crudeltà. Dall'ottobre al dicembre del 1503 è in missione a Roma per
seguire il conclave da cui esce eletto
Giulio II. Intanto, nel settembre 1502, è nominato gonfaloniere perpetuo della
repubblica fiorentina Piero Soderini, cui Machiavelli si lega di sincera, ma
non acritica, fedeltà. Nella discussione e nei conflitti, ben presto aspri, fra
il gonfaloniere e gli ottimati, Machiavelli interviene indirettamente
attraverso la redazione di promemoria e documenti consultivi, e in prima
persona col poemetto in terzine dantesche Compendium
rerum decemnio in Italia gestarum, che è una vivace cronistoria degli anni
1494-1504. Come provano anche gli ultimi versi del poemetto (ma sarebbe il cammin facile e corto / se voi
il tempio riaprissi a Marte), Machiavelli caldeggia il progetto di una milizia della
repubblica, formata da cittadini e sudditi, non da mercenarî né da alleati
stranieri. Al progetto sono fortemente avversi gli ottimati, che vogliono invece
detenerne il monopolio. Nonostante il sostegno del cardinale Francesco
Soderini, soltanto nel dicembre 1505 si può dare inizio al reclutamento e
all'addestramento dei primi contingenti. La provvisione definitiva è votata il
6 dicembre 1506, sulla base di un documento steso da Machiavelli (La cagione dell'ordinanza). Gli anni
successivi lo vedono impegnato in incarichi
diplomatici e attinenti alle milizie. Nel 1512 una svolta: dopo la terribile
battaglia di Ravenna e il ritiro dei Francesi dalla Lombardia, forze militari
spagnole al seguito del cardinale Giovanni, capo della famiglia de' Medici e
legato pontificio, entrano in Toscana, le fanterie fiorentine sono annientate e
Prato sottoposta a uno spaventoso saccheggio, a seguito del quale Piero Soderini
deve fuggire da Firenze. Dopo un breve interregno, i Medici prendono il potere.
Machiavelli, che aveva esortato i vincitori
a continuare la linea antiottimatizia del Soderini, viene privato del suo incarico e condannato a un
anno di confino entro il dominio fiorentino. Sospettato di aver preso parte
alla congiura ordita da Capponi e Boscoli contro i Medici, all’inizio del 1513
viene arrestato e torturato. Può uscire di prigione grazie all'amnistia seguita
all'elezione papale di Giovanni de' Medici (Leone X) e si ritira nel podere
dell'Albergaccio, a Sant'Andrea in Percussina. Qui, mentre tenta in ogni modo
di ottenere qualche incarico dai nuovi signori, soprattutto attraverso
l'amicizia di due fautori medicei come i fratelli Paolo e Francesco Vettori,
compone forse un trattato sulle repubbliche (destinato a trasfondersi nei Discorsi), e soprattutto il breve trattato
De principatibus, universalmente noto
con il titolo che gli applica la stampa romana del 1532: Il Principe. Dopo la morte di Lorenzo (1519) la diffidenza della
famiglia dominante nei confronti di Machiavelli pare attenuarsi. All'incirca
nello stesso periodo, viene rappresentata in Firenze la Mandragola, che subito dopo papa Leone chiede di vedere anche a Roma. Nell'estate del 1520 Machiavelli
svolge una missione semiufficiale a
Lucca e dà inizio a una fitta corrispondenza epistolare con Francesco
Guicciardini[8],
allora governatore di Modena. Divenuto nuovamente sospetto ai Medici, si ritira
a vita privata per concentrarsi sull'opera letteraria, e nel giugno del 1525
presenta al dedicatario Giulio de' Medici, che dal novembre del 1523 è salito
al soglio pontificio col nome di Clemente VII, gli otto libri delle Istorie fiorentine: queste vanno dalla
fondazione della città al 1492, ma hanno per vero soggetto il conflitto civile
in Firenze, dallo scontro fra guelfi e ghibellini alla vittoria dei Medici. La
situazione politica va intanto facendosi più complicata, dopo la sconfitta dei
Francesi a Pavia nel 1525 da parte di Spagnoli e Imperiali, e Machiavelli è inviato in Romagna, presso Guicciardini, per
organizzarvi la milizia. Sembra si trovi a Civitavecchia quando, nel rovescio
generale della lega (il 6 maggio 1527 Roma è messa a sacco), i Medici sono
scacciati da Firenze e viene restaurata la repubblica (17 maggio). I nuovi
governanti, di estrazione savonaroliana, non sono favorevoli a Machiavelli, che
non è più convocato. Già minato nel fisico, muore nello stesso anno e viene
sepolto in Santa Croce, il cimitero
fiorentino in cui Foscolo, nel carme Dei
sepolcri che conoscerete più avanti, ambienta un suo articolato omaggio spirituale
alla civiltà italiana evocando, oltre alla tomba di Machiavelli, quelle di
Michelangelo e Galileo, nonché numerosi altri ingegni legati direttamente o
indirettamente a Firenze.
Mi servo ora, per un
avvio alla lettura del Principe, di
un metodo simile a quello adottato con Ariosto e L’Orlando furioso. Propongo di seguito una sintesi del testo
strutturata secondo i capitoli. Il Principe,
ovvero De principatibus¸ suddiviso in
XXVI capitoli, è impostato in massima
parte fra il luglio e il dicembre del 1515 e pubblicato postumo: Machiavelli
assume la forma-Stato come oggetto di analisi empirica e scientifica. I
capitoli dal I all’XI presentano la tipologia del principato e il tipo di
governo che il principe deve di volta in volta seguire per garantirsi un
dominio sicuro in situazioni costituzionalmente differenti. Machiavelli fa
ampio ricorso a procedimenti disgiuntivi, che connotano stilisticamente il
testo e determinano le caatteristiche di fondo del ragionamento: due sono le
forme di una costituzione statale, o
repubbliche o principati; questi poi possono essere ereditari o nuovi; quindi o
nuovi totalmente o nuovi aggiunti a vecchi possedimenti; e ancora possono essere o abituati alla servitù o alla libertà e essere acquistati o con le armi d’altri o con le proprie e
infine o per mezzo della fortuna o per
mezzo della virtù (non esamina tutta la casistica, ma passa subito ai
principati ereditari e poi al principato nuovo, che gli interessa di più). Il
capitolo VII è quello dominato dalla
figura del duca Valentino, Cesare
Borgia, figlio di papa Alessandro VI (compie una disamina della sua vicenda,
fino alla conclusione negativa per lui). Nel capitolo VIII esamina casi di
sovrani che hanno ottenuto il comando con crudeltà e scelleratezze (come
Agatocle, tiranno di Siracusa), nel
capitolo IX, quanti pervengono al principato col favore dei cittadini. Dal XII al XXIV capitolo vengono
trattate questioni interne alla vita dello stato e poi le caratteristiche che
si richiedono a un principe nuovo. Tra le questioni interne spicca quella delle
milizie. Dal XV al XIX, ricalcando la struttura degli specula principum[9],
ne stravolge gli intenti etici. Terminata la codificazione politica, che
prosegue nei capitoli dal XX al XXIII
entrando in dettagli organizzativi dello stato, nel XXIV esamina le cause per
cui i principi d’Italia hanno perduto i loro stati: è avvenuto per
improvvisazione, per mancanza di cognizione, da parte dei regnanti, dei
fondamenti dello stato. Infine i
capitoli XXV e XXVI trattano rispettivamente il tema della fortuna, che è
l’antagonista costante della virtù umana e con essa lotta perennemente, e,
nella Exhortatio conclusiva, il tema
della liberazione dell’Italia dagli stranieri, che Machiavelli vorrebbe
affidare ai Medici. Si tratta, più che di una proposta politica, di un appello
alla rigenerazione morale di alta tensione emotiva.
La scienza della
politica è trattata da Machiavelli come scienza
della realtà, che egli osserva con attenzione: precisamente la realtà dei
sovrani assoluti di Francia, Spagna e Inghilterra, quella dei principi
rinascimentali, dei papi ma pure quella dei borghesi dediti agli affari, affini
ai sovrani e ai principi per quanto riguarda la regola di perseguire
l’utile agendo in modo razionale. Infatti, se costoro non ricorressero alla
scienza degli affari, si rovinerebbero. Nessuno
dei soggetti sopra citati si ispira a precetti di natura astratta: i sovrani
delle monarchie nazionali come Ferdinando d’Aragona, i Tudor o i re di Francia offrono lezioni di
realismo dimostrando che il nuovo stato moderno si regge sull’unità del comando,
sulla forza dell’autorità, su eserciti proprî. Guardando alla realtà dell’agire
politico è poi ovvio che Machiavelli
separi la politica dalla morale, che rappresenta una normativa esterna. La politica è razionalità rispetto
all’unico scopo dell’utile politico ed è perciò autonoma rispetto a qualsiasi
regola che possa alterarne la coerenza. Machiavelli cerca quindi di cogliere l’essere
umano nelle costanti del suo agire, convinto com’è che la natura umana rimanga
fissa nel tempo e che la storia non sia che un’applicazione infinita di quelle costanti. Quanto alle costanti,
esse sono due: la natura dell’uomo è
aperta, anche nel senso ch’egli può essere razionale o irrazionale ed è rimasta
la stessa nei secoli; la realtà oggettiva consiste principalmente nelle
interrelazioni umane, che si svolgono secondo leggi che bisogna cercare di
conoscere (il buon politico infatti le conosce e sa piegarle ai propri scopi)
per poi utilizzarle ai propri fini. Si tratta, ripeto, di un invito alla razionalità, ma una
razionalità autonoma ovvero inerente all’azione politica.
Passo ora alla seconda opera di nostro
interesse. Voltaire nell’Essai sur les
moeurs et l’esprit des nations (1756), a proposito della Mandragola scrive, magari con un po’ di
esagerazione, che la sola Mandragola di
Machiavelli vale forse più di tutte le commedie d’Aristofane. A parte
l’omaggio tributato dall’illuminista a un estro compositivo che possiamo
apprezzare anche noi, è notevole che questa commedia abbia una strettissima
parentela concettuale col pensiero politico del suo autore, ovvero che nasca
dalla medesima intelligenza degli uomini e delle cose che si riconosce nelle opere politiche e storiche. In più,
rivela la capacità di cogliere quanto di divertente e paradossale c’è nella
vita quotidiana, e un temperamento beffardo disposto a dissacrare qualsiasi
valore. Tale magnifica sintesi non si sarebbe prodotta senza Boccaccio, la
cultura umanistica fiorentina e la fioritura della commedia di corte, alla
quale partecipa (anche se non ce ne siamo occupati direttamente) Ariosto.
Questi antecedenti, più o meno vicini a Machiavelli, esercitano una forte
influenza sul testo di cui ora propongo
una presentazione, da accompagnare senz’altro alla lettura diretta e alla
visione di una rappresentazione, se possibile.
Molte ricerche sono state fatte per
stabilire la datazione dell’opera, convenendo infine possa collocarsi prima del
1520, in un periodo in cui Machiavelli si dedica ancora a rifinire il suo
fondamentale trattato politico e in cui si dibatte fra problemi svariati,
compreso il mantenimento della famiglia in assenza di un incarico politico
soddisfacente, e non solo sul piano umano. La svolta in questo senso negativo
avviene, abbiamo visto, nel 1513, ed è
tra l’altro documentata dal fitto epistolario che Machiavelli intrattiene con Vettori[10],
allora ambasciatore fiorentino a Roma: i due discutono i fatti recenti della
politica italiana ed europea, fanno previsioni sugli accadimenti futuri, ma
anche si raccontano come trascorrano le giornate, le letture, gli svaghi
amorosi. In qualche lettera, gli studiosi impegnati a ricostruire il processo
compositivo della Mandragola hanno
trovato significativi elementi per sostenere che sia stato piuttosto lungo e
che l’opera non sia affatto stata composta di getto come un tempo si credeva.
Passo dunque ora a sintetizzarla, sempre nella prospettiva di fornire una guida
(non una sostituzione) alla lettura diretta. Come da tradizione della commedia
antica, da Plauto a Terenzio[11],
si apre con un prologo sotto forma di
canzone di otto stanze, nelle prime quattro delle quali è esposto l’argomento e
l’elogio della commedia, nelle seconde quattro un’autodifesa e un attacco ai
detrattori. Due volte cita i personaggi,
nella seconda e terza stanza e nella quarta, ma in quest’ultima aggiunge
Ligurio e esclude Lucrezia. La ridondanza può essere motivata dal fatto che i
prologhi non fossero fissi, ma potessero variare da rappresentazione a
rappresentazione. Ora la vicenda. A Firenze una coppia di coniugi molto ricchi
non riesce ad avere figli pur desiderandolo. La moglie, giovane e bella, si
chiama Lucrezia; il marito, attempato e stolto, nonché presuntuoso, Nicia
Calfucci. A Parigi un fiorentino, Callimaco Guadagni, venuto a conoscenza della bellezza fuori
dall’ordinario di Lucrezia (reminiscenza dell’amor de lonh di memoria cortese, ma anche della novella VII, 7 di
Boccaccio dedicata a Ludovico e a Madonna Beatrice) se ne innamora per fama e
decide di far ritorno a Firenze insieme al servo Siro per conquistarla. La
donna è però onestissima e l’impresa si rivela pressoché impossibile. Callimaco
ricorre a un sensale, Ligurio, che dopo aver considerato altre possibilità,
rivelatesi poco praticabili, inventa il seguente stratagemma: Callimaco fingerà
di essere un grande medico a conoscenza di un metodo infallibile per fare
ingravidare le donne sterili, dando loro da bere una pozione fatta con succo di
mandragola. Però, essendo la mandragola una pianta velenosa, il primo uomo che
si congiungerà con la donna, dopo che questa avrà bevuto la pozione, morirà. Il
marito presta fede alle parole di Callimaco, e naturalmente non è disposto a
morire. Il finto medico suggerisce allora il rimedio: catturare un giovane
sfaccendato per strada e costringerlo con la forza a dormire una notte con la
donna, in modo da congiungersi con lei e subirne le conseguenze (quel giovane
sarà naturalmente lo stesso Callimaco mascherato). Nicia si dice d’accordo, ma
dubita che Lucrezia possa accettare una cura per lei così compromettente, e
offensiva per il suo pudore. A convincerla sarà il suo confessore, fra’
Timoteo, ricompensato lautamente da Callimaco, con il sostegno della madre di
lei, Sostrata. L’inganno va in porto e l’amante, ulteriormente travestito, è messo dallo stesso Nicia nel letto della
moglie. Naturalmente Callimaco si rivela alla donna dichiarandole il suo amore
e Lucrezia, per così dire costretta dalle circostanze, concede anima e corpo
all’amante, non solo per quella notte ma, vero e proprio colpo di scena, per sempre. Apprenderemo più tardi dalla Clizia, l’altra commedia di Machiavelli,
che effettivamente un bambino nasce e che fra’ Timoteo ottiene fama di santità per aver operato con le sue
preghiere il miracolo di far ingravidare una donna sterile.
La vicenda narrata nella Mandragola è atipica per una commedia
cinquecentesca, e più adatta a una novella,
anche se nella sua ossatura è riconoscibile lo stampo plautino o
terenziano. Compare infatti il tipo del iuvenis
(Callimaco), del senex (Nicia) e la
contesa per la giovane e bella donna (Lucrezia); il servus callidus è Ligurio e la parte del proprietario o lenone è
interpretata da fra’ Timoteo che tiene Lucrezia in soggezione spirituale, oltre
ad avere un cospicuo interesse economico in tutta la faccenda. L’originalità
machiavellica consiste nell’aver coniugato, dando luogo a un ossimoro, le
convenzioni del teatro comico (con le loro deviazioni
fantasiose) con il realismo novellistico, non senza strizzare l’occhio alla
propria (di Machiavelli medesimo) trattazione politica. Motore dell’azione è
senz’altro il desiderio erotico, provato per primo da Callimaco e circonfuso
inizialmente da un’aura astratta, di cui abbiamo riconosciuto la matrice
cortese. A questo desiderio erotico s’affianca, in controluce però, il
desiderio di procreazione della coppia, con il suo versante materialistico
rappresentato dalla conservazione dei beni da parte del vecchio Nicia, per
trasmissione ereditaria. Il desiderio erotico non si sublima certo, in un
contesto comico (ma anche nella realtà è raro accada), ma fa di tutto per
arrivare a una realizzazione che gli dia anche un senso: entra così in gioco la
tecnica politica, le trovate di
Ligurio (che guida machiavellicamente Callimaco)
che alla fine giungono al risultato voluto, non senza ricorrere alle tecniche
della contraffazione di cui discorre sempre
il trattato politico. In questa
dimensione comica e teatrale, la contraffazione coincide anche, non solo, col
travestimento, attraverso il quale appunto si perviene al risultato voluto.
Questo, però, non è di così semplice proposizione. Non solo Callimaco ottiene
infatti l’incontro sessuale con Lucrezia,
ma questa s’innamora di lui, come lui già di lei, e i due si uniscono su due
piani, compreso quello del matrimonio
in una forma così paradossalmente storpiata da far riconoscere immediatamente
lo sberleffo che Machiavelli riesce con la trovata a indirizzare all’intera
istituzione ecclesiastica (e sociale) del suo tempo. Nella scena finale,
infatti, una Lucrezia totalmente trasformata (come lo stesso Nicia, pur poco
dotato di comprendonio, intende) viene offerta
al suo amante come sposa dallo stesso marito
legittimo, in una cerimonia purificatoria (si fa per dire) officiata
proprio da quel fra’ Timoteo che ha vinto tutte le legittime resistenze di
Lucrezia (moglie fedele) a prestarsi a un accoppiamento infamante per svariate
ragioni. Estroso modo di rovesciare le
carte in tavola persino di là dalle aspettative del carnascialesco, dato che tutto resta come prima (Nicia è sempre
il legittimo sposo di Lucrezia e pensa davvero di essere prossimo alla
paternità essendone l’artefice) ma niente
è come prima dato che Lucrezia non è più una sposa fedele ma un’adultera il
cui marito ha acconsentito di buon grado all’adulterio. Il pubblico della
commedia fa forse la parte che nella prospettiva del Principe possono assumersi
quelli che, conoscendo a fondo le caratteristiche degli uomini di potere, così
come le rivela lo stesso Machiavelli, accettano comunque di essere sotto il
loro controllo, ma avendo a disposizione tutti gli strumenti per capirne
tecniche e sotterfugi. Se nel caso degli spettatori si tratta, alla fine, di
prorompere in una risata, scoperta la natura della beffa, resta da capire quale possa essere la legittima, o
cataritca, reazione di chi abbia inteso
la lezione del Principe e si trovi a vivere nella realtà politica, dal
cinquecento a oggi, sia pure con le necessarie distinzioni.
RABELAIS
L’ordine che abbiamo
riconosciuto alla rappresentazione dell’uomo vitruviano, per il fatto stesso di
porsi come una quintessenza di sintesi, contiene per forza anche il suo
opposto, ovvero il disordine o caos. Si tratta quindi, una volta ancora, di un
pregnante ossimoro: perché tutto in un
punto esaurisca ogni condizione posta dalla sua stessa definizione è certo
necessario ospiti qualunque contraddizione, e pertanto non stupisce incontrare
in pieno rinascimento più artisti che a loro volta danno espressione a
controcanti, rispetto alle scelte dominanti, ovvero mirano decisamente a una
dissacrazione di generi, a una sfida contenutistica rivolta a quelle auctoritates che, per quanto meno
invadenti rispetto a un’epoca come quella medievale, pure non cessano di
esercitare un diritto di giudizio insindacabile in merito a liceità, buon
gusto, moralità. Naturalmente, per permettersi di dissacrare occorre possedere
dottrina, padroneggiare la o le forme che si intendono contravvenire,
capovolgere e stravolgere, rendendo possibile riconoscere la natura profonda
della propria scelta oppositiva. Un caso di questo genere è certo lo scrittore
francese François Rabelais (1483-1553), autore di Pantagruel (1532), Gargantua (1534)
e altri tre romanzi sempre dedicati ai due personaggi. Pantagruele è figlio del Gigante Gargantua e
di Babedec, che muore nel partorirlo. Egli, a sua volta gigantesco, riceve
un’educazione umanista, è dotato di uno smodato appetito ed è molto forte. A
Parigi diventa amico di Panurge, un chierico e avventuriero, con cui
s’accompagna in svariate vicende. Al centro della narrazione è l’attacco da
parte dei Dipsodi al regno d’Utopia, respinto grazie alla forza di Pantagruele
che diventa così re dei primi. Rientra in questo I libro l’episodio della visita da parte del narratore Alcofribas nella
bocca di Pantagruele, nella quale è contenuto un mondo intero. A questo
interessante episodio dedica un’analisi Erich Auerbach nel suo saggio,
pubblicato in Italia nel 1956, intitolato Mimesis.
Il realismo nella letteratura occidentale. Prima di dedicarmi a qualche
pagina in particolare dell’opera di Rabelais, fornisco ancora qualche notizia
contenutistica relativa al secondo romanzo, al cui centro è il padre di Pantagruele, Gargantua, nato da
Grangola, il gigante sovrano d’Utopia, e da Gargamella, che lo partorisce da un
orecchio. A differenza di Pantagruele, Gargantua riceve un’istruzione
medievale, debitamente schernita dall’Autore, alle cui storture pone rimedio il
saggio Ponocrate, che gl’insegna a considerare i libri maestri di vita. Il
regno viene assalito dal vicino re Picrocole ma, grazie all’aiuto di fra’ Giovanni
Fracassatutto, Gargantua ha la meglio: si dimostra clemente con i vinti e
concede al frate di costruire un’abbazia dove vigerà l’unica regola del fa’ quello che vuoi. Iniziamo dal Prologo dell’Autore.
Beoni lustrissimi e
voi Impestati pregiatissimi (poiché a voi e non
a altri dedico i miei scritti) Alcibiade nel dialogo di Platone
intitolato il Simposio, lodando Socrate, suo
precettore e, senza contrasto, principe de’ filosofi, dice fra l’altro ch’egli
era simile ai sileni. Per sileni s’intendeva una volta certe scatolette, quali
vediamo ora nelle botteghe degli speziali, dipinte di figure allegre e frivole
come arpie, satiri, ochette imbrigliate , lepri colle corna, anitre col basto,
capponi volanti, cervi aggiogati ed altrettali immagini deformate a capriccio
per eccitare il riso, quale fu Sileno, maestro del buon Bacco.[12]
Proseguo sintetizzando il testo, che senza
alcun dubbio merita di essere letto direttamente. Nelle scatolette dette sileni
si trovano droghe fini come ambra
grigia, muschio (il testo rabelaisiano è spesso composto da elenchi.
sovrabbondanti e sbalorditivi) e questo rende chiara la similitudine: l’aspetto
di Socrate, brutto, ridicolo, con l’espressione da matto e da beone, con modi
di fare semplici e abiti rozzi, è solo l’involucro, la scatola, all’interno
della quale si trova la droga della
sua sapienza, del suo intelletto e del suo animo profondo senza pari,
coraggioso e capace di disprezzare tutto quello che gli umani in massa
inseguono e per il quale si dannano e affannano. L’avviso ai lettori a questo
punto, fuor di similitudine, si fa preciso: l’insegna del libro promette burle
e facezie, stramberie e lazzi da saltimbanco, ma bisogna entrare e allora si trova anche altro, o meglio, si
trova quell’altro che nella
similitudine socratica prende il nome di droga
e di saggezza. Ricorre poi a un’altra
similitudine, con un cane che s’affanna con un osso per arrivare a suggere il midollo, quel poco che è però quintessenza di piacere, per dire che nel testo si
rivelano orribili misteri su ciò che
concerne la nostra religione, lo stato politico, la vita economica. Al fine
di sottrarre solennità a quest’ultima affermazione, ne ribalta subito completamente
il senso, scrivendo che la maggior parte dei sovrasensi riconosciuti alla poesia (cita per questo Omero) non
sono stati inseriti in essa coscientemente dagli autori, così come lui,
abituato a scrivere mangiando e bevendo, non ha avuto intenzione di rivelare
misteri d’alcun tipo. La burla si rivela in questa parte introduttiva come la
veste stilistica prescelta: il lettore deve essere avvertito che lo spirito
dell’autore è burlesco e beffardo, che le capriole e i sovvertimenti di senso
sono continui e che, come in quello spazio screanzato e insofferente a qualsiasi
freno che è il comico, tutto è lecito, anche la totale assenza di pudore.
E ora spassatevela, gioie mie, e lietamente
leggete il resto, a suffragio del corpo e a beneficio dei reni. Ma, oeh!, mie
care teste d’asino, date retta, che il malanno vi colga, ricordatevi di bere
alla mia salute e io vi renderò, ma subito, la pariglia.[13]
Tra le migliaia di
trovate di Rabelais, scelgo di trattarne una che si colloca alla fine del I
libro: si tratta dell’accurata descrizione dell’Abbazia di Thelème[14], con
la cui edificazione e istituzione Gargantua si sdebita con fra’ Fracassatutto.
Riporto qui qualche passaggio del testo, dai capitoli LII-LIX.
Restava
soltanto da premiare il monaco. Gargantua voleva nominarlo abate di Seuillé[15],
ma egli rifiutò. Gli voleva dare l'abbazia di Bourgueil[16]
o quella di Saint-Florent, qual delle due più gli convenisse, o entrambe se
avesse voluto; ma il monaco gli rispose perentoriamente che non voleva, essendo monaco,
carico né governo. — Poiché, diceva, come potrei governare altri, io che non so
governare me stesso? Se vi pare che vi abbia reso servizio gradito e che possa
renderne altri in avvenire, concedetemi di fondare una abbazia a modo mio. Piacque la domanda a Gargantua e gli offrì
tutto il suo territorio di Thélème lungo la Loira, a due leghe dalla grande
foresta di Port-Huault. Il monaco chiese poi a Gargantua che disciplinasse la
sua regola al contrario di tutte le altre. — Anzitutto, disse Gargantua, non
bisognerà costruirvi muri all'intorno; infatti, tutte le altre abbazie sono
pesantemente murate. — Non senza ragione
è questo, disse il monaco: dove c'è muro e davanti e di dietro, c'è molto
murmurare, e invidia e mutua cospirazione. Inoltre, poiché in certi conventi di
questo mondo è usanza che, se vi entra qualche donna (intendo le savie e
pudiche) si ripuliscono i luoghi dove sono passate, così ordino che se un monaco o una monaca
entrassero per caso nell'abbazia, si ripulissero accuratamente tutti i luoghi
per dove fossero passati. E poiché negli ordini monastici di questo mondo tutto
è misurato, limitato e regolato ora per ora, fu decretato che colà non fosse né
orologio, né quadrante alcuno, ma che tutte le opere fossero distribuite
secondo le occasioni e opportunità; poiché, diceva Gargantua, la maggior
perdita di tempo che egli conoscesse, era contar le ore (che profitto ne
viene?) e la più gran corbelleria di questo mondo era di governarsi al suono di
una campana e non secondo i dettami del buon senso e del giudizio. Item, poiché
in quel tempo non si facevano monache se
non le donne ch’erano deformi, folli, malmesse, stregate e tarate, e monaci gli
uomini solo se catarrosi, malnati, sciocchi, e di peso alla famiglia... — A
proposito, disse il monaco, una donna né buona né bella, ma a che serve? — A
metterla in convento, disse Gargantua. — Già, disse il monaco, e a far camicie.
... Così fu ordinato che là non sarebbero state ricevute se non donne belle,
ben formate e di buona natura e gli uomini belli, ben formati e di buona
natura. Item, poiché nei conventi di monache non entravano uomini se non di
sorpresa e clandestinamente, fu decretato che colà non sarebbero state ammesse
donne se non vi fossero uomini, né uomini se non vi fossero donne. Item, poiché
tanto i monaci che le monache una volta entrati in un ordine, dopo l'anno di
noviziato, erano forzati e costretti a restarvi perpetuamente per tutta la
vita, fu stabilito che uomini e donne entrati colà avessero potuto uscirne
liberamente e tranquillamente quando loro piacesse. Item, poiché ordinariamente
i monaci facevano tre voti: di castità, povertà e obbedienza, fu stabilito che
colà si potessero maritare onorevolmente, che ciascuno fosse ricco e vivesse
liberamente. Quanto all'età
legittima, le donne vi erano ammesse dai dieci ai quindici anni, gli uomini dai
dodici ai diciotto. [...]
La regola dei
Telemiti e la loro maniera di vivere. La loro vita non era governata da leggi,
statuti o regole, ma secondo il loro volere e libero arbitrio.. Si levavano da
letto quando loro piacesse; bevevano, mangiavano, lavoravano, dormivano quando
ne aveano voglia; nessuno li svegliava, nessuno li forzava né a bere, né a
mangiare, né a qualsiasi altra cosa. Così aveva stabilito Gargantua. La
loro regola era tutta in un articolo: FA’ QUELLO CHE VUOI, poiché le persone
libere, ben nate, bene educate, avvezze a compagnie oneste hanno per natura un
istinto e stimolo che chiamano onore, il quale sempre le spinge a opere
virtuose e le allontana dal vizio. Coloro i quali con vile soggezione e
costrizione sono oppressi ed asserviti, rivolgono i nobili sentimenti, a causa
dei quali tendevano liberamente verso la virtù, ad abbattere ed infrangere il
giogo della servitù; poiché noi incliniamo sempre alle cose proibite e bramiamo
ciò che ci è negato. Grazie a quella libertà, erano presi da emulazione nel
fare tutti ciò che vedevano piacere ad uno. Se qualcuno o qualcuna diceva:
beviamo! tutti bevevano. Se qualcuno diceva: giochiamo! tutti giocavano. Se
qualcuno diceva: andiamo a spasso per i campi! tutti vi andavano. Se si
trattava di cacciare al volo o coi cani, le dame montate sulle loro chinee col
loro baldo palafreno recavano ciascuna sul pugno graziosamente inguantato o uno
sparviero, o un lanieretto, o uno smeriglio; gli uomini portavano gli altri
uccelli. Erano tanto nobilmente istruiti che non si trovava fra loro alcuno, né
alcuna che non sapesse leggere, scrivere, cantare, suonare strumenti armoniosi,
parlare cinque o sei lingue e comporre in ciascuna sia versi che prosa. Mai
furono visti cavalieri sì prodi e galanti e destri, a piedi e a cavallo, sì
vigorosi, sì rapidi, sì esperti di tutte le armi. Mai furono viste dame tanto
eleganti, tanto graziose, meno bizzose e più valenti a ogni lavoro di mano,
d'ago, ad ogni arte muliebre onesta e libera. Per questa ragione quando era
venuto il tempo che alcuno volesse uscire dall'abbazia, o per richiesta dei
genitori, o per altre cause, conduceva con sé una delle dame, quella che
l'aveva accettato come suo servente, e si sposavano. E se erano vissuti a
Thélème in affettuoso rispetto e amicizia, anche meglio la conservavano nel
matrimonio e tanto si amavano alla fine dei loro giorni quanto nel primo dì
delle nozze.
Nelle parti di testo che non ho riportato, la
narrazione dettaglia non solo le caratteristiche della costruzione, il
giardino, l’abbigliamento di uomini e donne, ma anche un conclusivo enigma, trattato come un reperto archeologico che l’Autore decide
di trascrivere e al quale vengono date da lui stesso due interpretazioni
differenti. Non entro in altri dettagli, ma imposto un commento del testo, con
particolare riguardo alle sezioni qui trascritte. Nella parte iniziale,
Gargantua tenta di convincere Fracassatutto a accettare un dono, che sia da
parte del re un adeguato riconoscimento dell’aiuto prestatogli: costui però
dimostra di essere un personaggio eccentrico, rispetto alle comuni aspettative,
dato che non accetta di essere ricompensato con quello che si può definire un avanzamento di carriera (essendo già
frate, potrebbe ben diventare abate in un’abbazia importante) spiegando di non potersi
permettere di comandare altri dal
momento che gli manca persino la capacità di governare se stesso. Dopo aver
avuto questa ulteriore prova di valore da parte di Fracassatutto, che sembra
echeggiare la saggezza stoica quando rimarca l’importanza di essere compotes sui, padroni di sé, prima di
voler disporre della vita di altri, Gargantua si persuade a fargli dono di un
vasto possedimento in cui edificare, sempre Gargantua gli dona un terreno sul
quale potrà far costruire, a spese del sovrano, appunto l’abbazia
di Thélème. Il frate chiede ancora
a Gargantua di essere lui a predisporre una regola che non abbia corrispondenze
in alcun’altra imposta a contesti affini, dando così l’avvio a un accumulo di
capovolgimenti, quasi sempre accompagnati o decisamente veicolati da giochi di
parole. Il primo riguarda la prescrizione di non avere mura di recinzione, così da evitare che si murmuri al suo interno: il calambour è pregnante ove si ponga mente alla commisione di latino
e francese (ma vale anche per l’italiano), poiché mur è voce latina che significa muro e in mormorare si presenta sia davanti sia dietro; quanto all’uso comune
di mormorare, significa sia parlare a
bassa voce sia tenere nascosto quello che si pensa davvero, con la volontà di
creare un distanziamento rispetto alla verità e alla realtà. Si può quindi
pensare che la regola contraria alla
quale qui si fa carnascialescamente riferimento, e come appunto se si trattasse
di un gioco di parole, è quella di non
avere paura di dire ad alta voce, di
raccontare e di esprimere, com’è proprio di un luogo aperto, in cui le relazioni sono sincere e felici. Naturalmente
questa descrizione iniziale fornisce una chiave di lettura che potremmo continuare
a tenere presente: il progetto abbaziale di Gargantua e Fracassatutto, in
quanto proposto come rovesciamento del reale, dipinge contemporaneamente anche
quest’ultimo. Le abbazie, quindi, sono luoghi anche troppo riservati, luoghi chiusi,
dove il mormorare rappresenta un
muro invalicabile, che il progetto che ora stiamo seguendo intende eludere fin
da principio. Segue poi il principio della purificazione degli estranei, che qui sono ovviamente
eventuali monaci e monache (vere, vien da aggiungere per capire), i quali sono
trattati al pari di soggetti contaminatori, così come avviene nelle abbazie
dove, dopo visite eventuali di laici, si procede a purificare gli ambienti dove
siano passati. Il sovvertimento, e la tecnica dell’accumulo, continuano ad
agire nel seguito del regolamento alla
rovescia, abolendo l’uso degli orologi, dato che il tempo non conta,
dettando i criteri di selezione iniziali in base a estetica (solo giovani di
bell’aspetto), prevedendo che maschi e femmine siano egualmente presenti,
liberi peraltro di entrare e uscire a loro piacimento. Mi soffermo ora su un
passaggio del testo in particolare, pensando che possa dare adito a ulteriori
riflessioni da parte vostra. L’unica regola dell’Abbazia, scrive Rabelais, è
una negazione del concetto di regola, riassunta peraltro in una voce
imperativa, fa’, seguita dalla
massima apertura in direzione della libertà individuale, quello che vuoi. I sottintesi sono importanti, e vanno esplicitati.
Il quello che vuoi è uno spazio
decisionale smisurato, che non ammette circoscrizione se non risalendo al
soggetto che opera, e si manifesta attraverso il verbo di volontà. Dunque a
essere qui evocato è il libero arbitrio,
la facoltà che il cristianesimo valorizza e che, per via della lettura della Divina commedia, abbiamo già
ripetutamente colto nel suo operare, anche per quanto riguarda l’esistenza
stessa della dimensione metafisica: l’inferno e il paradiso possono essere giustificati attraverso il ricorso al
libero arbitrio, nel senso che essere nell’uno o nell’altro regno dipende dalle
scelte operate nella vita terrena,
fondamentale fra tutte quella fra bene e male. Consapevole di avere, con questi
brevi accenni, sollevato ben più d’una questione più o meno irrisolvibile,
torno a Rabelais e ai sottintesi culturali di questa sua trovata. Istruiti
dall’introduzione scritta dal medesimo, teniamo presente che non sia questione
di stabilire cosa Rabelais abbia esattamente
voluto dire, ma scoprire il ventaglio di possibilità comunicative a
disposizione dei lettori dell’epoca e di noi lettori attuali. Applichiamo
insomma una volta di più il principio di lettura aperta a tutto, comprese le contraddizioni: Rabelais può certo aver
voluto soprattutto farsi beffe di istituzioni, quelle cistercensi e monacali
nell’insieme, che aveva conosciuto per prova diretta e dalle quali aveva preso
le distanze, ma può anche aver colto qualcosa della struttura del potere e del
modo di stare al mondo di numeri cospicui di esseri umani che suona quanto mai
attuale o attualizzabile a un lettore odierno. Il libero arbitrio cristiano è
concepito, dal suo esordio agostiniano, per valorizzare la scelta da parte
umana di come rendere la propria vita
e il propro destino, ovviamente quello ultraterreno, inevitabilmente
condizionato dallo svolgimento della prima. Questo fa sì che il giudizio divino
sia indiscutibilmente giusto, dal
momento che altro non è che una presa d’atto di quello che libere scelte derivanti da libero arbitrio hanno determinato. Nella
Divina commedia questa che ho appena
esplicitata è una certezza che il poeta dà mostra ripetutamente di possedere e
di volere esprimere attraverso esempi di
vite, praticamente l’intera campionatura di dannati, anime del purgatorio e
beati che costituisce l’impalcatura del poema. Anche senza essere fini teologi,
tuttavia, emerge chiaramente come questa sorta di dimostrazione sia fragile. Il
cosiddetto libero arbitrio è
basilarmente condizionato da una definizione di bene e di male che è aprioristicamente definita.
Un po’ come sostenere che sia libero
un soggetto al quale si propongano due sole possibilità di scelta, escludendo
tutte le altre. Rabelais costringe, con questa sua immaginazione dell’abbazia
regolata da una regola che nega le regole, a pensare a fondo all’essenza della
libertà umana, alla necessità che s’impone di considerarla non come una qualità
da connettere al singolo ma da riconoscere anche, se non esclusivamente, nel contesto
relazionale, con enti fisici (gli altri esseri o il mondo in generale) e
metafisici (come impongono le religioni). Evidente, a questo punto, che dietro
al gioco e alla presa in giro del suo presente, si cela un vero e proprio
intrico d’idee filosofiche più o meno insolute dai tempi di Socrate a noi.
Capiamo anche precisamente perché i testi rabelaisiani siano stati
immediatamente censurati dalla Sorbona, e non certo (di sicuro non solo) per il
loro giocoso, sfrenato ricorso al più raffinato dei turpiloqui escogitato da
una penna comica. Il riferimento, nemmeno troppo velato a ben vedere, alle
crepe del libero arbitrio è da solo sufficiente a motivare una censura, per
quanto possa sembrare che l’autore faccia qui semplicemente la parte del
bambino nella famosa fiaba di Andersen dei Vestiti
nuovi dell’imperatore, che ospita l’esclamazione diventata celebre il re è nudo! La fragilità del ricorso
al libero arbitrio per sostenere una dottrina che si fonda sul credere appare abbastanza evidente a chi
si opponga al linguaggio istituzionale o agli imperativi categorici e
indiscutibili, sicché la nudità negata
dal re che vuole a tutti i costi che i sudditi vedano quello che non c’è e ne
asseriscano l’esistenza è un dato
appariscente e oggettivo, che però solo la voce infantile si permette di
manifestare. Ho proseguito col riferimento alla fiaba di Anderson per segnalare
una traccia di pensiero, ma ora torno al testo. Dopo aver enunciato la regola sovrana del monastero, Rabelais
ne fonda la liceità su un assunto: le persone libere, ben nate e ben educate
hanno un senso dell’onore che le volge spontaneamente al bene. Tanto basta a
spiegare come l’esortazione posta a regola dell’abbazia non possa che produrre
armonia e felicità nelle relazioni reciproche. Se infatti, prosegue quello che
si configura come un preciso ragionamento in merito, le persone in questione
sono soggette a regole costrittive, si dispongono naturalmente a contrapporsi a esse, mentre in assenza di
costrizioni si possono dedicare in modo esclusivo al bene. L’argomentazione nel
suo sviluppo sfiora il paradosso: dato che si tende naturalmente a ricercare
quello che ci è negato, nel caso in cui si sia sottoposti a uno stato di
soggezione che nega la libertà, è proprio a quella che si rivolgono le mgliori
energie morali; quando la libertà, bene sommo, sia già assicurata (come a
Thélème, in virtù della regola),
allora queste anime nobili non possono che dedicarsi a fare per emulazione tutti quello che vedevano
piacere a uno. Il paradosso sembra questo: che questa sorta di statuto di libertà renda coloro che lo
adottano dei conformisti, degli imitatori (poco cambia se si utilizza il
termine emulatori). Insomma, seguendo
l’immaginazione di Rabelais, ai nostri occhi si dipinge il quadro di una
società oziosa (fin qui, niente di male)
e intenta a seguire il gregge.
L’impressione s’accentua nel seguito: sono descritte occupazioni tipicamente femminili e tipicamente maschili¸ sicché l’iniziale
carica eversiva presente nel motto fa’
quello che vuoi è non solo smorzata, ma contraddetta dagli esiti. Al
culmine di questa descrizione infatti si colloca anche il riferimento ai
matrimoni d’amore, fondati su amicizia e destinati a durare per la vita, fra
gli ospiti dell’abbazia, che non trovano di meglio che unirsi fra persone ben
costumate, appena accada loro di doversene andare, per le ragioni più svariate,
dall’abbazia. Mi servo allora qui di quanto Auerbach scrive a proposito del
mondo nella bocca di Pantagruele, che è un mondo del tutto simile a quello esterno alla bocca, con l’unica
differenza che chi lo abita ha cognizione di essere altro da chi abita fuori, mentre chi è fuori non conosce
l’esistenza del mondo nella bocca. Si tratta di una relazione unidirezionale
che favorisce ovviamente chi ha più cognizioni rispetto all’altro ma che,
considerata nella prospettiva autoriale, permette di esercitare una critica
doppia e di inaugurare una dialettica interna, fatta di rimandi permanenti a
principî volta a volta proposti come autorevoli
e poi rivoltati e messi in discussione fin dalle fondamenta. Entrando
nel merito, la questione potrebbe essere quella della libertà assoluta ovvero sciolta da ogni vincolo: le istituzioni
monacali, che ricercano la separazione
muraria, fisica, spirituale rimandano per opposizione a uno spazio aperto
in cui è possibile scegliere di rimanere o da cui andarsene, in cui la vita si
regola da sola in base a esigenze individuali che però dventano soprendentemente
voleri collettivi, nell’esercitare i quali ci si sente bene in quanto uguali a
tutti gli altri, non difformi, proprio come (e qui si torna entro il recinto
del convento da cui siamo partiti) accade a chi si sottoponga a una regola
ferrea. Un circolo vizioso che crea un po’ di vertigine, e dal quale si esce
con l’impressione di essere stati gabbati. Alla luce di questa considerazione
si potrebbe anche prendere in esame l’enigma che conclude non solo l’episodio
ma il libro, al quale ho già fatto cenno,
e che lascio quindi all’eventuale curiosità di qualcuno.
TASSO
Arte e immaginazione
del medioevo e del rinascimento mescolano razionalità e fantasie condotte di là
dai confini del senso e del senno: basti pensare alla centralità assegnata al mostruoso, nel contesto dell’iconografia come della
sistemazione enciclopedica dei concetti. Si può dire, in sintesi, che il mondo
della deformità, della mostruosità, anche quello della follia, non sia separato da quello della ragione. Un
altro esempio che si può offrire, sempre in forma sintetica, di questo proviene
dall’ambito della religiosità: c’è una prossimità iniziale, che poi
naturalmente si perde, tra il percorso che la fede compie alla luce (o
all’ombra, a seconda dei punti di vista) della ragione e estasi mistica, accesso finale al divino,
nel quale si sprofonda come in un baratro di pura irrazionalità, che può
coincidere con la comune definizione di follia. Lascio questa considerazione
alla curiosità e all’approfondimento, segnalando tuttavia che nel percorso di
quest’anno il capitolo mostruosità pertiene
alla lettura di alcuni canti dell’Inferno
dantesco.
Nel XVII secolo si
colloca una svolta che è stato in particolare Michel Foucault [17] a
identificare: a detta del filosofo novecentesco, nel 1600 si sono scisse ragione e sragione e poi è nato un nuovo
tipo sociale, l’individuo che è da internare perché offre un esempio di
esistenza orientata verso il disordine. Nel 1500, però, siamo ancora di qua dal
confine segnato da Foucault: la follia non solo è situata entro i confini
dell’io di chiunque (si pensi all’Orlando nel poema ariostesco), ma è
addirittura sfruttata come procedimento critico e conoscitivo. L’elogio della follia di Erasmo da
Rotterdam è l’opera che, nel 1500, meglio rappresenta questo filone del
pensiero. Composta da Erasmo nel 1509, durante il suo secondo soggiorno
inglese, è pubblicata a Parigi nel 1511 con titolo greco e latino: Mòrias Encòmion seu Stultitiae Laus. La
pazzia è figlia di Plutone e della Giovinezza, è nata nelle isole Fortunate ed
è stata istruita da Ubriachezza e Ignoranza; nel suo corteggio sono Amor
Proprio, Adulazione, Oblio, Odio della fatica. Parla di fronte a una grande
assemblea che riunisce tutte le nazioni, le classi e le età e annuncia il
proprio intento di tessere l’elogio di sé, dato che tutti si ispirano a lei, ma
nessuno la loda mai platealmente.
Come non c’è stoltezza maggiore di una saggezza
inopportuna, così non c’è maggior imprudenza di una prudenza distruttrice. Fa
molto male chi non si adatta ai tempi e alle circostanze, […] chi pretendesse
che la commedia non sia più commedia. Invece è da uomo veramente prudente, una
volta che siamo mortali, non aspirare a una saggezza superiore alla propria
sorte. Bisogna rassegnarsi o a chiudere un occhio qualche volta, insieme a
tutta l’immensa folla degli uomini, ovvero a commettere errori, umanamente. Ma
questo, diranno, sarebbe un agire da dissennati. Non lo negherei, purché
d’altra parte non si conceda, che tale è la vita, la commedia della vita, che
recitiamo.
Questo discorso,
concepito per la personificazione della Follia da Erasmo da Rotterdam, può ben
fungere da premessa a Tasso: un autore che con la follia ha convissuto per
tutta la vita, in un secolo a sua volta dominato dall’ossessione per le norme.
Possiamo allora iniziare a considerare come follia e ossessione siano
imparentate fra loro, servendoci nuovamente dell’esempio noto, di Orlando ossessionato da Angelica che a un
certo punto impazzisce. Sempre nel poema ariostesco, rammentiamo anche che nell’elenco bislacco di lacerti lunari di
oggetti dimenticati, compaiono non pochi motivi d’ossessione per uomini e donne
della terra. Entriamo ora nei dettagli delle norme che sembrano sovrintendere
ogni aspetto della vita cinquecentesche: estetiche, comportamentali, religiose, esse vengono
stilate e fatte applicare da autorità severe come i tribunali dell’inquisizione,
in ambto religioso, o le accademie in
ambito letterario. Per dettagliarle e approfondirne il senso, fioriscono
trattati, manuali di comportamento e di condotta[18], e
il clima normativo è reso anche più incombente dalla necessità, emersa nel Concilio di Trento, di impedire il
diffondersi di movimenti collegati con la Riforma
protestante, controllare e regolamentare il diffuso bisogno di religiosità che,
in forme non istituzionali, appare presente nella società del primo
Cinquecento, dominare definitivamente la cultura delle campagne dove non solo
sopravvivevano ma riemergevano tradizioni folkloriche e pratiche magiche,
contro le quali veniva appunto erto il baluardo della religione regolamentata,
riconosciuta, istituzionale. Le istituzioni della Controriforma
sono quindi l’edificio normativo a cui devono commisurarsi sia la circolazione
delle idee tra gli intellettuali sia le culture subalterne o cosiddette
devianti. Si crea, per effetto di
queste spinte eterogenee, un immane corpo istituzionale, separato e
gerarchizzato, che ha un rapporto evidente di omologia con altri momenti di
organizzazione normativa e gerarchica della società e della cultura: le
gerarchie sociali e la rifeudalizzazione, le regole del comportamento
cortigiano, l’organizzazione separata degli intellettuali nelle accademie. In
questa fase, significativamente, il Concilio
di Trento riesce a influenzare anche la letteratura, attraverso una rigorosa
precettistica di tipo contenutistico e morale. Si tratta di un contesto in cui
le contraddizioni sembrano dover essere tenute sotto controllo rigoroso, anzi,
abolite proprio, e in cui la necessità di normare diviene paradossalmente anch’essa
un’ossessione, che potrebbe
contribure a uscire dai confini e ritorcersi quindi contro se stessa.
Nel clima culturale
sopra delineato nasce Tasso (Sorrento
1544 - Roma 1595), al quale, a due secoli di distanza, reca un tributo il
nostro poeta romantico Giacomo Leopardi, sotto forma di un’Operetta morale, intitolata Dialogo
di Torquato Tasso e del suo Genio familiare. Leopardi lo rappresenta in una
condizione che si riproduce davvero nella sua vita: segregato in una cella a
seguito di eventi occorsi nel febbraio del 1579, e ai quali ora dò brevemente
spazio. Siamo a Ferrara e la corte
è in festa per le terze nozze di Alfonso
d’Este con Margherita Gonzaga. Tasso è appena tornato da Sorrento, dove ha raggiunto la sorella subito dopo
essere fuggito dal convento di San Francesco, anche lì internato per aver
assalito con un coltello un servo della corte,
dal quale si riteneva spiato. Durante
la festa di cui dicevo, dà in clamorose escandescenze contro il duca e i
cortigiani. Perciò viene messo, come pazzo, alla catena, e rinchiuso
nell'ospedale di S. Anna, dove, trattato più come prigioniero che come infermo,
sarebbe rimasto sette anni. A S. Anna continua a scrivere: la maggior parte dei
dialoghi, lettere a tutti quelli che sperava potessero sollecitare la sua
liberazione, e circa 650 liriche. Questi
scritti, diffondendosi per l'Italia, contribuiscono al nascere della leggenda
di una falsa pazzia, fatta credere al mondo da Alfonso, per punire il poeta del
suo amore per la sorella del duca, Eleonora: leggenda che diventa tema poetico
per tutto l'Ottocento. A rendere più gravosa la reclusione, speculatori e
ammiratori fanatici cominciano a pubblicare le opere del recluso, prima tra
tutte la Gerusalemme liberata, senza
il permesso dell'autore, che a S. Anna se ne dispera. Solo nel 1586, grazie
all’intervento del cognato di Afonso, Vincenzo Gonzaga, Tasso può uscire dal
suo carcere. Ma io, dopo queste
precisazioni, torno al dialogo immaginario raccontato da Leopardi nella sua Operetta
morale. In essa il poeta dialoga con uno spirito, il suo genio familiare
appunto, ponendosi insieme a lui
svariate domande: cosa sia il vero, che differenza vi sia tra vero e sognato,
in che cosa esattamente consista il piacere, cosa sia la noia e come si possa
sfuggire a essa, quanto il sognare e il fantasticare possano rappresentare un
ottimo antidoto non solo per vincere la noia ma il male di vivere. La
conclusione, nello stile ironico che contraddistingue tutte le Operette, porta a riconoscere la vera
natura del Genio familiare, al quale
Tasso domanda dove sia solito abitare, per poter trarre giovamento da prossime
conversazioni con lui, ottenendo in cambio la risposta ch’egli alberghi di
preferenza in qualche liquore generoso.
Questo ritratto
dell’autore della Gerusalemme liberata,
rielaborato dalla sensibilità romantica, ma soprattutto a lui peculiare, di
Leopardi, è dunque quello di uno spirito
indomito, almeno nello scavo interiore, che non teme gli sconfinamenti, i
passaggi oltre confine della ragione, in direzione di quelle lande poco
frequentate perché temute dai più, in cui la facoltà che amiamo ritenere nostra
guida fondamentale non è l’unica sovrana e la follia minaccia continuamente di
invadere il sistema percettivo, nonché l’immaginazione, reclamando un suo
spazio di espressione. Leopardi ha colto l’anima del lavoro artistico di Tasso
riconoscendogli un’acuta sensibilità nei confronti del sogno, dell’illusione,
della sfida continua lanciata ai nostri sensi da quello che accade intorno e
dentro di noi. Il poeta del cinquecento, con il suo poema che è anche l’unico
oggetto del nostro studio, cerca di rendere regolare
ciò che per sua natura non lo è. Di qui un’ispirazione artistica tentacolare,
che si volge nella direzione del cristiano, del pagano, dell’Antico e del
contemporaneo, volendo rispettare le regole del proprio tempo senza offendere
l’istinto compositivo. Un’operazione soverchiante, titanica, alla quale non a
caso deve dedicare tutte le energie della sua vita, non particolarmente lunga e
nemmeno risparmiata da traversie di vario genere.
Passo ora a dare un’idea del poema, che vi farò conoscere direttamente
attraverso l’analisi di un episodio in particolare. La travagliata composizione
della Gerusalemme liberata, alla
quale ho fatto cenno, si accompagna a itterati consulti richiesti dal poeta,
veri e propri esami dell’opera in fieri, alle auctoritates da lui riconosciute, ovvero inquisitori ecclesiastici
e accademici, compresi quelli della neonata Crusca.
In aggiunta, o per effetto di questo, Tasso procede a una riscrittura del
poema, con un nuovo titolo La Gerusalemme
conquistata, a tutti gli effetti opera differente
(elimina tutte le scene amorose e accentua la componente epico-cristiana),
e ormai unanimemente ritenuta di livello artistico incomparabilmente inferiore
alla Liberata. Di quest’ultima quindi
mi occupo in modo esclusivo, per definire le caratteristiche della materia. In
uno scritto teorico intitolato Discorsi
dell’arte poetica e i particolare sopra il
poema eroico, concepiti a
metà anni sessanta, Tasso chiarisce
quali debbano essere le regole basilari
a cui attenersi per scrivere un buon poema eroico: deve basarsi su un evento
storico, rielaborato come non abbia mai
fatto nessuno, e unire verosimile e meraviglioso riconducendo quest’ultimo
all’ambito cristiano. Infine, lo stile deve sempre adattarsi alla materia,
variando dal sublime al mediocre. Sono questi i principî
fondamentali che applica nella stesura della Gerusalemme liberata, pur con tutti i dubbi e le esitazioni che vi
ho già segnalato e che si manifestano nelle richieste di esame, di controllo,
da parte delle auctoritates.
L’avvenimento storico prescelto da Tasso per fungere al contempo da spunto e da
sfondo del poema è la prima crociata[19].
Tasso inizia a scrivere l'opera con il titolo di Gierusalemme nel 1559 durante un soggiorno a Venezia e la conclude
nel 1575, ma essa viene pubblicata integralmente nel 1581 con il titolo di Gerusalemme liberata: 20 canti in ottave
la redazione finale. La vicenda ha inizio al sesto anno di guerra, allorché
Goffredo di Buglione viene eletto comandante supremo e stringe d'assedio
Gerusalemme. Uno dei guerrieri musulmani decide di sfidare a duello il crociato
Tancredi, per decretare la vittoria di uno dei due eserciti. Al sopraggiungere
della notte il duello è sospeso e rinviato, e il poema si sposta sul piano del
meraviglioso: le forze del male, Satana
a concilio, decidono di aiutare i musulmani a vincere la
guerra, avvalendosi in particolare della maga Armida che, con arti di
seduzione, riesce a rinchiudere tutti i migliori eroi cristiani, tra cui
Tancredi, in un castello incantato. L'eroe cristiano Rinaldo, per aver ucciso
un altro crociato che lo aveva offeso, viene cacciato via dal campo. Quando
giunge nuovamente il giorno del duello,
poiché Tancredi è scomparso, viene sostituito da un altro crociato, aiutato da un angelo. I diavoli aiutano il guerriero
musulmano e trasformano il duello in battaglia generale. I crociati sembrano
essere sul punto di perdere, quando arrivano gli eroi imprigionati liberati da
Rinaldo che rovesciano la situazione e fanno vincere la battaglia ai cristiani.
Goffredo ordina ai suoi di costruire una torre per dare l'assalto a Gerusalemme
ma i musulmani Argante e Clorinda (di
cui Tancredi è innamorato) la incendiano di notte. Clorinda non riesce a
entrare nelle mura e viene uccisa in duello proprio da colui che l'ama,
Tancredi, che non l’ha riconosciuta, si è lanciato al suo inseguimento e l’ha
sfidata a un duello all’ultimo sangue. Un altro strumento di Satana, il mago
Ismeno, lancia un incantesimo sul bosco in modo che i crociati non possano
ricostruire la torre: l'unico in grado di spezzare l'incantesimo è Rinaldo,
prigioniero della maga Armida. Due guerrieri vengono perciò inviati da Goffredo
per cercarlo, lo trovano e lo liberano. Rinaldo vince gli incantesimi della
selva e permette ai crociati di assalire e conquistare Gerusalemme.
Scelgo di analizzare, a questo punto, un episodio che è particolarmente utile
a comprendere quale espressione poetica abbiano i tormenti di Tasso nella composizione della Gerusalemme liberata, in particolare per
quanto concerne la pretesa, rivolta in primo luogo a se stesso, di promuovere
un rigoroso punto di vista cristiano, fatto corrispondere a un codice etico e
comportamentale univoco e indiscutibile, pretesa che appare invece contraddetta
da alcune scelte anche inerenti alle dinamiche relazionali fra personaggi. L’episodio
si trova nel canto XII e i protagonisti sono Clorinda, principessa etiope,
valorosa guerriera pagana (che però a un certo punto, proprio alla fine, scopre di avere orgini cristiane), e Tancredi,
cavaliere cristiano dalle straordinarie abilità guerriere, che si è innamorato
della fanciulla vedendola di nascosto un giorno senza elmo, intenta a bere a
una fontana. Di lei egli non sa nulla, nemmeno il nome, ma da quella fugace
visione che ne ha avuta non riesce a dimenticarla. In prossimità dell’episodio che stiamo per
leggere, e come suo immediato antecedente, mentre l’esercito dei crociati
assedia Gerusalemme, dalla città un manipolo di guerrieri, tra cui Clorinda che
non indossa l’armatura con cui Tancredi l’ha vista la prima volta, compie
un’audace sortita, volta a dare fuoco alle macchine belliche cristiane.
L’impresa riesce, ma Clorinda rimane chiusa fuori dalla mura di Gerusalemme e,
benché sia ormai notte, Tancredi riconosce in quello che ritiene un guerriero,
uno dei nemici che hanno gravemente danneggiato le macchine da guerra
cristiane. Si pone quindi all’inseguimento e ha qui inizio il tragico duello
condotto da un Tancredi, ignaro di stare facendo di tutto per uccidere proprio
colei di cui è perdutamente innamorato. Riporto qui di seguito tutte le ottave
che poi analizzo, dalla LI alla LXIX (la fonte è wikisource dove è possibile leggere il poema completo).
LI
Poi, come lupo tacito s’imbosca
dopo
occulto misfatto, e si desvia:
dalla
confusion, dall’aura fosca
favorita
e nascosa ella sen gía.
Solo
Tancredi avvien che lei conosca.
Egli
quivi è sorgiunto alquanto pria;
vi
giunse allor ch’essa Arimone uccise:
vide,
e segnolla, e dietro a lei si mise.
LII
Vuol nell’armi provarla: un uom la stima
degno,
a cui sua virtù si paragone.
Va
girando colei l’alpestre cima
verso
altra porta, ove d’entrar dispone.
Segue
egli impetuoso; onde assai prima
che
giunga, in guisa avvien che d’armi suone
ch’ella
si volge, e grida: o tu, chè porte,
chè
corri sì? Risponde: guerra, e morte.
LIII
Guerra e morte avrai, disse, io non
rifiuto
darlati,
se la cerchi: e ferma attende.
Non
vuol Tancredi, che pedon veduto
ha
il suo nemico, usar cavallo, e scende.
E
impugna l’uno e l’altro il ferro acuto,
ed
aguzza l’orgoglio, e l’ire accende.
E
vansi a ritrovar non altrimenti
che
due tori gelosi, e d’ira ardenti.
LIV
Degne d’un chiaro Sol, degne d’un pieno
teatro,
opre sarian sì memorande.
Notte,
che nel profondo oscuro seno
chiudesti
e nell’oblio fatto sì grande,
piacciati
ch’io ne ’l tragga, e in bel sereno
alle
future età lo spieghi, e mande.
Viva
la fama loro, e tra lor gloria
splenda
del fosco tuo l’alta memoria.
LV
Non schivar, non parar, non ritirarsi
voglion
costor, nè quì destrezza ha parte.
Non
danno i colpi or finti, or pieni, or scarsi:
toglie
l’ombra e ’l furor l’uso dell’arte.
Odi
le spade orribilmente urtarsi
a
mezzo il ferro; il piè d’orma non parte:
sempre
è il piè fermo, e la man sempre in moto:
nè
scende taglio in van, nè punta a vuoto.
LVI
L’onta irrita lo sdegno alla vendetta:
e la
vendetta poi l’onta rinnova:
onde
sempre al ferir, sempre alla fretta
stimol
novo s’aggiunge, e cagion nova.
D’or
in or più si mesce, e più ristretta
si
fa la pugna, e spada oprar non giova:
dansi
co’ pomi, e, infelloniti e crudi,
cozzan
con gli elmi insieme e con gli scudi.
LVII
Tre volte il Cavalier la donna stringe
con
le robuste braccia: ed altrettante
da
que’ nodi tenaci ella si scinge;
nodi
di fier nemico, e non d’amante.
Tornano
al ferro: e l’uno e l’altro il tinge
con
molte piaghe, e stanco ed anelante
e
questi e quegli alfin pur si ritira,
e
dopo lungo faticar respira.
LVIII
L’un l’altro guarda, e del suo corpo
esangue
sul
pomo della spada appoggia il peso.
Già
dell’ultima stella il raggio langue
al
primo albór ch’è in Oriente acceso.
Vede
Tancredi in maggior copia il sangue
del
suo nemico, e sè non tanto offeso.
Ne
gode, e superbisce. Oh nostra folle
mente,
ch’ogni aura di fortuna estolle!
LIX
Misero, di che godi? oh quanto mesti
fiano
i trionfi, ed infelice il vanto!
Gli
occhj tuoi pagheran (se in vita resti)
di
quel sangue ogni stilla un mar di pianto.
Così
tacendo e rimirando, questi
sanguinosi
guerrier cessaro alquanto.
Ruppe
il silenzio alfin Tancredi, e disse,
perchè
il suo nome a lui l’altro scoprisse:
LX
- Nostra sventura è ben che quì s’impieghi
tanto
valor, dove silenzio il copra.
Ma
poichè sorte rea vien che ci neghi
e
lode, e testimon degno dell’opra:
pregoti
(se fra l’arme han loco i preghi)
che
’l tuo nome e ’l tuo stato a me tu scopra:
Acciocch’io
sappia o vinto, o vincitore,
Chi
la mia morte, o la vittoria onore. -
LXI
Risponde la feroce: - Indarno chiedi
quel
ch’ho per uso di non far palese.
Ma
chiunque io mi sia, tu innanzi vedi
Un
di que’ due che la gran torre accese. -
Arse
di sdegno a quel parlar Tancredi,
E, -
in mal punto il dicesti, - indi riprese:
- Il
tuo dir e ’l tacer di par m’alletta,
barbaro
discortese, alla vendetta. -
LXII
Torna l’ira ne’ cori, e gli trasporta,
benchè
debili, in guerra. Oh fera pugna;
u’
l’arte in bando, u’ già la forza è morta:
ove
in vece d’entrambi il furor pugna!
Oh
che sanguigna e spaziosa porta
fa
l’una e l’altra spada, ovunque giugna
nell’arme
e nelle carni! e se la vita
non
esce, sdegno tienla al petto unita.
LXIII
Qual l’alto Egeo, perchè Aquilone o Noto
cessi,
che tutto prima il volse e scosse,
non s’accheta
però; ma ’l suono e ’l moto
ritien
dell’onde anco agitate e grosse;
tal,
sebben manca in lor col sangue voto
quel
vigor che le braccia ai colpi mosse;
serbano
ancor l’impeto primo, e vanno
da
quel sospinti a giunger danno a danno.
LXIV
Ma ecco omai l’ora fatale è giunta
che
’l viver di Clorinda al suo fin deve.
Spinge
egli il ferro nel bel sen di punta,
che
vi s’immerge, e ’l sangue avido beve:
e la
vesta, che d’or vago trapunta
le
mammelle stringea tenera e leve,
l’empie
d’un caldo fiume: ella già sente
morirsi,
e ’l piè le manca egro e languente.
LXV
Segue egli la vittoria, e la trafitta
vergine,
minacciando, incalza e preme.
Ella,
mentre cadea, la voce afflitta
movendo,
disse le parole estreme:
parole
ch’a lei novo un spirto ditta;
spirto
di fe, di carità, di speme:
virtù
ch’or Dio le infonde: e se rubella
in
vita fu, la vuole in morte ancella.
LXVI
- Amico hai vinto; io ti perdon: perdona
tu
ancora, al corpo no che nulla pave,
all’alma
si: deh per lei prega, e dona
battesmo
a me, ch’ogni mia colpa lave. -
In
queste voci languide risuona
un
non so che di flebile e soave
ch’al
cor gli scende, ed ogni sdegno ammorza,
e
gli occhj a lagrimar gli invoglia e sforza.
LXVII
Poco quindi lontan nel sen del monte
scaturia,
mormorando, un picciol rio.
Egli
v’accorse, e l’elmo empiè nel fonte,
e
tornò mesto al grande uficio e pio.
Tremar
sentì la man, mentre la fronte,
non
conosciuta ancor, sciolse e scoprío.
La
vide, la conobbe; e restò senza
e
voce, e moto. Ahi vista, ahi conoscenza!
LXVIII
Non morì già; chè sua virtute accolse
tutta
in quel punto, e in guardia al cor la mise:
e,
premendo il suo affanno, a dar si volse
vita
con l’acqua a chi col ferro uccise.
Mentre
egli il suon de’ sacri detti sciolse,
colei
di gioja trasmutossi, e rise:
e in
atto di morir lieto e vivace
dir
parea: s’apre il Cielo: io vado in pace.
LXIX
D’un bel pallore ha il bianco volto
asperso,
come
a’ giglj sarian miste viole:
e
gli occhj al Cielo affisa, e in lei converso
sembra,
per la pietate, il Cielo e ’l Sole:
e la
man nuda e fredda alzando verso
il
cavaliero, in vece di parole,
gli
dà pegno di pace: in questa forma
passa
la bella donna, e par che dorma.
Nella prima ottava riportata Clorinda, che ha appena ucciso un nemico
cristiano intento a ostacolarla nell’impresa di cui ho scritto, si crede
perduta, essendo rimasta l’unica dei compagni fuori dalle mura. Poiché però le
pare che nessuno la noti, cerca di allontanarsi: Tancredi invece l’ha vista
uccidere un proprio compagno d’armi, Arimone,
ed è intenzionato a non lasciarsela sfuggire. Ovviamente, come ho detto
al principio, non sa che si tratta della donna di cui si è innamorato alla
fontana. Per riuscire a cogliere i sentimenti che animano questo episodio, e
che provengono direttamente dall’animo in tumulto del poeta, dando conto delle
contraddizioni delle quali ho per ora solo parlato in teoria, occorre prestare
attenzione a dettagli espressivi: nella seconda ottava riportata, per esempio,
Clorinda viene caratterizzata come lupo
tacito che col favore dell’oscurità cerca di non farsi catturare, mentre
Tancredi che la incalza, nell’ottava successiva, viene delineato unicamente
attraverso l’affermazione bellicosa e mortifera, con cui risponde a Clorinda
che gli domanda, vistasi inseguita, che cosa porti: E guerra e morte risponde
lui, persuaso di voler vendicare con la morte l’uccisione del suo compagno
d’armi. Da qui, tra l’altro, inizia anche il compositore Monteverdi[20] un suo celebre madrigale dedicato all’episodio
che stiamo leggendo. Siccome Clorinda è
appiedata, oh gran bontà dei cavalieri
antiqui vien da dire con Ariosto,
anche Tancredi scende da cavallo, provando forti emozioni negative (orgoglio,
ira). Entrambi, annota l'autore sono due
tori gelosi e d'ira ardenti. La cinquantaquattresima è un’ottava tutta affidata al narratore, che rivolge
un'invocazione alla Notte,
personificata, affinché funga con la sua oscurità da ideale scenario per le
luminose gesta dei due ch'egli si appresta a eternare: anche lei, quella notte,
verrà così eternata. Il duello è
all'ultimo sangue: non sono rispettate le regole perché lo impedisce la notte
(l'ombra) e il furor (furore vero, non alla latina) che provano entrambi. Ogni
colpo giunge a segno. Poi, ottava cinquantaseiesima, a mescolarsi sono la vergogna (di aver ricevuto
un colpo) e il desiderio di vendicarsi del medesimo. Poco a poco diventano sempre più selvaggi, si
colpiscono con le else delle spade e con gli scudi, lo scontro diventa
violentissimo, feroce. La successiva, 57, è un’ottava in cui l'ambiguità
pervade il testo: l'avvinghiarsi dei corpi crea nodi tenaci prodotti dalla
robuste braccia di Tancredi, dalle quali però la donna si scioglie; non pago
dell'ambiguità terminologica, il narratore insiste: nodi di fer nemico e non d'amante, ci avverte, a suggerire
tuttavia l’accostamento erotico, al quale non i protagonisti ma noi possiamo
pensare, conoscendo l’identità femminile del secondo guerriero, ma soprattutto
l’attrazione erotica che Tancredi prova per lei. Persino la tregua che segue all'assalto è
evocata ambiguamente, con riferimento all'anelito, all'ansimare che accompagna
un combattimento violento e che potrebbe
egualmente addirsi anche a un incontro erotico. Nell’ottava successiva i due si
fermano e si osservano, dietro agli elmi ovviamente, mentre albeggia, e
Tancredi gioisce nel vedere il nemico più ferito di lui. Allora interviene il
narratore: Oh nostra folle mente ch'ogne
aura di fortuna estolle. La follia degli uomini consiste tra l'altro
nell'inorgoglirsi a un minimo soprassalto di fortuna. Persino, vien subito da
chiosare cogliendo il non detto¸ quando non di vera fortuna si tratta. Senza
soluzione di continuità con l’ottava cinquantanovesima, il narratore si appella
direttamente, con compassione, al suo personaggio: misero, di che godi? In effetti presto la sua gioia si muterà in
pianto, presto soffrirà per ogni stilla di sangue versato. Il narratore non
produce, come nel caso di Ariosto, straniamento, allontanamento dalla materia,
ma viceversa empatia presaga con Tancredi. Egli vorrebbe a questo punto conoscere il nome del suo avversario, e
glielo domanda. Ma quella che è denominata
la feroce risponde negando la
rivelazione e limitandosi a dire che è uno
di quelli che ha dato fuoco alla torre, consapevole che così rinfocolerà
l'ira di Tancredi, il quale infatti replica chiamandola barbaro discortese. Lo
scontro si riaccende violento, di nuovo dominato dal furore, e un’intera
ottava, la sessantatreesima, è dedicata a una potente e ricercata similitudine
col mare Egeo che, anche quando cessano i venti violenti che talora
imperversano, non smette di essere
agitato. Intanto giunge il momento fatale per Clorinda, avverte il
narratore, e nell'ottava sessantaquattresima si sviluppa una metamorfosi: da
guerriera a donna, nell'arco d'un verso. Spinge egli il ferro nel bel sen di punta, che vi s'immerge e 'l sangue avido beve; e la
veste, che d'or vago trapunta le mammelle
stringea tenera e leve l'empie d'un caldo fiume. Improvvisamente
dall'armatura, attraverso l'armatura (prodigio della poesia) si scorge il corpo
di Clorinda, di cui Tancredi s'innamorò vedendola a una fonte. Clorinda, occorre
precisare, è figlia del re dell'Etiopia Senapo, è bianca di pelle e di capelli,
sicché viene sostituita alla nascita dalla madre per timore che sia creduta
frutto di un tradimento e affidata a un servitore: la madre, lasciandola,
chiede la protezione per lei di San Giorgio e si augura possa essere
battezzata, cosa che la poesia di Tasso sta per realizzare proprio in queste
ottave. Mentre Tancredi ancora la
incalza, Clorinda dice le sue ultime parole, dettatele inaspettatamente (ma
ormai siamo a conoscenza dell’antefatto)
da uno spirito di carità. Lo
chiama amico e dice di perdonarlo, poi gli domanda di
battezzarla, mentre Tancredi improvvisamente scosso dalla sua voce prova il
desiderio di piangere. Si reca a un
ruscello, prende con l'elmo dell'acqua e torna verso Clorinda: finalmente
scoprendole il volto, la riconosce. Ahi
vista! Ahi conoscenza! Poeticamente la narrazione si alimenta della contrapposizione:
a dar si volse vita con l'acqua a chi
co'l ferro uccise. Clorinda si riempie di gioia e ride. Nell’ ottava sessantanovesima appare già
trasfigurata, una sorta di icona di santa, e porge la mano a Tancredi un
istante prima di morire.
Mentre lei, morta, pare che dorma,
lui, vivo, si sente riempire di morte. L’episodio prosegue con Tancredi che
potrebbe suicidarsi, non fosse che giunge un drappello di Franchi alla ricerca di
ristoro: i sopraggiunti prendono con sé
Clorinda morta e Tancredi in sé mal vivo
e morto in lei ch'è morta, come possiamo concudere epigraficamente
l’episodio struggente. La parola più ambigua che compare nel testo è
sicuramente furor, che si può ben
leggere alla latina, con riferimento alla passione amorosa che rende pazzi, o,
internamente al testo, come furore guerriero che detta gesti di pura violenza,
di ferina violenza, neppure lontanamente mitigabile da un richiamo alla
civiltà. Il territorio in cui si trovano Tancredi e Clorinda quando combattono
è quello dell'istinto puro: un istinto che guida a voler fare il maggior male
possibile al proprio nemico. Basterebbe un capovolgimento, una sovversione, e
un istinto egualmente violento potrebbe guidare a voler produrre il massimo
bene possibile a colui che fosse riconosciuto come amante. Ma la logica che
presiede la narrazione, la logica della Gerusalemme
poema epico che narra della giusta
vittoria dei Cristiani sui pagani non lo vuole. Così ci si deve appagare
dell'ambiguità e della sospensione che riesce a creare, del territorio ibrido
nel quale si muove. Da notare che i campi contrapposti in cui si trovano, per
caso, questi due possibili e non improbabili amanti, rappresentano un ostacolo
alla loro unione finché la morte non li separa: la separazione viene meno quando
ne inizia una più definitiva, quella della morte appunto, in cui Tancredi è
impossibilitato a seguirla. I mutamenti di campo, che rendono siderali le
distanze, non sono mai finiti: lui che resta sulla terra, annota Tasso, è il vero morto, morto in lei che ha appena
ricevuto l'accesso alla vera vita.
CERVANTES
Nel gioco di
echi che a volte è possibile inaugurare studiando la letteratura in una
prospettiva diacronica e mondiale Cervantes risuona, ma forse è più
un’esplosione narrativa, nel siglo de oro e poi, con una suggestiva
distorsione (gli echi sono maestri in questo), trecento anni dopo nelle pagine
dello scrittore argentino Jorge Luis Borges, che crea il personaggio di Pierre
Menard, autore del Don Chisciotte.
Del racconto novecentesco, nella speranza che possa incuriosire qualcuno, mi
limito a dire che entra a far parte della raccolta Il giardino dei sentieri che si biforcano (1941, poi in Finzioni, in cui si trova tuttora
pubblicato in traduzione) appunto col titolo originale di Pierre Menard, autor del Quijote (1939), e che l’autore concepisce
in tale testo, parzialmente in forma di critica letteraria, l’idea di uno
scrittore che persegue il progetto di scrivere (non trascrivere ovvero copiare)
il Don Chisciotte a secoli di
distanza, creando un’opera che sia a
tutti gli effetti il romanzo dell’autore a noi noto come Cervantes.
Quanto all’originale,
Miguel de Cervantes Saavedra, alla nascita Miguel de Cervantes Cortinas, nasce
ad Alcalá de Henares nel 1547 e muore a Madrid nel 1616. Difficile da ricostruire la sua
esistenza, di cui sappiamo che viene spesa ampiamente nelle milizie (compresa
la partecipazione alla battaglia di Lepanto nel 1571, in cui viene gravemente
ferito, e una lunga prigionia presso i pirati barbareschi). Cervantes scrive il
romanzo sul quale concentriamo la nostra attenzione in un ampio arco di tempo,
pubblicandolo in due volumi nel 1605 e
poi nel 1615. Per riprendere anche il filo dell’epica cavalleresca, per noi inaugurato
dallo storico e mitico Orlando,
senz’alcun dubbio il romanzo di Cervantes può ben essere considerato un memorabile
epicedio[21]
della letteratura cavalleresca. Spiega, per motivare questa definizione Italo
Calvino, che quando il curato fa un rogo
della biblioteca di quell’amabile mentecatto (quale si riduce ad essere chi
legge troppi libri di cavalleria) che è il nostro cavaliere allampanato, getta
nel fuoco con qualche esitazione anche i volumi di un’imitazione spagnola dell’Orlando
Innamorato di Matteo Boiardo: “Veramente li condannerei solamente ad esilio perpetuo, perché almeno
hanno parte dell’invenzione del famoso Matteo Boiardo, da dove tessé la sua
tela anche il cristiano poeta Ludovico Ariosto, che se qui lo trovo e parla in
altra lingua che non sia la sua, non gli porterò nessun rispetto [del Furioso
correva in Spagna una traduzione infame]; ma se parla nella sua lingua, gli
leverò tanto di cappello.” Vale la
pena soffermarsi sulla questione sollevata da Calvino: la cavalleria inizia a
essere messa in ridicolo da Ariosto, che tuttavia vive in un’epoca in cui essa
è rispettata, è in grado perfino di suscitare nostalgia, e comunque la si
prende ancora sul serio persino nel senso di sentirsi onorati (è il caso degli
Estensi) nel caso in cui un grande poeta riconosca fra antichi cavalieri dei capostipiti
della casata. Ariosto, dunque, limita il suo scherzo senza condurlo a estremi che rendano troppo palese una degradazione del
tema che, invece, Cervantes può, per riprendere ancora Calvino, calare nella fossa, organizzando un
funerale farsesco in cui riso e pianto si equilibrano e si tingono, volta a
volta, di malinconia.
Torno ora alla composizione del Chisciotte, che avviene nell’ultima parte della vita di Cervantes il
quale, dopo le travagliate vicende militari velocemente evocate, si dedica alla
letteratura scrivendo opere teatrali, novelle e, soprattutto il romanzo. La
pubblicazione della prima parte ottiene un certo successo di pubblico e la
richiesta di procedere a una prosecuzione, che però l’autore tarda a realizzare,
sicché nel frattempo compare nel 1614
una versione non autorizzata, sotto il nome di Alonso Fernàndez de
Avellaneda. Nel Prologo del secondo
volume del 1615, in effetti, Cervantes fa espresso riferimento a questo altro don Chisciotte di Avellaneda, per
poi riprendere la narrazione delle avventure dell’hidalgo e del suo scudiero. Come nel caso di Rabelais, anche in
questo scelgo di citare e commentare un passo che mi permetta di riprendere uno
di quei temi portanti individuati all’inizio dello studio del periodo
letterario umanistico-rinascimentale, uno di quelli che può rappresentare un argomento da approfondire e del quale
trovare ben più d’una risonanza in altre parti del testo medesimo, nella
sostanza della storia narrata o decisamente in altri testi, di epoche e
latitudini differenti. Prima di proporre testo e analisi, procedo a una
contestualilzzazione, ritenendo impossibile una sintesi di un romanzo del
genere.
Il primo volume
delle avventure di don Chisciotte si apre nella Mancia, regione centrale della
Spagna dove si trova Toledo, in cui vive Alonzo Quijana, un hidalgo, ovvero
cavaliere, appassionato di letture cavalleresche al punto da esserne
ossessionato. Egli, giunto alle soglie dei cinquant’anni, ormai anziano, decide
di partire per rinnovare le gesta dei cavalieri erranti, assumendo il loro
codice di comportamento: aiutare i deboli, sconfiggere i prepotenti e dedicare
le proprie gesta a una Signora, nei confronti della quale nutrire un amore di
tipo cortese. Proprio a proposito di quest’ultima, si manifesta fin dalle prime
pagine del romanzo la tecnica di scrittura, d’invenzione e pure la scelta
stilistica di Cervantes: Dulcinea del Toboso è infatti il nome altisonante che
l’attempato hidalgo decide di assegnare alla domina del suo cuore, la quale
nella realtà è una giovane contadina, il cui nome prosaico è Aldonza Lorenzo.
Analogamente lui assume il nome di Don Chisciotte e battezza il suo cavallo
Ronzinante. La prima avventura lo conduce in una locanda, dove pretende di essere
investito cavaliere dall’oste, e va poi incontro a una serie di pericolose
disavventure, per venire infine ricondotto
in pessime condizioni fisiche a casa. Una seconda serie di avventure, sempre
nel primo libro, lo vedono accompagnato dal fedele
scudiero Sancho Panza, anch’egli un povero contadino che l’immaginazione
ossessiva di Don Chisciotte ovviamente trasforma secondo le sue volontà, ma che
soprattutto rappresenta uno straordinario comprimario, la cui funzionalità,
anche stilistica, cercherò di dimostrare nell’analisi delle pagine prescelte.
Anche alla fine del primo libro i due tornano a casa, e il secondo libro riprende
con una nuova partenza. Il capitolo che riporto per intero è il decimo del
secondo libro, dedicato a un sorprendente incontro con la domina Dulcinea del Toboso. La citazione è tratta da wikisource,
dove si trova l’integrale di Don
Chisciotte nella traduzione ottocentesca di Bartolommeo Gamba,
corredata di illustrazioni che qui non riporto.
Entrando
l’autore di questa grande istoria a raccontare ciò che si legge nel presente
capitolo, dichiara che vorrebbe passarlo sotto silenzio, pensando ch’altri
forse non vorrà dargli fede; mentre le pazzie di don Chisciotte giunsero non
solo all’eccesso, ma sormontarono ogni immaginazione. Finalmente, benchè con
molta ripugnanza e timore, le scrisse tali quali furono veracemente, senza togliere
od aggiungere all’istoria un atomo di verità, e senza esser infrenato per verun
modo dalle accuse che gli si potessero fare di falso e di menzognero. E
saggiamente si avvisò egli; perchè la verità si assottiglia ma non si rompe, e
sta sopra alla bugia come l’olio sull’acqua.
Proseguendo
dunque la sua istoria dice che non si ebbe don Chisciotte cacciato appena nella
foresta o querceto o selva presso il gran Toboso, che ordinò a Sancio di
tornare alla città e di non comparirgli più dinanzi senz’avere prima parlato
alla sua signora da parte di lui, chiedendole che le piacesse di concedere al
suo prigioniere cavaliero di vederla, e che si degnasse d’impartirgli la sua
benedizione, mercè la quale potesse riportare felicissimi successi in tutti gli
assalti e nelle più ardue imprese. S’incaricò Sancio di questi comandi, e di
portare una risposta più favorevole ancora della prima volta. — Vanne,
figliuolo, replicò don Chisciotte, e non ismarrirti quando ti vedrai dinanzi
alla luce del sole di quella bellezza alla quale t’invio. Oh te felice sovra
ogni altro scudiere del mondo! Tieni ogni più minuta cosa a memoria; non
trascurare di por mente al modo con cui ti riceve, se muta colore nel sentir
l’imbasciata; se si altera o si turba nell’udire il mio nome; se si rimuove
inquieta qualora ti accolga seduta su morbidi origlieri in tutta la sua
autorità; se, stando ritta, ora sopra l’uno ora sopra l’altro, piede si
appoggi; se ti ripete la sua risposta due o tre volte; se la cangia di aspra in
dolce, di severa in amabile; se porta le nivee mani ai capegli per rassettarli
comunque non iscomposti o disordinati; e finalmente, guarda bene, o figliuolo,
tutti i suoi movimenti ed azioni, chè dalla esattezza e precisione delle tue
risposte io indovinerò bene il più intimo del suo cuore rispetto all’amorosa
mia servitù. Hai da sapere, o Sancio, se tu lo ignori, che fra gli amanti le
azioni ed i movimenti esterni, quando trattasi della loro fiamma, sono
indubitati forieri che recano le nuove di ciò che sente l’anima nel suo interno.
Partiti, amico: auspice ti sia una ventura più fortunata di quella che a me
tocca, e ti secondino migliori eventi di quelli che tra il timore e la speranza
mi tratterranno intanto in questa misera solitudine in cui ora mi lasci. —
Andrò e tornerò presto, disse Sancio, e frattanto tenga vossignoria allegro
quel suo povero cuoricino, che adesso debb’essere piccolo piccolo come una
noccioletta, e consideri che si suol dire che un animo forte scaccia la mala
ventura; e che dove non vi è carne secca non vi sono neppure stanghe per
appenderla; e che per ordinario la lepre salta dove meno si pensa. Dico queste
cose perchè se nella notte scorsa non abbiamo trovati i palazzi e i castelli
della mia signora, adesso ch’è giorno, spero che li troverò o da una banda o
dall’altra, e trovati che io li abbia lasci pur fare a me. — È indubitato, o
Sancio, disse don Chisciotte, che calzano tanto a proposito i proverbii tuoi
quanto Dio mi conceda migliore ventura nelle mie brame.
Detto
questo, Sancio battè il suo asino, voltò le spalle, e don Chisciotte rimase sul
suo ronzino, abbandonato a sè stesso, tenendo il piè nelle staffe ed appoggiata
alla lancia la sua persona ingombra di tristezza e di confuse idee; nelle quali
lo lasceremo per tener dietro al suo scudiere.
Pensieroso
ed incerto egli si allontanò dunque dal confuso padrone, e appena uscito del
bosco, voltando la feccia e non vedendo
più don
Chisciotte, smonto dal leardo, e seduto appiè di un albero cominciò a ragionar
tra sè a questo modo: “Sappiamo ora, fratello Sancio, per dove va vossignoria?
Va forse in cerca dell’asino smarrito? No certamente: e che va dunque a
cercare? Vado cercando, come se fosse cosa da nulla, una principessa, e in lei
il sole della beltà, anzi tutto il cielo unito in lei sola. E dove pensi trovar
questo che tu dici, o Sancio? Dove? nella gran città del Toboso. Va bene; ma da
parte di chi vai tu a fare questa ricerca? Da parte del famoso cavaliere don
Chisciotte della Mancia che disfà torti, dà da mangiare a chi ha sete e dà da
bere a chi ha fame: tutto questo va a maraviglia. E sai tu, Sancio, dove sia la
casa di costei? Il mio padrone dice che dee soggiornare in reali palazzi o in
superbi castelli. Ma l’hai tu vista una qualche volta? Oibò: nè io nè il mio
padrone l’abbiamo veduta mai. E ti sembra prudente e ben consigliata questa tua
impresa? Se quei del Toboso venissero a sapere che tu sei qua con intenzione di
andare a mettere sossopra le loro principesse e ad inquietare le loro dame non
potrebbero anche romperti le costole a furia di bastonate e non lasciarti osso
sano? In verità che ne avrebbero tutta la ragione, quando non riflettessero che
io sono mandato, e che ambasciatore non porta pena: non ti fidare no, Sancio,
di questo, perchè la gente mancega è buona e onorata ma molto collerica, non
soffre torti da chi che sia, e si sa levare le mosche dal naso: viva Dio, che
se arriva ad accorgersi di qualche cosa, guai a te, Sancio! guarda la gamba: oh
in somma io non voglio andare a cercar tre piedi al montone per secondare
capricci degli altri; e poi sarà tanto difficile trovare la Dulcinea al Toboso
quanto un baccelliere a Salamanca: ah è stato il diavolo che mi ha posto in
questi intrichi, è stato il diavolo sicuramente!„ A questo modo andava Sancio
fantasticando fra sè, ma poi ne cavò una conclusione, e tornò a dirsi: “A tutto
si rimedia fuorchè all’osso del collo scavezzato, e la morte non la si scappa
quando l’ora è arrivata. Per mille contrassegni che ho notati, questo mio
padrone è già fin d’ora un pazzo da corda, ed io sono forse più pazzo di lui
perche lo servo e lo seguito. Se è vero il proverbio: dimmi con chi vai, e ti
dirò chi sei; e l’altro: non come nasci, ma come ti pàsci; e s’egli è pazzo,
come è veramente, perchè piglia una cosa per un’altra, giudica il bianco per
nero e il nero per bianco, come si è veduto quando disse che i mulini da vento
erano giganti, che le mule dei frati erano dromedarii, che i branchi di montoni
erano eserciti di nemici e tante altre mellonaggini, non sarà poi adesso molto
difficile il fargli credere che una contadina, la prima che troverò per
istrada, sia la principessa Dulcinea: se non lo crederà io lo giurerò; se egli
giurerà in contrario, ed io tornerò a giurare affermando; e se perfidierà io
perfidierò più di lui, e gli starò sempre al di sopra comunque vada la
faccenda: chi sa che a questo modo non lo riduca a non incaricarmi mai più di
questa sorte di imbascerie; e forse che sentendo le mie disgustose risposte,
penserà che qualche malvagio incantatore, di quelli che tiene per suoi nemici,
abbia barattata la figura per fargli del male e portargli gran nocumento„.
Immaginato da Sancio questo spediente, mise in tranquillità il suo spirito, e
tenne per ben finito il suo servigio: per la qual cosa rimase ozioso sino alla
sera, perchè don Chisciotte doveva credere indispensabile un tanto ritardo per
andare e ritornare dal Toboso.
Tutto
gli successe sì bene, che mentre si alzava per ritornare a cavalcare il suo
giumento vide venire dal Toboso alla volta sua tre contadine sopra tre asini o
asine (l’autore non lo dichiara, benchè sia più probabile il creder che fossero
asine, come cavalcatura usata dalle contadine, ma siccome ciò poco importa,
così è superfluo perdere il tempo in questa disputa). Come Sancio vide le tre
contadine andò di gran trotto a ritrovare il suo signor don Chisciotte che
stavasene sospiroso facendo mille amorosi lamenti. Quando don Chisciotte vide
Sancio, gli disse: — Che rechi, amico Sancio? Segnerò io questo giorno con
bianca o con negra pietra? — Sarà meglio, rispose Sancio, che vossignoria lo
segni con cinabresa, come usasi per gli epitaffi, affinchè non duri fatica a
leggere chi li guarda. — Dunque, replicò don Chisciotte, tu sei apportatore di
buone nuove. — E tanto buone, rispose Sancio, che se vossignoria sprona adesso
il suo Ronzinante, ed esce in campagna, andrà incontro alla sua signora
Dulcinea del Toboso, la quale viene per farle visita in compagnia di due sue
donzelle. — Santo Dio! sclamò don Chisciotte, che dici tu mai, o Sancio amico?
Guarda bene di non ingannarmi, nè voler cangiare le mie vere tristezze in false
consolazioni. — Che profitto ne ricaverei io dall’ingannare vossignoria, rispose
Sancio, massimamente quando siamo così vicini per iscoprire la verità? Sproni
pur Ronzinante, e venga meco, e vedrà avanzarsi la principessa nostra padrona
vestita in gala come va una pari sua. Ella e le sue donzelle sono tutte oro,
portano grandi mazzi di perle, tutte diamanti, tutte rubini, tutte tele di
broccato delle più sopraffine; ha i capelli sciolti giù per le spalle come
altrettanti raggi del sole che vanno scherzando col vento; e vengono tutte e
tre a cavallo sopra tre cananee pezzate che non si può vedere la più bella
cosa. — Chinee tu vuoi dire, o Sancio. — Poca differenza ci corre, rispose, da
cananee a chinee, ma vengano sopra quello che si vuole, hanno tutto lo sfarzo
delle più galanti signore che mai si possa desiderare, e specialmente la principessa
Dulcinea mia signora che rende tutti
attoniti per lo stupore. — Andiancene, Sancio figliuolo, rispose don
Chisciotte, e in guiderdone di tali quanto inattese altrettanto felici novelle,
ti prometto il maggiore spoglio che io farò nella mia prima ventura: e se
questo non ti bastasse, ti prometto e ti dono la razza che faranno in
quest’anno quelle tre cavalle che tu sai bene essere vicine a dar prole nel
prato della comunità del nostro paese. — Accetto il dono della razza, rispose
Sancio, mentre non è cosa molto sicura se lo spoglio della prima ventura
riescirà buono o no.
In
questo uscirono della selva, e scoprirono poco discosto le tre contadine. Don
Chisciotte spalancò gli occhi per quanto lunga e larga è la via del Toboso, e
non vedendo se non le tre contadine si turbò tutto e domandò a Sancio se le
aveva lasciate fuori della città. — Come fuori della città? rispose; ha ella
forse gli occhi nella collottola che non vede che sono queste che si avanzano
verso di noi, tutte risplendenti come il sole di bel mezzodì? — Io non iscorgo,
disse don Chisciotte, se non tre povere contadine a cavallo di tre asini. — Oh
ora sì che il diavolo vuole la burla, replicò Sancio: è egli possibile che tre
chinee, o come si chiamano, bianche come un fiocco di neve sembrino asini a
vossignoria? Viva Dio che sarei uomo da strapparmi questa barba a pelo a pelo
se questa cosa fosse vera. — Ed io ti replico, soggiunse don Chisciotte, che
tanto è vero che asine o asini sono quelle, come è vero ch’io sono don
Chisciotte e tu Sancio Panza: o per lo meno a me rassembrano tali. — Signor
mio, disse allora Sancio, non si lasci scappare queste parole, si freghi bene
gli occhi, venga a far riverenza alla dominatrice di tutti i suoi sentimenti
ch’è ormai vicina„; e appena detto questo, smontato dal leardo, arrivò presso
al giumento di una di quelle tre contadine, e presolo per la cavezza e
buttatosi ginocchioni a terra, disse: — Regina e principessa e duchessa della
bellezza, la vostra altierezza e bellezza si compiaccia di ricevere nella
vostra grazia e bontà il vostro prigioniero cavaliere che è qua diventato un
marmo, tutto attonito e senza polsi per trovarsi dinanzi alla magnifica vostra
presenza: io sono Sancio Panza suo scudiere, ed egli è l’afflitto cavalière don
Chisciotte della Mancia chiamato con altro nome il cavaliere dalla Trista
Figura„. Anche don Chisciotte si era intanto posto ginocchione accanto a
Sancio, e con occhi spalancati e con turbato viso stava guardando colei che da
Sancio si appellava regina e signora; ma siccome non ravvisava in essa altro
che una rozza villana, ed anche non bella, perchè il viso era tondo e
schiacciato, stavasene sospeso e confuso senz’osare di aprire bocca. Le
contadine erano sbalordite vedendo quei due uomini tanto fra loro differenti,
inginocchiati per modo da impedire all’una e all’altra di poter continuare la
loro strada. Rompendo pertanto il silenzio quella ch’era là trattenuta, con
mala maniera e con molta stizza si fece a dire: — Si tolgano via di qua in
malora, e mi lascino
passar oltre,
chè noi tutte abbiamo fretta„. Cui Sancio rispose: — Oh principessa! oh signora
universale del Toboso! e che? il vostro magnanimo cuore non s’intenerisce
vedendo prosteso dinanzi alla sublime vostra presenza la colonna e il puntello
della errante cavalleria?„ Sentendo questo una delle altre due, disse: — Arri
in là, asina del mio suocero: oh guardate un poco questi signorotti che non
hanno altro di meglio che di togliersi a scherno le contadine: credono forse
che noi poverette non siamo da tanto da strapazzarli? Vadano pei fatti loro, e
lascino andar noi per la nostra strada chè si troveranno più contenti. —
Levati, Sancio, disse allora don Chisciotte, chè ben mi avviso che implacabile
è meco la sorte, ed ha chiusa ogni strada al conforto per questa afflitta anima
che ho nelle carni: e tu, o apice del merito il più singolare, confine della
umana gentilezza, unico rimedio di questo angustiato cuore che ti adora, credi
pure che un malefico incantatore mi perseguita, ed ha velati con nubi e
cateratte gli occhi miei, trasformando per queste sole luci infelici la tua
senza pari bellezza e sembianza in quella di una rozza contadina, e fors’anche
ha cambiato il mio viso in quello di qualche fantasima per renderlo detestabile
agli occhi tuoi: ma deh! non mi negare un tenero amoroso sguardo, compiacendoti
di vedere nella sommessione e nell’inginocchiamento che da me si fa dinanzi
alla tua contraffatta bellezza, l’umiltà con cui quest’anima mia ti adora. — Oh
che sì, rispose la contadina, che vossignoria s’è proprio imbattuta in donna a
cui piaccia sentire le parole amorose! Si levino di qua, e ci lascino andare
pei fatti nostri, chè sarà pur meglio„. Sancio si fece in disparte, e lasciò la
strada libera, allegrissimo di vedersi così bene riuscito da tanto intrico. Non
si vide appena in libertà la villana a cui era toccato di rappresentare senza
sua voglia Dulcinea, che pungendo la sua cananea con il pungolo che stava a
capo di un suo bastone, cominciò a correre alla volta del prato a più potere:
ma l’asina non volendo tollerare la punta del bastone che la molestava più del
solito, cominciò a far corvette in maniera che stramazzò la signora Dulcinea
quanto era lunga. Don Chisciotte, veduto questo, accorse a rizzarla,
e Sancio a
rassettare ed a cinghiare la bardella ch’era andata sotto alla pancia
dell’asina. Accomodata la bardella, e volendo don Chisciotte portare colle
braccia la sua incantata signora sulla giumenta, la signora balzata in piedi,
lo sollevò da quest’incarico, giacchè tirandosi un poco indietro, pigliò una
corsa, e poste ambe le mani sulla groppa dell’asina vi saltò su col suo corpo
leggiero più che falcone, e come se fosse stata uomo, rimase a cavalcioni.
Sancio disse in quell’istante: — Viva Dio, che la signora nostra padrona è più
snella di un gatto, e può essere maestra di ginetta al più pratico cordovese o
messicano; ha trapassato di un salto sopra l’arcione della sella, e fa correre
la chinea senza sproni come se fosse una capra salvatica; e non sono di manco
le sue donzelle chè tutte corrono come il vento„. E dicea il vero, perchè
subito che Dulcinea fu sull’asino, le sue compagne la seguitarono, e si misero
a correre senza mai voltare la testa indietro per oltre una mezza lega. Don
Chisciotte le seguitò coll’occhio, e quando più non le vide, voltosi a Sancio
gli disse: — Sancio mio, e che ti sembra dell’odio che mi portano
gl’incantatori? Guarda sin dove arriva la malizia e l’astio che mi hanno
giurato, privandomi della soddisfazione che avrebbe potuto darmi il vedere la
mia signora nel suo vero essere. Insomma io nacqui per diventare il modello
degli sfortunati, e per essere il bersaglio e la mira a cui stanno rivolte le
frecce dell’avversa fortuna. Hai da notare, o Sancio, che non si contentarono già
questi traditori di trasfigurar Dulcinea per modo ch’io non la potessi più
ravvisare, ma vollero anche mutarla e trasfigurarla in forma sì vile e sì
brutta come era quella contadina, e le tolsero sin anche il distintivo proprio
delle grandi signore, ch’è la gratissima fragranza di ambre e di fiori di cui
sempre olezzano. E questo ti dico, perchè quando io volli aiutare Dulcinea a
risalire sulla chinea (come tu dici, benchè a me parve asina) mi fece sentire
un’esalazione di àgli crudi che mi appestò e attossicò tutto. — Ah canaglie!
sclamò Sancio a tal punto, ah incantatori di mal augurio! ah maligni! che
potessi tutti vedervi infilzati per la gola come tante sardelle: voi la sapete
lunga, voi potete tutto quello che volete, e operate oltre ogni immaginazione:
non dovea bastarvi, o ribaldi, di avere cambiate le perle degli occhi della mia
signora in stranguglioni di sughero, e i suoi capelli di oro purissimo nelle
setole della coda di un bue rosso, e finalmente tutte le sue bellissime
fattezze in brulle e schifose senza impacciarvi anche nell’odorato? per
toglierci così di fermarci a scoprire le vere bellezze sotto la deforme
apparenza. Ma a dire il vero, io non ho scoperta in Dulcinea bruttezza alcuna:
all’opposto una beltà che riceveva maggiori gradi e carati di perfezione da un
neo grazioso vicino al labbro diritto in forma di un mustacchino, con sette o
otto peli biondi come fila d’oro, e lunghi più di un palmo. — Ma un neo con
peli sì lunghi, replicò don Chisciotte, mi pare una deformità. — Posso assicurare
vossignoria, rispose Sancio, che in lei parevano proprio nati tutti per mettere
il colmo alla bellezza. — Lo credo, amico mio, soggiunse don Chisciotte, perchè
nulla fu posto dalla natura in Dulcinea che non sia perfetto e ben collocato. —
Ma dimmi un poco, o Sancio: quella che a me parve bardella, e che tu
rassettasti al suo luogo, era sella delle ordinarie o sella da donna? — Era
sella alla ginetta, rispose Sancio, con una coperta da campagna, e sì ricca e
sì bella che valea mezzo un regno. — E ch’io non vedessi, o Sancio, tutto
questo? disse don Chisciotte. Ora sì che ripeto e torno a dire, e dirò mille
volte ch’io sono il più sfortunato uomo che partorisse mai donna al mondo. Durava
fatica il volpone di Sancio a contenere le risa sentendo le scioccherie del
padrone sì sonoramente da lui corbellato. Finalmente dopo molti altri
ragionamenti, rimontarono sulle loro cavalcature avviandosi a Saragozza, dove
pensavano di arrivare a tempo da intervenire ad una solennità che in quella
città illustre suol farsi ad ogni anno. Ma prima che vi giugnessero accaddero
cose che meritano di essere scritte e lette, attesa la molto loro singolarità e
novità, come vedrassi più avanti.
Sancio è in questo episodio un comprimario davvero
eccellente per l’allampanato pazzoide, la cui potente ossessione cavalleresca,
alimentata da letture sterminate e monotematiche riguardanti un mondo
inesorabilmente tramontato, e quindi mitico, sortisce un effetto deformante
sulla realtà, al pari di un’apparecchiatura fantascientifica in grado di rendere
esistenti realtà parallele, visibili però a un solo soggetto. Al punto in cui è
arrivata la narrazione, a Sancio, per quanto sempliciotto, è ormai chiaro che
il suo padrone sia mentalmente alterato: quando ragiona fra sé e sé su come
sbrigarsela con l’incarico ricevuto di recarsi da Dulcinea del Toboso, questa
consapevolezza si manifesta in tutta evidenza, perché Sancio rammenta bene come
Chisciotte sia stato capace di sostenere (comportandosi di conseguenza) che dei
mulini a vento erano giganti o delle mule cavalcate da frati dei dromedari.
Sempliciotto ma logico, Sancio pensa che una simile pazzia potrebbe pur
favorire lui nell’ingannare l’hidalgo, permettendogli di spacciare una
qualsiasi contadina per la meravigliosa Dulcinea. Ma è proprio a questo punto
che si manifesta l’estro compositivo di Cervantes, giacché nel delineare una
sorta di capovolgimento di relazioni fra padrone e servo, con quest’ultimo che,
magari prendendo anche spunto dal servus
callidus di memoria plautina, si dimostra più astuto del primo, si palesa
anche una feroce contraddizione fra piani di realtà completamente differenti.
Uno è quello, praticamente onirico, del colto cavaliere, letteralmente invasato dall’idea di essere un
personaggio reale del mondo
cavalleresco. L’altro è quello della realtà contemporanea in cui è ambientata
la vicenda, una Spagna secentesca nella quale a essere armati di tutto punto
sono i briganti, le guardie, i soldati di ventura, per lo più indidui senza
scrupoli o con ordini precisi da seguire, in una società nell’insieme molto
povera e violenta. In questo contesto, l’astuto Sancio decide di prendersi
gioco del padrone per scansare una fatica da lui ritenuta, giustamente, del
tutto inutile: quella di trovare una creatura fantomatica, Dulcinea, in
assenza, tra l’altro, di alcuna precisa indicazione su dove scovarla (e ci
mancherebbe, trattandosi di creatura della fantasia). Dunque, confidando nel
fatto che la mente dell’hidalgo abbia consuetudine con le contraffazioni della
realtà, spaccia una contadinotta in arrivo su un’asina per la splendida madonna, a omaggiare la quale don Chisciotte dedica
tutte le sue imprese. Il colpo
d’ingegno narrativo si manifesta qui: il matto, in questa circostanza, è in
pieno possesso delle sue facoltà, e non riesce proprio a vedere nella donnetta
tracagnotta e maldisposta, nonché puzzolente, la madonna del suo cuore. Le vicende vissute fino a quel momento hanno
però istruito Sancio su quelle che possano essere le debolezze del suo padrone:
gli basta insinuare che egli non possa rendersi conto di avere davanti a sé la
meraviglia del creato, Dulcinea, per via dei malvagi incantatori che sono
soliti interferire nelle sue avventure per cagionargli sconfitte e danni di
ogni genere. Se dunque Sancio vede Dulcinea, e invece don Chisciotte una brutta
e sporca contadina, ciò è solo frutto di un incantesimo. I piani di realtà
restano quindi distinti, il matto può continuare a credere nella sua fantasia,
anche quando i sensi lo persuadono inopinatamente della sua infondatezza,
mentre il deus ex machina della narrazione nella narrazione, l’astuto
Sancio, può trionfare della sua astuzia, che gli ha risparmiato inutili
ricerche, permettendogli (com’è nei desideri dei servi di tutta la tradizione
comica) di riposarsi per un bel po’ di ore. Il dialogo fra i due, nel quale per
una volta accade che sia Sancio a dover inventare quello che il suo padrone non
vede, la bellezza di Dulcinea, la ricchezza dei suoi abiti e della sua
cavalcatura, è una trovata comica originalissima proprio perché si fa beffe
anche dei piani di realtà così come li istituisce (si sarebbe portati a
credere, in modo permanente) la narrazione. Non si tratta infatti di un contagio della follia da parte di don
Chisciotte nei confronti di Sancio, come si poteva essere portati a immaginare
accadesse all’inizio delle avventure, ma di una penetrazione profonda nel
meccanismo di alterazione del reale che consegue all’essere totalmente preda di
un desiderio d’interpretazione, che è anche una presa di distanza definitiva
dalla realtà. Da qui, dopo il riso, scaturisce il senso di tragicità connesso
con la figura di don Chisciotte, che non ha
mai nessuna esperienza reale, dato che nega a se stesso questa possibilità.
In aggiunta, proprio questo accade come evento nuovo nell’episodio sopra,
quando sarebbe disposto ad averla, come in tal caso in cui la contadinotta è la contadinotta anche per lui, viene
distolto proprio da Sancio dal credere ai suoi sensi, rammentandosi della persecuzione da parte dei famigerati Incantatori. Al tragico don Chisciotte
(tragico proprio per questo) non è consentito mai risvegliarsi dal sogno che lui stesso (o meglio la sua ossessione
letteraria) ha costruito: si tratta di un destino, ormai, che rappresenta la
sua unica possibilità di esistenza al mondo, e tutti i tentativi perpetrati da
chi si preoccupa per lui (quella sorta di famiglia
protettiva costituita dalla nipote, dalla
serva, dal barbiere e dal curato del
villaggio, che escogitano nel I libro un rimedio drastico per lui, ovvero dare
fuoco all’intera biblioteca di letture cavalleresche...) di risvegliarlo sono assolutamente vani.
D’altronde, vien subito da considerare in maniera un po’ facilona, senza questa
ossessione e senza il sogno delirante che ne deriva, tutta la vis al contempo comica e tragica della
narrazione verrebbe meno, verrebbero meno la storia e il narrare medesimo.
Dunque anche in questo caso, e fermo su questo punto le mie considerazioni, si
tratta di evocare un vortice, simile a quello del castello di Atlante,
provvisto di una forza che fino a un certo punto è creativa, ma poi diventa
distruttiva, al punto estremo dell’autodistruzione. I sogni che si possono
convertire in buchi neri, dai quali il sognatore non può emergere più, se non,
forse, morendo. L’ultimo capitolo, in effetti, è concepito proprio come un risveglio nella morte, dato che don
Chisciotte detta il suo testamento, che Cervantes rende un’inattesa
resipiscenza, comprensiva di una condanna senza appello a tutte le follie alle
quali le letture ossessive delle storie cavalleresche l’hanno condotto. Muore
così, lucido e incoerente con la vita condotta, il cavaliere della Mancia che
Cervantes, trovata metaletteraria anch’essa non trascurabile per chi voglia
analzzare altre pagine del romanzo, sostiene sia frutto di cronaca reale,
redatta da Cide Hamete Berengeli, storico musulmano impegnato nella
ricostruzione dei fatti della Mancia a inizio seicento. Di lui, ovviamente, non
si conosce altro, se non quanto ne scrive il nostro autore, che ricorre così a
una variazione su tema dell’espediente del manoscritto
ritrovato.
CALDERÓN DE LA BARCA[22]
Siamo fatti anche noi della materia di cui son fatti i
sogni; e nello spazio e nel tempo d’un sogno è racchiusa la nostra breve vita. Così
scrive Shakespeare nel suo dramma La tempesta, che risale al 1610/’11, nell’atto
IV, e a parlare è Prospero, il duca
naufrago in possesso di magici poteri. Il sogno continua a essere, per vie
differenti, è evidente, un filo di queste dispense, ma è evidentemente una
fonte d’ispirazione in questo Seicento, al quale ormai siamo arrivati,
precisamente al 1635, con l’opera più celebre del del drammaturgo spagnolo
Calderòn de la Barca (Madrid 1600- 1681), La vita
è sogno, una commedia filosofica divenuta oggetto di numerose
interpretazioni, soprattutto a partire dalla fine dell’Ottocento. La
giustificazione di tale interesse si può ricondurre alla fondamentale ambiguità
(di nuovo!) di un’opera che, rappresentando un esempio fra i più illustri della
corrente barocca, oscilla fra la semplicità delle fiabe e la complessità della
costruzione simbolica. Mi occupo in primo luogo di ricostruire l’ossatura della
narrazione, seguendo la partizione in atti del testo. Poiché l’avete già letto
integralmente, non premetto alcuna informazione sui personaggi e sulla trama
nel suo insieme. Nell’Atto I Rosaura, vestita da uomo, giunge insieme a
Clarino a una fortezza sperduta in mezzo ai monti: dall’interno si ode un
rumore di catene, che fa supporre la presenza di un prigioniero. In effetti si
sente una voce, che esprime tormento, e Rosaura e Clarino prendono in
considerazione l’idea di allontanarsi dal cupo edificio. Rosaura intravede una
figura, un uomo, con abiti che lo rendono simile a un animale, incatenato e
solo. La porta della dimora si spalanca e appare Sigismondo, appunto rivestito
di pelli e in catene, che si definisce infelice e sventurato e chiede la
ragione della sua condizione disperata, la colpa commessa, rispondendosi da
solo che nascere è di per sé un delitto. Prosegue poi il monologo, dicendo che
tuttavia la sua condizione è particolarmente sventurata perché è privato della
libertà che pare invece concessa in partenza a tutti i viventi, animali
compresi. Rosaura è colta da profonda compassione e Sigismondo si accorge della
sua presenza: la assale e si dichiara pronto a ucciderla, ma viene fermato
dalle parole di lei, che chiede di essere risparmiata. Sigismondo desidera
sapere chi sia, e Rosaura si appresta a presentarsi come persona che poco prima
di vedere lui si riteneva la più sfortunata del mondo, quando giunge Clotaldo
accompagnato da soldati, tutti a viso coperto. Il nuovo arrivato ordina a
Clarino e Rosaura di consegnarsi, perché hanno violato un segreto del re.
Sigismondo però si schiera a loro difesa, dichiarando che si ucciderà se sarà
loro torto un capello. Clotaldo ricorda a Sigismondo che il suo destino è quello
di stare in catene, perché il cielo lo volle morto prima della nascita, e gli
domanda perché si permetta di ribellarsi. Sempre furente, Sigismondo esprime
propositi bellicosi e Clotaldo ribadisce che proprio per tenerne a freno la
furia, forse, lo si fa tanto soffrire. Rosaura e Clarino vengono esortati a
consegnare le armi e la prima dà la spada a Clotaldo dicendo che con lei è
venuta in Polonia per vendicare un’offesa. Nel prenderla Clotaldo ha un
trasalimento e chiede chi gliel’abbia data. Venuto a sapere che l’ha avuta da
una donna di cui Rosaura deve tacere il nome, cerca di apprendere altro e
Rosaura gli dice che questa donna le ha detto che avrebbe trovato in Polonia un uomo che, vista la spada, le
avrebbe dato assistenza e protezione. Clotaldo ha riconosciuto nella spada
quella ch’egli stesso diede a Violante, dicendole che chi l’avesse cinta
avrebbe avuto in lui un difensore in grado di provare l’affetto di figlio e di
padre al contempo; riconosce quindi in Rosaura (travestita da uomo) il figlio
avuto da Violante e cade un un angoscioso dilemma, giacché in base agli ordini
del sovrano che tiene prigioniero Sigismondo, egli dovrebbe uccidere chiunque
violi il segreto della prigionia medesima. Fedeltà e amore combattono nel suo
petto. Intanto a corte Astolfo corteggia Stella, sua cugina, entrambi eredi del
regno di Basilio, padre di Sigismondo e ormai anziano re di Polonia, prossimo a
essere succeduto. Astolfo è figlio della sorella minore di Basilio e Stella di
quella maggiore, sicché a lei spetta la successione, ma Astolfo è innamorato di
lei. Stella gli domanda ragione di un ritratto femminile appeso al suo petto,
che non si spiega dal momento che Astolfo si dichiara appunto innamorato di
lei. Astolfo si appresta al racconto, quando entra il re Basilio, che tiene un
lungo discorso ai diletti nipoti. Dopo aver rammentato la sua fama di dotto e
conoscitore della matematica e dell’astrologia, dipinge il quadro della sua
infelicità: dalla moglie Clorilene ha avuto un figlio, che già prima della
nascita ha iniziato a inviare segni funesti. La madre sognava spesso che un
mostro le dilaniasse le viscere e la uccidesse, e il giorno del parto fu
costellato di sinistri presagi, tra cui un’eclissi di sole durante la quale nacque
Sigismondo e la madre morì. Il padre, scrutando le stelle, ne lesse quindi il
destino, che sarebbe stato quello di divenire un crudelissimo sovrano, che
avrebbe diviso il regno e riempito di vizi e delitti, fino al punto di
calpestare il suo stesso padre. Fu così che Basilio decise di diffondere la
notizia che l’infante fosse nato morto e di far costruire una torre fra le
montagne cui vietare l’accesso a tutti e imprigionare per sempre Sigismondo,
accompagnato da un solo uomo, Clotaldo, incaricato di istruirlo nelle scienze e
educarlo alla fede cristiana. Basilio prosegue poi dicendo che in primo luogo
ama i suoi sudditi, così da non volerli sottoporre a un tiranno;
secondariamente, che sottraendo un figlio al diritto di discendenza viene meno
alla legge umana e divina e si trasforma egli stesso in tiranno; in terzo
luogo, che forse è stato un errore prestare fede a previsioni astrologiche, dal
momento che è pur possibile che un’indole umana riesca a prevalere su quando
decretato dal fato per via di influssi. Espone quindi il suo progetto:
l’indomani farà sedere Sigismondo, ignaro di essere suo figlio, sul trono
regale, col potere di re. Se Sigismondo mostrerà di essere un buon sovrano,
smentendo i vaticini, resterà loro re; se invece si mostrerà crudele verrà
riportato nella prigione, ma questa volta Basilio si sarà comportato, facendolo
imprigionare, non da tiranno ma da re giusto e protettivo verso i suoi sudditi.
In quest’ultimo caso comunque lui, Basilio, abdicherà lasciando il potere ai
due nipoti, che si sposeranno e comanderanno insieme. Conclude il discorso
dichiarando di voler essere, nel prendere questa decisione, al contempo re,
padre, dotto e schiavo dello Stato. Astolfo e tutti i presenti si dicono
contenti della decisione e acclamano Basilio. Sopraggiungono Clotaldo, Rosaura
e Clarino, a chiedere udienza al re. Clotaldo rivela al re che il segreto di
Sigismondo prigioniero è stato violato, ma il re non se ne rammarica, vista la
decisione appena presa, e libera i due prigionieri di Clotaldo. Quest’ultimo,
senza rivelare nulla a Rosaura, le restituisce la spada, e tra i due inizia un
dialogo nel corso del quale la giovane allude al suo nemico, che sarebbe un
potente di cui non vuole rivelare il nome, malgrado le insistenze di Clotaldo,
finché cede, dicendo che si tratta di Astolfo, duca di Moscovia. Clotaldo non
crede alle sue orecchie e esorta Rosaura a dire di più, ma ella si limita a
dire di aver ricevuto un affronto grave, considerando che lei non è quella che
appare e che Astolfo è prossimo a sposarsi con Stella. Si allontana quindi in
fretta, vanamente inseguita da Clotaldo, che piomba in uno stato di incertezza
e dolore. All’inizio dell’Atto II
Clotaldo racconta quello che è accaduto nella torre: Sigismondo è stato
addormentato con una pozione, subito dopo aver discorso con Clotaldo sulla
regale maestà delle aquile, tema scelto da quest’ultimo per ispirarlo
nell’operare il giorno seguente. Quindi è stato trasportato nella stanza di
Basilio e posto a dormire nel suo letto, in attesa del risveglio. Quando
avverrà, Sigismondo verrà trattato da tutti come se fosse, e fosse sempre
stato, il sovrano. Clotaldo chiede infine quale fine abbia Basilio nell’aver
così disposto. Il re risponde di voler, per così dire, mettere alla prova la
durezza del cielo, di voler verificare se le sue condanne siano definitive e se
invece l’uomo con la sua intelligenza non possa mutarne i decreti. Se
Sigismondo si comporterà con mitezza resterà re, se invece darà prove di indole
malvagia tornerà in catene. Spiega infine la ragione del ricorso al sonnifero:
se Sigismondo sapesse di essere il figlio di Basilio ridotto in catene per
vaticini del cielo, nel caso in cui dovesse ritornare alla prigione senza
ricorrere nuovamente all’artificio della pozione, cadrebbe in un tormento
insopportabile e inconsolabile. Per questo motivo Basilio vuol fare in modo
che, nel caso in cui debba essere rimesso in cattività, creda di aver sognato.
Viene qui introdotto per la prima volta il motivo del sogno: Al mondo si vive soltanto in sogno, v.
164. Clotaldo esprime scetticismo, ma ormai Sigismondo si è svegliato e si sta
avvicinando, e Basilio si allontana perché il figlio incontri solo il
precettore, al quale dà il permesso di
dirgli la verità. Prima di incontrarsi con Sigismondo, Clotaldo si imbatte in
Clarino, che gli rivela che Rosaura ha abbandonato il travestimento da uomo e
si è presentata come nipote di Clotaldo, venendo subito ammessa al seguito di
Stella di cui è diventata dama di corte. Mentre ancora discorrono arriva,
attonito, Sigismondo circondato da servi che terminano di abbigliarlo: sa bene
di essere sveglio, e non si capacita di quanto sta accadendo. I segni di
rispetto che riceve da Clotaldo (che nella torre lo maltratta) lo frastornano
ancor più. Clotaldo prende a svelargli tutto: egli è erede del re di Polonia,
che lo ha tenuto prigioniero per tutti quegli anni in ragione di funesti
presagi, ma ora vuole appurare se la sua forza e la sua intelligenza
sconfiggeranno i decreti celesti. Annuncia una prossima visita del re Basilio,
ma Sigismondo reagisce subito con ira, che rivolge per cominciare contro
Clotaldo, preparandosi a ucciderlo di sua mano per la condotta tenuta con lui.
Con l’aiuto dei servi Clotaldo fugge, e Clarino con una battuta, presentandosi
come il più grande tessitore di intrighi e ficcanaso che vi sia al mondo, si
conquista il benvolere di Sigismondo. Entra Astolfo e viene trattato da
Sigismondo con estrema alterigia, mentre successivamente Stella viene
corteggiata in modo da offendere nuovamente Astolfo, finché addirittura
Sigismondo butta dalla finestra il servo che, fin dall’inizio della sua entrata
a corte, cercava di consigliarlo assennatamente, spiegandogli alcune regole di
corte. A quel punto entra Basilio, che domanda cosa stia acadendo e, venuto a
sapere che Sigismondo ha appena ucciso un uomo, si rammarica e gli nega
l’abbraccio ch’era venuto a porgergli. Sigismondo risponde duramente,
ricordando al re come abbia avuto il coraggio di condannarlo preventivamente a
una durissima prigionia, negandogli il suo amore fin dalla nascita. Il dialogo
prosegue con Sigismondo che gli rinfaccia di essere sempre stato il suo tiranno
e nega di dovergli una riconoscenza che deve invece alla natura, che lo ha reso
suo figlio e quindi discendente di re. Nei riguardi di suo padre non deve avere
alcuna riconoscenza, giacché anzi egli è in debito della vita libera che gli ha
sottratto fino a quel momento. Basilio, profondamente offeso, lo avverte di
ridursi a più miti consigli, perché forse, credendo di vivere, sta sognando (v.
544). Sigismondo, però, è molto sicuro di sé. Avviene anche l’incontro fra
Rosaura e Sigismono: la prima riconosce in lui con certezza il prigioniero in
catene visto alla fortezza, mentre il secondo è più incerto, ovviamente, nel
riconoscimento. Tra i due nasce un dialogo molto vivace e presto Sigismondo la
offende e si prepara a recarle oltraggio anche più grave, quando interviene
Clotaldo: Sigismondo è pronto a ucciderlo, ma entra Astolfo e si interpone,
sicché lui e Sigismondo si mettono a combattere. Arriva Basilio e i due
interrompono il combattimento, Sigismondo si allontana minacciando anche il
padre, che tra sé decide di rimandarlo nella torre. Rimangono a discorrere
Stella e Astolfo, e la prima rinfaccia nuovamente allo spasimante di avere al collo
un medaglione che ritrae un’altra donna. Astolfo si allontana per prenderlo e
consegnarglielo a riprova della sua assoluta fedeltà a lei sola. Giunge intanto
Rosaura, alla quale Stella dà l’incarico di attendere il ritorno di Astolfo e
di prendere dalle sue mani il famoso ritratto. Rosaura è in ambasce, non sa
cosa fare, se svelarsi ad Astolfo o meno. Quando questi ritorna col ritratto,
riconosce subito Rosaura, la quale però nega di essere costei. Astolfo allora
le dice di portare pure a Stella se stessa, perché il ritratto che lei attende
è appunto in carne e ossa presente in lei. Rosaura cerca però di strappare ad
Astolfo il ritratto che ha in mano. Stella sopraggiunge mentre avviene la
contesa e Rosaura le dice che Astolfo le ha preso di mano un ritratto che la
ritrae e non vuol restituirglielo, così Stella interviene, guarda il ritratto
in questione e ordina ad Astolfo di darlo alla legittima proprietaria. Avuto
quello che voleva, Rosaura si allontana e Stella resta per avere quello
promessole da Astolfo, che ora è ovviamente impossibilitato a mantenere. Stella
si allontana indignata e Astolfo si rammarica per sé e per Rosaura. Intanto
Sigismondo è stato riportato nella torre, dove si ritrova nell’esatta
condizione iniziale, incatenato e rivestito di pelli, steso al suolo ancora
addormentato. Anche Clarino, che sa troppe cose, viene chiuso in prigione.
Basilio fa visita alla torre mentre il figlio dorme e insieme a Clotaldo
ascolta i mormorii di Sigismondo nel sonno: minaccia di morte il padre e Clotaldo,
quindi si sveglia e inizia a pensare di aver sognato. Accanto a sé trova il
solo Clotaldo, il quale chiede che gli venga narrato il sogno. Sigismondo
racconta di essere stato riverito come re di Polonia, di aver ritenuto Clotaldo
un traditore, di aver voluto vendicarsi di tutti e di aver amato solo una donna
che ancora porta nel suo cuore. Il re ascolta non visto e si allontana
commosso. Rimasto solo Sigismondo pensa che vivere sia sognare e che l’uomo che
vive sogna fino al risveglio (vv. 1170 e sgg.: sogna il re il suo trono, e vive nell’inganno…). Nell’Atto III Clarino, prigioniero nella torre, si rammarica
del suo destino triste, quando sopraggiungono soldati che aprono la porta della
prigione e lo salutano come sovrano legittimo. Clarino commenta che forse in
quel regno è uso comune prendere ogni giorno uno qualunque e farlo re, e
comunque sta al gioco, mentre gli altri lo salutano come Sigismondo. Ovviamente
questi, sentendosi chiamato per nome, si rivela ai soldati, che spiegano di
essere venuti a liberarlo, per evitare che a governarli sia Astolfo, duca di
Moscovia e quindi straniero. Il soldato dice che sono rappresentanti del
popolo, il quale dunque sta dalla sua parte e vuole essere guidato da lui.
Sigismondo però ha imparato dalla recente esperienza (dal suo sogno) e non
vuole cedere alle nuove lusinghe, ormai sa che la vita è sogno (v. 156). Cambia
però idea e decide di prestare fede al
sogno, di mettersi al comando dell’esercito e di sfidare il padre, tra le
acclamazioni del popolo. All’apparizione di Clotaldo, che s’aspetta di essere
ucciso da lui, Sigismondo lo abbraccia, ma Clotaldo gli dice subito che intende
restare fedele a Basilio: per un istante Sigismondo sembra farsi prendere dal
furore, ma rammenta la volta precedente e si trattiene, consentendo a Clotaldo
di raggiungere il sovrano e combattere per lui. Astolfo si prepara a meritarsi
il regno combattendo per Basilio, e tutti si dispongono a combattere, compresi
Basilio e Stella. Avviene anche un dialogo fra Rosaura e Clotaldo, nel corso
del quale la prima cerca di persuaderlo a farsi suo paladino e aiutarla a
uccidere Astolfo, ma Clotaldo non si risolve perché Astolfo lo ha salvato dalla
furia di Sigismondo. Sigismondo procede a capo dell’esercito quando Rosalba gli
si presenta in mantello e armata di spada e gli racconta la sua vita: la madre
venne sedotta da un uomo proveniente dalla Polonia che, dopo averle promesso
che sarebbe ritornato e l’avrebbe sposata, la lasciò incinta di lei e con una
spada. A lei, poi, accadde la stessa cosa che alla madre, ma da parte di un
uomo che ella ben conosce, ovvero Astolfo, di cui è intenzionata a vendicarsi
nel senso di impedire le nozze con Stella e costringerlo a sposare lei.
Sigismondo, ascoltando il racconto, dubita dei suoi sensi, perché Rosaura gli
ha riferito circostanze che lui crede di aver sognato, sicché prima pare
intenzionato a non lasciarsi sfuggire l’attimo (v. 765) e a godere della
bellezza di Rosaura, poi si ravvede e pensa che non sia bene sacrificare in
nome di una gloria umana una gloria divina e decide di pensare all’onore di
Rosaura prima che al suo; tuttavia non dice a Rosaura che poche ermetiche
parole, che la lasciano in una condizione di dubbio doloroso. Si reincontrano
Clarino e Rosaura, e il primo sta per rivelare che Clotaldo è il padre della
fanciulla, quando giungono correndo, sconfitti, Astolfo, Basilio e Clotaldo,
mentre Clarino cade al suolo ferito da uno sparo, morendo poco dopo. Tutti
esortano Basilio a fuggire, ma egli decide di affrontare il suo destino.
Giungono anche Sigismondo, Stella e Rosaura e Basilio va incontro al figlio per
fare, dice a Clotaldo, l’ultima prova. Invita quindi Sigismondo a fare di lui
quel che meglio creda. Sigismondo dice per prima cosa che il cielo non inganna
né mente mai, mentre inganna chi, come suo padre, cerca di penetrare le
decisioni del cielo perseguendo un suo fine. Così, costringendolo a una vita da
bruto, Basilio ha reso la sua natura quale i decreti del cielo avevano
vaticinato. Il padre si è comportato come uno che, messo in guardia dalla morte
per una spada, se la punti al petto. Quindi, con un inatteso cambiamento di
tono, si offre al giudizio di Basilio, il quale riconosce la sua grandezza,
mentre il popolo lo acclama. Sigismondo quindi ordina ad Astolfo di sposare
Rosaura, e costui ha qualche esitazione dovuta alla nascita oscura di lei, ma a
quel punto Clotaldo rivela di esserne il padre. Dopo aver così promosso le
nozze di Rosaura, Sigismondo porge la mano a Stella e, al soldato venuto a
liberarlo dalla torre, che gli domanda cosa darà in premio a lui che ha fatto
tanto, commina la condanna della torre a vita in quanto traditore del re. Tutti
ammirano la saggezza del nuovo re, mentre questi conclude dicendo che non c’è
da meravigliarsi, giacché a ammaestrarlo è stato un sogno, dal quale ancora
teme di destarsi ritrovandosi in un’oscura prigione.
A corredo di questa
sintesi, volta a rendere più agevole l’individuazione di passaggi interessanti
del testo, aggiungo un breve commento. Basilio è un padre e un re al quale si
può imputare il difetto di essere troppo previdente, al punto da sembrare
perfino arrogante. Consideriamo le forze
in campo. Da una parte ci sono le stelle, che nel loro linguaggio, decifrabile
da pochi, dicono di un principe che diventerà tiranno e si farà oppressore del
proprio stesso padre; dalla stessa parte sembra esserci anche il re Basilio,
che dei dettati (o presunti tali) celesti si fa interprete e, qui è il punto
cruciale della questione, esecutore. Il fatto è che le stelle non hanno bisogno
di esecutori: ed è proprio in questo a consistere l’arroganza di Basilio, che
non a caso manifesta una sorta di resipiscenza allorché, di fronte ai nipoti,
asserisce di aver rischiato di essere un tiranno nei riguardi di suo figlio. Ma
veniamo all’altra parte: quella in cui si trova un uomo che, come tutti gli
esseri al mondo, ha un destino, il quale necessita sicuramente di una vita da
vivere per potersi manifestare, realizzare o per essere
eseguito. L’arroganza di Basilio consiste, a ben vedere, principalmente
nell’atto di sottrarre alla vita il proprio figlio, così da impedirgli di
interpretare (eseguire?), il proprio
destino. Novello Laio[23],
padre fondatamente preoccupato dai responsi celesti sul proprio figlio, Basilio
presume di poter guidare il corso degli eventi, di sostituire Dio in modo, per
forza, imperfetto. Nel dire questo cerco di intuire soprattutto il pensiero
dell’autore che, preciso a questo punto, era uomo di chiesa e interessato alla
riflessione sui grandi temi della religione e della filosofia. L’imperfezione
dell’agire di Basilio si manifesta nel suo procedere a un imprigionamento, che
impedisce, com’egli stesso a un certo punto comprende, l’espressione
fondamentale del libero arbitrio. Grazie a questo, l’uomo può svestirsi di ogni
componente ferina (alla quale il testo ripetutamente allude ove descrive lo
stato iniziale di Sigismondo e quello in cui viene ripiombato dopo la prima
prova) e accedere alla condizione davvero umana, cioè quella che precede o
coincide con l’accesso al divino (alla razionalità, alla giustizia, al bene).
Il processo è lento, graduale e prevede ricadute, ma conduce inevitabilmente
alla libera espressione dell’io, alla manifestazione di una volontà che è stato
Dio (questo ritiene e manifesta l’autore) a concedere all’uomo. Il dotto
Basilio, dunque, veste nell’opera i panni di un Dio imperfetto, che si deve non
a caso prostrare ai piedi dell’uomo che alla fine esprime la sua libera scelta,
declinandola in svariati modi: prima sceglie di reprimere gli istinti bestiali
(v. 225 verso Clotaldo; v. 774 verso Rosaura), poi di rinunciare alle proprie
mire immediate per difendere un altro essere umano (sempre Rosaura, quando antepone
la tutela del suo onore alla conquista della corona per sé (v. 800), poi di
rinunciare alla vendetta affidandosi addirittura a quella di un altro su di sé
(v. 1055 verso il padre), quindi di trionfare
su se stesso (v. 1067) dando in sposa Rosaura, (di cui si è innamorato, ad
Astolfo, com’ella vuole. Sigismondo può ben essere chiamato a rappresentare, in
un’interpretazione che riesce forse a conciliare le istanze dell’autore con
quelle del lettore moderno, l’uomo artefice del proprio destino, a dispetto,
più che sotto l’influsso, delle stelle. Come dichiara il principe liberato,
nella parte conclusiva della commedia, vera saggezza non è opporsi al destino
ma saperlo interpretare al momento opportuno, così da riuscire a dominarlo (vv.
1026 e sgg.). Il tema della vita come sogno è una limpida metafora, sulla quale
l’autore tesse un gioco di variazioni al quale ben si presta il testo teatrale,
ora nella forma di monologhi pensosi ora di folgoranti battute. Da artificio
utilizzato per mettere in piedi quello che potremmo definire un esperimento
esistenziale, il sogno della vita si trasforma in un motivo conduttore delle
riflessioni di Sigismondo, di quelle in particolare che lo conducono a essere,
tra i vari personaggi, il detentore della visione d’insieme più lucida: le
glorie umane, dalle quali spira un’aura piacevole e leggiadra, sono quanto mai
effimere, così pure i desideri, che appena realizzati svelano la loro intima
inconsistenza (v. 139 e sgg. dell’Atto
III). Il bene trascorso, riflette Sigismondo, appare facilmente un sogno
(v. 785). Ma c’è di più: tutto ciò a cui gli uomini sono soliti annettere
importanza, i contrassegni del potere e dell’unicità, sono in se stessi
inconsistenti, giacché su tutto incombe il destino d’un risveglio che si chiama
morte (vv. 1180-1181 dell’ Atto II).
Dunque la vita è frenesia, è illusione, ombra, finzione, la vita è sogno e i
sogni sono sogni (vv. 1197-1200 atto II), sostanze eteree che possono però, è
il caso di Sigismondo, mutarsi in provvidenziali maestri: il sogno insegna al
prigioniero come possa essere libero da se stesso e dagli altri, esprimendo
fino in fondo la sua umanità, e certo non è poco. Lascia un po’ stupiti, almeno
inizialmente, e perfino un poco turbati la decisione di imprigionare per sempre
nella torre, novello Sigismondo, proprio il soldato liberatore che consente al
principe di mostrare la propria valentìa di sovrano in erba. A ben vedere,
però, l’episodio ha la forza di una parabola e come queste arriva a turbarci e
meravigliarci. Consideriamo la logica di cui si fa portatore Sigismondo
nell’ultima scena: è una logica altruistica, che pospone se stesso agli
interessi di tutti gli altri. Egli prima si mette nelle mani di Basilio,
chiedendo di vendicarsi per aver lui realizzato ciò che il cielo prediceva, la
sconfitta del padre canuto e la discordia del regno; poi rinuncia alla donna
che ama. Come meschino appare, di fronte alla sua generosità, il soldato che
chiede di essere ricompensato per averlo liberato. Tutta qui, forse, la ragione
della punizione feroce, che ricorda anche a tutti che la cattività è sempre in
agguato, e che sempre da qualche parte c’è
un prigioniero, che magari un giorno verrà liberato da qualcuno ignaro del
fatto che dovrà poi prendere il suo posto e aspettare, a sua volta, un liberatore.
DAL MANIERISMO AL BAROCCO
Apprendiamo dallo
studio della letteratura latina, ma pure
da quanto studiato nel periodo umanistico-rinacimentale, che uno dei canoni più
saldi del classicismo, che lo rende una
sorta di ideologia e concezione
dell’arte, è il principio
d’imitazione, secondo cui esistono
modelli esemplari di perfezione assoluta ai quali gli emuli devono cercare di
avvicinarsi. Naturalmente per alcuni seguire
i modelli è un punto di partenza per produrre qualcosa di assolutamente
nuovo e peculiare, ma per altri è un punto d’arrivo. Nel cinquecento si discute
molto, nelle accademie, nelle università, sul tema dei modelli: ci si chiede,
per esempio se utilizzare un unico paradigma
o più di uno tra cui volta a volta
scegliere il migliore. A dominare è comunque la legge della mimesi, μίμησις, e il topos
degli arcieri, secondo cui bisogna fare
come gli arcieri prudenti, a' quali parendo el luogo dove desegnano ferire
troppo lontano, e conoscendo fino a quanto va la virtù del loro arco, pongono
la mira assai più alta che il luogo destinato, non per aggiugnere con la loro
freccia a tanta altezza, ma per potere con lo aiuto di sì alta mira pervenire
al disegno loro (Machiavelli, Il
Principe, cap. VI). Dalla metafora di Machiavelli proviene l’indicazione a
servirsi dei modelli per spronarsi a ottenere risultati migliori, non
necessariamente o esclusivamente per proseguire nel loro solco.Tuttavia,
abbiamo visto con Tasso, sul finire del Cinquecento le auctoritates
(come tali modelli classici vengono
percepite in ambiti quali le Accademie[24])
diventano un peso ovvero, come più
volte ripetuto, un'ossessione. Possiamo
servirci di questo riferimento, alla possibile deriva prodotta dall’imperativo categorico di un classicismo
totalmente acritico, per introdurre una sensibilità artistica che si manifesta
fra cinquecento e seicento e che è stata da alcuni critici delle arti
figurative denominata con un termine ancor oggi discusso (soprattutto al di
fuori di tale ambito, e per quanto riguarda quindi la letteratura), ossia manierismo. Esso consiste
fondamentalmente in un’imitazione esercitata con la volontà di distinguersi:
l’artista, lo scrittore manierista vuole esprimersi alla maniera di un modello, dando così luogo a forme di
sperimentazione anche molto ardite. Accenno solo, a questo proposito, a
un’interessante teoria critica proposta da Harold Bloom nel 1973 nel suo saggio
L’angoscia dell’influenza. Il critico
d’arte ha riflettuto sul senso di frustrazione che nasce davanti a un modello nei cui
confronti l'ammirazione si confonde con l'insofferenza. Il senso di frustrazione, d’impotenza, si
risolve in proclamazione di libertà, in rivendicazione creativa: di qui il
fatto che il manierismo sia un'arte
deformante, sempre alla ricerca del bizzarro, dell'insolito, dello
stravagante. Per le finalità della
mia presentazione, il riferimento al manierismo può esaurirsi qui, senza
ulteriori dettagli, dato che proprio i termini appena utilizzati (bizzarro,
insolito, stravagante) possono fungere da collegamento con il periodo che
connota la produzione letteraria (più latamente, artistica) del Seicento,
ovvero il barocco, del quale passo direttamente a occuparmi. Soprattutto
la storiografia positivistica del secondo Ottocento, che amava gli studi
eziologici, a cominciare da quelli sulle fonti, si è affaticata nel cercare le
ragioni dell'avvento del barocco, che per quelle generazioni ancora legate al
nazionalismo risorgimentale significava anche la perdita del primato detenuto dall'Italia nel campo
della cultura. Molteplici, e spesso extra artistiche, le cause individuate del dominio da parte di
questa nuova estetica sulle arti secentesche: tra le più rilevanti, l’imporsi
della dominazione spagnola, la controriforma
e l’invasiva politica gesuitica, nonché l’influenza esercitata da questo ordine
sull’istruzione e la cultura in genere. In effetti, ed è una considerazione che
vale anche per altri periodi, un cambiamento culturale è prodotto da tanti
fattori, compresi quelli che l’epistemologo Thomas Kuhn, morto nel 1996, invoca
per ricostruire la genesi del barocco spostando l’attenzione sull’ambito scientifico.
Secondo Kuhn, in prossimità del seicento si sarebbe verificata una sorta di rivoluzione sotto forma di cambiamento
di paradigma scientifico.
Quest’ultimo è definito da lui come una
conquista scientifica universalmente riconosciuta, che, per un certo periodo,
fornisce un modello di problema e soluzioni accettabili a coloro che praticano
un campo di ricerca qualsiasi. Il
paradigma in questione, al quale Kuhn fa riferimento, è quello copernicano, che
sostituisce il geocentrismo tolemaico e l’aristotelismo. Il paradigma normale, il secondo, si dimostra
insoddisfacente, in quanto non riesce più ad affrontare le anomalie che si presentano nella ricerca: la nuova scienza, il
nuovo paradigma, che va delineandosi sconvolge il sistema aristotelico, ma non
ha ancora abbastanza forza e evidenza dimostrativa da imporsi. Viene così a
determinarsi un vuoto che si cerca
intanto di colmare non con un sistema ordinato e sicuro (che non è ancora stato
elaborato, per quanto sia in fase di elaborazione) ma con un tumultuoso
accumulo di dati, che attingono alle fonti più variegate. Si arriva per questa
via a quanto accade in ambito artistico con la corrente, sensibilità, estetica
barocca, con la sua anima artificiosa (che la rende affine al manierismo), la
sua passione per la conciliazione di opposti da conseguire con lo strumento
analogico della metafora, la sua predilezione per indovinelli e inganni, trompe l’oeil e costruzioni iperboliche.
Dato che si è persa un’unità (l’universo ordinato tolemaico) si tratta di
trovare una nuova soluzione, di procedere a una riorganizzazione, che almeno in
questa fase attinge appunto all’iperbolico, con effetti illusori e un generale
trionfo dell’effimero. Per arrivare a fondare con esempi questo discorso
astratto, possiamo riferirci a uno dei testi attraverso i quali il barocco, seicento
inoltrato (1654 precisamente) spiega la
sua estetica per bocca di Emanuele Tesauro:
già il titolo, Cannocchiale
aristotelico, suona come una sorta di
paradossale ossimoro, il quale intende
porsi come equivalente, nell'ambito delle scienze umane, del sistema
astronomico di Tycho Brahe, fatto
proprio non a caso dai gesuiti, secondo il quale i pianeti ruotano, come voleva
Galileo, intorno al Sole ma questi comunque gira pur sempre intorno alla Terra
immobile. Insomma l’ossimoro consiste nell’associare il cannocchiale, strumento della scienza nuova, proprio
a Aristotele ovvero, per rifarsi nuovamente a Kuhn, nel mettere in mano al
paradigma normale lo strumento che
serve a dimostrare la sua falsità o, senza
esagerare, i suoi limiti.
In armonia con le
caratteristiche composite, che si possono in prima battuta riconoscere al
barocco per via della sua manifestazione in un’epoca di grande cambiamento
culturale, è la discussione sulla sua etimologia: probabilmente il termine
nasce da un incrocio fra il francese baroque
(a sua volta dal portoghese barroco, perla scaramazza, ovvero di forma non
perfettamente sferica, con un’imperfezione, che però ovviamente la rende unica)
e baroco,
nome scolastico d’un tipo di sillogismo imperfetto. Inizialmente l’uso del termine, ristretto alle arti
figurative, è dispregiativo: a essere
stigmatizzati come espressioni di bizzarria
erano per esempio i caratteri di
grandiosità scenografica, sovrabbondanza di decorazioni, virtuosismo, ricerca
di effetti prospettici e di chiaroscuro, la tendenza a colpire l’immaginazione
con ardite soluzioni formali; molto più tardi, sempre in senso deteriore, anche
alla poesia e alla musica di quel secolo si inizia ad applicare questa
definizione. La rivalutazione integrale del periodo avviene però nel XX secolo,
che riconosce all’arte barocca qualità indiscutibili, caratteri di originalità
e una potenza creativa in grado di operare anche di là dai confini epocali.
Procedo ora a
individuare obiettivi e strumenti peculiari dell’arte barocca. Il principio del
piacere, sensoriale in particolare, può essere ritenuto basilare: vista e udito
sono coinvolti primariamente attraverso effetto, spettacolarità, meraviglia.
Quest’ultimo è un concetto cardine dell’estetica e della poetica barocche: la meraviglia viene perseguita operando sul
linguaggio lungo due direttrici fondamentali, ovvero sollecitare i sensi e la
fantasia attraverso l’impiego massiccio delle metafore e impiegare dei concetti per rendere prezioso e
brillante il linguaggio. Questi ultimi sono artifici
retorici che consistono nel
combinare immagini tra loro molto diverse e nell’accostare cose tra loro molto
distanti, ma tra le quali il poeta, per una sorta di illuminazione mentale,
coglie analogie nascoste e mai osservate prima, anche se spesso bizzarre. Altre parole chiave del barocco sono ingegno, acutezza, arguzia, spirito, esprit
in francese, agudeza in spagnolo, wit in inglese, Witz in tedesco. La letteratura barocca tende poi a sfumare
i confini, in una sorta di interdisciplinarietà fra arti e fra generi. La
poesia è concepita come un fatto
spettacolare, in cui il rapporto col pubblico è primario. Tutto è intessuto
di ambiguità e di illusionismo al punto
che il verosimile appare contiguo al
vero da un lato e al falso dall’altro, diventando una forma di virtuosismo espressivo,
nonché veicolo di una visione disincantata del mondo, arrivata al punto di
pensare che nel vivere sia impossibile
separare il vero dal falso, l’apparenza dalla consistenza, la vita dalla morte.
In assoluta armonia con questa concettualizzazione, lo strumento prediletto dai
poeti barocchi è la metafora, che
comporta un processo semantico di tipo additivo, dato che associando fino
all’estremo limite della sostituzione un termine a un altro promuove una sorta
di metamorfosi, una trasformazione
definitiva di qualcosa in qualcos’altro. A essere infranto, si può a questo
punto comprendere, è il canone rinascimentale della chiarezza, della perspicuitas,
oltre che dell'aptum, del conveniente, che le poetiche barocche
spesso ignorano o trasgrediscono perché il loro interesse diventa piuttosto
quello di ritrovare con ogni mezzo nuova unità
e nuova coerenza, che si sono perdute
da quando la scienza ha sancito il passaggio da un mondo chiuso a un universo
infinito, da un paradigma a un altro. Questo spiega anche perché sia data tanta
importanza all'ingegno, la facoltà mentale che trova relazioni tra cose apparentemente
remote, facendo del legamento
l'elemento cruciale di ogni poetica. Inutile precisare che dell'ingegno e della
metafora tratta già Aristotele, ma è significativo che nel corso del cinquecento
i tanti commentatori della sua Poetica
non abbiano dato loro la rilevanza che assumono nel secolo successivo. Infine, alla legge della sprezzatura[25]
rinascimentale, trattata da Castiglione nel suo Il Cortegiano, subentra
quella dell'abuso, sicché la bellezza non è più data dalla naturalezza
(quand’anche riprodotta ad arte), ma dall'imprevedibile e dallo stravagante.
Per una prima
esemplificazione della pratica conseguente a queste teorizzazioni, da un’antologia
collettiva di lirici del ‘600 composta a
Ravenna nel 1623, riporto di seguito il sonetto di Anton Maria Narducci, dal titolo Per i pidocchi della sua donna ovvero Bella pidocchiosa
Sembran fere d’avorio
in bosco d’oro
le fere erranti onde
sì ricca siete;
anzi, gemme son pur
che voi scotete
da l’aureo del bel
crin natio tesoro;
o pure, intenti a
nobile lavoro,
così cangiati gli Amoretti
avete,
perché tessano al cor
la bella rete
con l’auree fila
ond’io beato moro.
O fra bei rami d’or
volanti Amori,
gemme nate d’un crin
fra l’onde aurate,
fere pasciute di
nettarei umori;
deh, s’avete desio
d’eterni onori,
esser preda talor non
isdegnate
di quella preda onde
son preda i cori!
L’esempio consente di
ripercorrere, attraverso una veloce analisi, almeno alcune delle caratteritiche proprie della sensibilità
barocca, per arrivare a cogliere quello che gli autori si proponevano di trasmettere
al lettore. Intanto notiamo che la forma prescelta da Narducci è canonica e
tradizionale: il sonetto che inventano i poeti della scuola siciliana in pieno
1200 e gli stilnovisti, Dante, Petrarca portano a livelli di classicità in
grado certo di competere con il classico antico. Dunque già questa scelta va
considerata in relazione a quella nuova
temperie che si sta determinando, in cui il gioco dell’arte, lo studio
dell’arte richiede tanta perizia tecnica quanto ingegno in grado di creare
il nuovo a partire da modelli o prescindendo completamente da essi, a seconda
della volontà dell’artista. Si tratta, approfondendo ancora un po’ il discorso,
per il poeta di sollecitare l’ingegno dei lettori, incuriosirli, indurli a
leggere (in questo caso, ma vale anche per opere che richiedano altri concorsi
sensoriali) decifrando enigmi, riconoscendo metafore che sono alle volte veri
indovinelli. In questo sonetto, dato il titolo esplicito, la risoluzione
dell’enigma è evidente, al punto ch’esso non si pone nemmeno più come tale. Ma,
a parte il mancato effetto enigmistico, resta l’rtificiosa ricerca di metamorfosi che si compiono attraverso
le parole, in virtù delle quali
quelle sgradevoli creature che sono i pidocchi diventano gemme, i capelli un mare e l’intera rappresentazione d’un
fastidioso, per quanto all’epoca comune, inconveniente, uno spettacolo degno di
nota, desiderabile persino da riprodurre e sperimentare. Senza contare che,
indovinello nell’indovinello, cuore della composizione, è il riferimento all’eterna
ferita d’amore, incastonato al centro del sonetto, alla fine della seconda
quartina. L’effetto metamoforico, che è a suo modo un trompe l’oeil, consiste proprio in quel corteggio di volanti Amori, che sono gemme e pure fere (termine iterato più volte) che si pascono di nettarei umori, pidocchi erranti sulla
cute della donna, invocati come contrassegni
evidenti d’amore, desiderabili dunque per dar prova sicura d’appartenenza
all’eletta schiera dei seguaci d’amore
Un poeta che in epoca barocca dà origine a una sorta
di scuola, a una corrente che da lui prende il nome, è Giovan Battista Marino,
al quale s’ispira appunto il marinismo.
Nato a Napoli nel 1569 e lì morto nel 1625, gode di grande fama già in vita: al
marinismo come principale espressione
della poesia barocca in Italia corrispondono l’eufuismo in Inghilterra e il preziosismo
in Francia, come esempi più
ravvicinati. Dopo essere stato cacciato dalla casa paterna proprio per via
della passione letteraria e del conseguente rifiuto a dedicarsi a studi di
legge, Marino coltiva l’imitazione della poesia classica latina, Virgilio e
Ovidio, ma anche di Tasso. La sua
esistenza, molto avventurosa (non di rado, per svariate e serie ragioni, viene
imprigionato) e caratterizzata da lunghi soggiorni presso svariate corti,
compresa quella sabauda, dalla quale poi passa in Francia, dove la sua fama si
consolida, si conclude con un rientro in
Italia che precede di poco la sua morte. Marino compone moltissimo, raccolte di liriche riunite sotto il titolo La lira, opere pastorali, ma soprattutto
un poema, L’Adone, al quale dedica molti
anni della sua vita, pubblicato nel 1623.
Vi si racconta la favola della relazione amorosa tra Venere e Adone: un testo in 5.183 ottave in 20 canti, dedicato al re
Luigi XIII di Francia e a sua madre, Maria de' Medici. Poema non eroico, giacché la materia non è guerresca,
e non sacro, data la favola pagana, l’erotismo su cui si imperniano i casi
della storia amorosa della dea con il giovane pastore è espresso in termini
mistici, che portano a una sacralizzazione dell’eros e a un’estensione
dell’erotico alla sfera del sacro, da cui discende una relativizzazione dello
stesso cristianesimo, eluso nel poema nella sua realtà dottrinale e storica. Il
canto X è l’occasione, durante il viaggio di Adone guidato da Mercurio nel
cielo della Luna, per un omaggio di Galileo Galilei quale inventore del
telescopio (ottave 42-47). Intricatissime peripezie occupano i sei canti
successivi, racchiusi tra La fuga di
Adone (XII) e La dipartita
(XVII), nei quali il protagonista è in balìa di forze malefiche e benefiche,
senza mai agire di propria iniziativa in modo efficace.
COMMEDIA DELL’ARTE
Dal re del Carnevale
a Zanni
Non ho per ora trattato come filone a sé stante la
storia del teatro. Abbiamo citato e analizzato testi teatrali, La vita è sogno, La mandragola, ma senza
entrare nei dettagli del genere in sé e di quali ne siano le sorti nelle epoche
di cui ci stiamo occupando. Ora riempio la lacuna, precisando che, per tutta l’epoca
medievale e per buona parte del periodo umanistico rinascimentale, il teatro
non prescinde dai modelli soprattutto latini, Plauto e Terenzio, anche se
capita che assuma caratteristiche differenti, ad esempio per influenza del sacro, della religione, quale si
manifesta nelle sacre rappresentazioni[26] in
particolare a partire dal 1200 e almeno
fino al XVI secolo. L’evento del quale intendo occuparmi è però quell’altra
rivoluzione che si manifesta nel periodo rinascimentale, riguardando proprio il
contesto teatrale. Alludo alla nascita della commedia dell’arte, sostenuta e diffusa in tutta Europa dalle compagnie di mestiere, particolarmente
italiane. Si capisce quindi subito in qual senso si debba intendere il termine arte utilizzato nella denominazione,
ovvero in quello di mestiere appunto,
reminiscenza medievale, comunale anzi,
dato che non solo i mestieri erano governati da statuti e contratti professionali, ma
la vita cittadina si era andata col tempo ordinando anche sulla base della
partecipazione al governo della comunità da parte degli iscritti alle arti.
Nell’ambito teatrale di nostro interesse attuale, possiamo abbozzare una
ricostruzione storica abbastanza precisa: un primo documento che serve a
testimoniare l’esistenza di una compagnia,
ovvero la principale struttura
costitutiva e distintiva della Commedia
dell’Arte, risale al 1545, precisamente a Padova, dove una certa fraternal compagnia è indicata come destinata a durare dalla prima domenica dopo
la Pasqua alla Quaresima dell’anno successivo. Il medesimo documento permette
di intendere che l’istituto prevede un’organizzazione gerarchica, con un capo
al quale è dovuta obbedienza, una mutua assistenza e un mutuo soccorso fra i
membri in caso di malattia, una cassa comune, ma anche una perdita di tutti i
diritti (con aggiunta di pene pecuniarie) per chi abbandoni la compagnia. Altri
documenti, successivi a questo, testimoniano sempre di un’organizzazione di
tipo solidale e assembleare, mentre da altre fonti otteniamo notizia di tentativi più o meno riusciti e duraturi di
fondare compagnie stabili dell’Arte legate a corti, ma con una propria indipendenza
artistica: Giovanni de’ Medici, figlio di Cosimo, fra il 1613 e il 1621 si
serve delle relazioni diplomatiche che il suo status familiare gli mette a disposizione per governare un
drappello di attori e attrici di qualità, attivi con successo nelle principali
corti italiane (il capocomico, da lui prescelto,
è Flaminio Scala). La drammaturgia dell’arte è però l’argomento davvero
interessante per noi. La componente rivoluzionaria
alla quale ho accennato all’inizio consiste, per cominciare, nel fatto che si
tratti di una recitazione a soggetto,
che si picca di non avere nessun tipo di testo fissato e definito, ovvero
nessun controllo autoriale. La
commedia dell’arte affonda infatti le sue radici in una forma di teatro originaria,
mantenutasi per così dire nel sottofondo delle tradizioni popolaresche quali si
manifestano soprattutto durante la festa del carnevale: si tratta della farsa italica, o atellana, che le fonti latine sostengono originaria della città
osca di Atella. In epoca classica, ai tempi già di Plauto e Terenzio nel II
secolo a. C., l’atellana è relegata a intermezzo farsesco fra uno spettacolo e
l’altro, ma questa sua collocazione secondaria non ci impedisce di conoscerne,
attraverso storici e grammatici, alcune caratteristiche. Si tratta di una forma
che prevede unicamente il ricorso a un canovaccio,
contenente un’indicazione di massima
delle linee di sviluppo della rappresentazione, ma soprattutto a una definita
caratterizzazione degli attori, i quali sono maschere caratteristiche, chiamate a interpretare tipi fissi, delineati in modo da dettare
il ruolo nell’azione, a predefinire attitudini e comportamenti. Il repertorio
della commedia dell’arte nel momento di massimo fulgore, tra secondo
cinquecento e seicento, è vastissimo e variegato, per quanto, per la stessa
natura del genere, tenda alla stereotipizzazione. Proprio quest’ultima si
annovera tra le cause della sua decadenza, benché una responsabilità anche
maggiore di questa risalga al successo presso le corti europee, all’inizio
entusiaste delle compagnie dell’arte italiane, del nascente dramma in musica,
che abbiamo visto esprimersi in pieno cinquecento
con Monteverdi. Nella commedia dell’arte sono dunque fondamentali le parti (che
risalgono appunto all’antica atellana) e i ruoli, elaborazione posteriore e
destinata a permanere anche dopo la riforma di Goldoni nel settecento, che
segna tuttavia la crisi definitiva del genere. I ruoli sono vere e proprie
categorizzazioni, e coincidono con
quelli dei Vecchi innamorati, degli Zanni, delle Servette o dei Capitani: sortiscono
un effetto di specializzazione a livello attoriale, dato che per interpretare
le parti con adeguato funambolismo, e al tempo stesso per non fossilizzarsi su un’unica maschera, gli attori si esercitano in vista dei ruoli
di cui sopra. Tra i ruoli segnalati spicca quello dello Zanni, al quale dà
particolare lustro, al di fuori della commedia dell’arte, un autore, sul quale
mi soffermerò brevemente, il veneto Angelo Beolco, il cui nome d’arte è Ruzante. Lo Zanni è una figura poliedrica, a seconda dei casi
astuto, intelligente e intrigante oppure pasticcione e balordo al punto da
sfiorare la demenza, ma pur sempre dotato di fisico acrobativo e di appetiti
insaziabili, di tipo sessuale e gastrico. Nelle sue espressioni più ardite, lo
Zanni sembra essere una rielaborazione del servus
callidus, arricchito di peculiarità che la commedia antica plautina non aveva
sviluppato, se non collateralmente e accidentalmente.
Prima di passare a trattare il caso di
appropriazione autoriale del personaggio farsesco operato da Ruzante, mi
soffermo però su quanto, della commedia dell’arte, riporta alla dimensione
carnascialesca, argomento degno di essere approfondito da chi sia interessato. Lo
studio del carnevale, come ritualismo ancestrale di comunità umane dislocate a
tutte le latitudini, è pertinenza dell’antropologia. Diventa però anche argomento artstico allorché lo si studia in
relazione al teatro e, in modo particolare, alla commedia dell’arte. Il nesso
più evidente fra quest’ultima e il carnevale è rappresentato dal mascheramento, al quale si collegano, o da cui conseguono,
improvvisazione e espressione di estro individuale, gioco di capovolgimenti, messinscena
spettacolare, divertimento collettivo in grado di svolgere una precisa funzione
sociale. Sviluppo brevemente proprio quest’ultimo riferimento. Carnevale
e commedia dell’arte rientrano nella vita sociale nel senso che sono portatori
di componenti che, qualora erompessero dai confini legittimi imposti alla
trasgressione dalla festa carnascialesca o dalla forma teatrale potrebbero portare allo sconvolgimento
dell’ordine vigente: questo è esattamente il cuore dell’interpretazione in
chiave antropologica (e sociopolitica) di entrambi i fenomeni. A suffragare
quest’ultima affermazione adduco un esempio. Il carnevale, ha scritto un
antropologo e storico studioso della sua fenomenologia[27],
è La festa del tempo che tutto distrugge e tutto rinnova. La funzione di distruggere e rinnovare
a livello simbolico è interpretata dal fuoco: a questo proposito, esempi
di ritualismi carnascialeschi sopravvissuti ancor oggi sono i roghi del Re del Carnevale, ovvero di un soggetto
individuato come il capro espiatorio
della comunità, sul quale riversare tutte le responsabilità di quanto di
negativo accaduto durante l’anno alla comunità, per potersene liberare e poi ricominciare. Vengono così evocati due
concetti importanti per l’interpretazione del carnevale: oltre a quello di
capro espiatorio anche quello di crisi,
intesa come momento di caos, il caos carnascialesco, che tuttavia è
controllato perché circoscritto entro un periodo definito, quello della festa istituzionalizzata, che si svolge
in un periodo determinato dell’anno. Quello che ho appena definito caos
controllato si manifesta come messa
in scena di una crisi, e si alimenta di una categoria importante per
riportare il discorso all’ambito teatrale: quella dell’indifferenziato. Per
confondere e confondersi, per dare luogo al caos
carnascialesco le maschere sono strumenti preziosi. A fondarne il senso
specifico è anche l’etimologia: la parola potrebbe derivare da una forma
preindoeuropea, masca¸ che significa fuliggine e fantasma nero oppure anche da masca
come strega, voce regionale di area
ligure e piemontese a cui appartengono anche derivati come mascaria nel significato di incantesimo,
stregoneria, magia, e mascassa, stregona. D’altronde anche nel tardo
latino masca(m) è sostantivo
femminile usato e attestato nel medesimo significato (nell’Editto di Rotari del 643, ad esempio). La maschera, celando il volto, rende
le persone tutte uguali, nel senso che abolisce, per un determinato arco di tempo, ogni
differenza di ruolo sociale, di
genere, di età, di appartenenza familiare, dando luogo sotto questo profilo
all’indifferenziato. Nel
carnevale, dove regna l’indifferenziato, un solo soggetto è invece reso differente da tutti gli altri, il citato
re del Carnevale, che non a caso viene
alla fine sacrificato, non prima di aver compiuto trasgressioni rituali che giustifichino definitivamente la sua morte. Alla sua regalità[28]
si connette pertanto l’unico elemento di differenziazione rispetto al resto
dei partecipanti. Ritualismi del genere
sono documentati presso varie culture di tutti i continenti, e in ambito
antropologico sono interpretati come espressione di miti di fondazione dell’identità collettiva. Attraverso il rito
carnascialesco, quindi, la società ritrova la propria identità e, non a caso,
subito dopo la sfrenatezza del carnevale si colloca, ad esempio nel calendario
occidentale cristiano, un periodo di austerità, la quaresima, sorta di antifesta che svolge una funzione espiatoria anche (non solo) per
gli eccessi consentiti durante il
carnevale.
Concludo
questo capitolo con Angelo Beolco ovvero Ruzante, da
ruzzare, scherzare, secondo un
accenno scherzoso di una sua commedia, L'Anconitana,
ma anche cognome comune della campagna padovana, che Beolco assume recitando. Nasce a Padova intorno al 1496,
figlio illegittimo di Giovan Francesco Beolco, che dal 1500 è rettore della
Facoltà di medicina e farmacia dell’università di Padova. Suo padre, agiato
proprietario terriero, gli garantisce una formazione culturale non dissimile da
quella dei fratelli, ma la sua vita è segnata dall’amicizia con Alvise Cornaro,
aristocratico veneziano trapiantato a Padova, che diventa suo protettore, gli
affida l’amministrazione delle proprie terre e sostiene la sua produzione teatrale.
Ruzante può così esprimere una vocazione al teatro che è in lui già matura,
poiché a Venezia ha recitato come attore alle feste nelle ville patrizie e,
come autore, ha potuto confrontarsi con una
drammaturgia contemporanea che annovera capolavori come La Mandragola di Machiavelli. Due i maestri della sua attività compositiva:
il teatro, che lo vede impegnato a
Padova e a Venezia, in seguito anche alla corte estense di Ferrara, e l’amministrazione
delle proprietà del Cornaro, che gli
garantisce una conoscenza diretta e approfondita del mondo contadino. Di qui il
tema prediletto, centrale fin dalle prime opere, la satira, che è però anche
realistica rappresentazione del villano, di cui
Beolco fornisce, a detta dei contemporanei, magistrali interpretazioni. La
sua produzione comica si colloca nel quindicennio che va dal 1520 al 1535, con
un esordio segnato da la Pastoral,
scritta in versi come la successiva Betìa
(1524-25), mentre il resto della sua produzione è tutto in prosa. Alla Pastoral
risale la prima comparsa del personaggio
Ruzante, rappresentativo di un mondo contadino istintivo, quello della
campagna reale, che si esprime in dialetto e si contrappone così alle
idealizzazioni arcadiche e bucoliche, in
cui ninfe e pastori parlano un italiano
aulico, artefatto e involontariamente ridicolo. Con la Moscheta,
composta probabilmente tra il 1527 e il 1531 Ruzante mette in scena una situazione
rocambolesca, una prova di fedeltà della moglie del suo protagonista, da cui consegue l’unico
risultato di perderla definitivamente; la
moglie Betìa è infatti una donna scaltra e sensuale, antitetica alle madonne eteree
muse della letteratura ufficiale: il bersaglio polemico non è tanto la teoria
dell’amore ripresa da molti letterati accademici cinquecenteschi, quanto le
abitudini della corte e le sue teorie sull’amore, così come, sul piano
linguistico, Ruzante non vuole opporsi a operazioni di regolamentazione della
lingua volgare in atto all’epoca[29],
ma ridicolizzare lo sfoggio falso e affettato del travisato petrarchismo
cortigiano, che dalla letteratura arriva a condizionare le relazioni sociali. Nell’ultimo
decennio della sua vita Ruzante non compone più nulla per il teatro, che sta
via via aderendo a schemi sempre più fissi; ci resta tuttavia una lettera
datata a inizio 1537, ultima sua
scrittura fino alla morte, avvenuta all’improvviso nel 1542, e per questo
ritenuta una sorta di testamento spirituale: in essa la descrizione onirica del
regno di Madonna Allegrezza viene fatta da un morto in un dialetto pavano che
ha perso ogni sua mimesi comica, proiettato in una dimensione infantile e
sognante[30].
GOLDONI
La commedia dell’arte è dunque un genere di teatro che si è sviluppato in un
arco di tempo definito, fra cinquecento e settecento, vivendo momenti di grande splendore,
soprattutto in corrispondenza con la sua diffusione di là dai confini d'Italia
dove nasce, e poi, siamo sul punto di
vederlo con Goldoni, a un certo punto decadendo. Mentre essa fiorisce, continua comunque, e Beolco nella sua
eccentricità ne è una dimostrazione, la produzione di testi teatrali da parte
di letterati, compresi gli accademici, che operano presso le corti. Si precisa anzi il modello
della tragedia, esplicitamente didattica,
si diffonde e ha successo il dramma
pastorale o favola boschereccia, e questo mentre, come accennato, si sviluppa
il melodramma, con la camerata de’ Bardi, Claudio Monteverdi e Jacopo Peri.
La decadenza della commedia dell’arte si può
ricostruire servendosi di quanto avverte Goldoni nella sua contemporaneità:
essa si è ridotta a praticare il genere delle caricature di personaggi e a
appiattire le rappresentazioni in scene
buffonesche, puntando molto su volgarità e eccessi. Una responsabilità in
questo deterioramento dei repertori e delle prestazioni risale senza dubbio a
quello che, inizialmente, è stato un fattore positivo per lo sviluppo e la
diffusione di questo genere: l’elevata richiesta di spettacoli da parte di
nobili e regnanti d’Europa, che domandavano espressamente di essere
intrattenuti con questi spettacoli e che prediligevano le compagnie italiane.
L’elevata richiesta ha sortito, sul lungo periodo, un effetto di logoramento
dei repertori, senza contare che, dovendo proporre gli spettacoli di fronte a
pubblici che non sempre conoscono l’italiano, gli attori tendono a accentuare
la componente mimica e farsesca, a detrimento di altri contenuti
originariamente veicolati. Di sicuro, in ogni caso, a Goldoni è ben presente di
qual natura sia tale decadenza e soprattutto quali possano essere le strategie
atte a promuovere una riforma del teatro, alla quale infatti si dedica. Propongo
ora, come d’abitudine, una sintetica biografia. Carlo Goldoni nasce a Venezia
nel 1707: il padre, per mantenere la famiglia in difficoltà economiche, si
trasferisce a Roma per concludere gli studi di medicina, sicché Carlo resta a
Venezia con la madre, per trasferirsi con lei riunendosi al padre a Perugia,
quando quest’ultimo vi apre una farmacia. Un precettore e un collegio gesuitico
sono le sue prime fonti di formazione, poi un collegio e un insegnante
domenicano a Rimini, dove la famiglia a un certo punto si trasferisce. Proprio
a questo periodo risale un episodio che segnala la propensione originaria di
Goldoni per il teatro: fugge da Rimini a Chioggia al seguito di una compagnia
di comici dell’arte. Tornato a Venezia con la madre nel 1721, prosegue con
studi e attività legate alla giurisprudenza, si sposta attraverso varie città
d’Italia, occasionalmente seguendo il padre, divenuto nel frattempo medico di
corte del conte Lantieri. Queste e altre dettagliate notizie, che documentano
una giovinezza inquieta e avventurosa, si trovano in un’autobiorafia, i Mémoires,
Memorie, redatti in francese quando è
ormai anziano e si è trasferito, come vedremo, in Francia. Lascio quindi
all’ispirazione eventuale di qualcuno l’approfondimento di dettagli in merito,
per inziare a trattare la genesi dell’ispirazione teatrale di Goldoni, fino ad
arrivare alla sua riforma del teatro. Dopo
prime esperienze, alle quali ho solo accennato, con la commedia dell’arte, la prima
commedia interamente scritta è la Donna
di garbo del 1743. Goldoni si
rende conto che la commedia dell’arte ha totalmente esaurito la sua forza
originaria, riducendosi a praticare caricature di personaggi e a rendere le rappresentazioni scene buffonesche, senza alcuna trama. Di
qui i principî cardine cui si ispira la sua pratica teatrale, ovvero la sua
attività di autore di commedie, riassunti in due termini ai quali, nei Mémoires, assegna la funzione di maestri. Si tratta di due
personificazioni, ovvero quella del Mondo e del Teatro: con il primo termine
dobbiamo intendere, spiega dettagliatamente Goldoni, la natura, l’esperienza, il
carattere naturale delle persone, gli avvenimenti della vita, le passioni, i vizi,
le virtù. La seconda
personificazione corrisponde invece alle modalità di cui l’Autore si serve per
dare luogo alla rappresentazione. Si tratta, per quanto riguarda il richiamo
complessivo alla natura riassunto nel
termine mondo, di una rivolta contro l’allontanamento dalla
realtà che la piega solamente farsesca delle rappresentazioni della commedia
dell’arte (con l’eccezione segnalata del teatro autoriale di Beolco) ha reso
norma e non più eccezione. Allo stesso modo la stereotipizzazione dei ruoli, la
loro esclusiva funzione istrionica e caricaturale rappresenta un tradimento
della realtà, che a lungo andare rende stucchevoli, in quanto ripetitive, le
rappresentazioni. Nata dalla realtà, da esigenze d’espressione persino popolari, la commedia dell’arte è (un po’
paradossalmente) arrivata a essere astratta
e convenzionale come i lavori
accademici, le commedie e tragedie che, se non rivitilazzate da un pensiero
creativo, diventano mera ripetizione di modelli antichi o applicazione di
regole di scuola. Mi soffermo però anche sulla seconda personificazione:
complici le esperienze giovanili, ma anche successive frequentazioni di
capicomici e attori del tel tempo, alle
quali ho solo accennato, Goldoni riesce a entrare precocemente nella dimensione
teatrale e a studiare i meccanismi dallo stesso dal punto di vista di chi,
stando dietro alle quinte, non sottovaluta o accantona mai il senso primario di
una rappresentazione, ovvero quello di raggiungere il pubblico, di piacere e di
essere capita. Si tratta insomma, per Goldoni, di maturare esperienze dirette
dello spettacolo in sé, prima di procedere a una scrittura di testi, in modo da
essere consapevoli, padroni, delle tecniche del teatro, dello stile drammatico, cioè di tutto quello
che può servire nel cesellare un personaggio e costruire un’azione per arrivare
al risultato finale di piacere al pubblico. Goldoni però non si trova, per
questioni epocali, in una situazione semplice sotto questo profilo: si tratta
infatti di trovare una maniera di avvicinarsi
al pubblico che non rappresenti una
resa incondizionata alla deriva del teatro comico di cui vi ho detto. Al
contrario, avvertita la crisi di quel teatro, si tratta di far piacere altro, quindi di guidare il pubblico in una nuova
direzione, in un certo senso educandolo.
Un’operazione del genere richiede una certa scaltrezza, da intendersi come perizia tecnica, oltre che sensibilità
legata al contesto, quindi di nuovo esperienza
diretta di esso, ottenibile soltanto lavorando accanto a chi il teatro lo fa quotidianamente, ovvero le
compagnie di attori. Conscia del fatto che l’argomento meriti approfondimenti e
integrazioni, procedo però iniziando a trattare i temi ai quali Goldoni si
rivolge per rendere ispirato al Mondo
il suo teatro. Inizialmente egli si fa interprete dell’ascesa nella società
veneziana delle classi borghesi e mercantili: di qui la dominanza del
personaggio del mercante. Successivamente però, in concomitanza con
un blocco dell’ascesa borghese a livello socioeconomico, volge l’attenzione del suo teatro al popolo. Questo passaggio testimonia
efficacemente quanto ho scritto prima: Goldoni è uno scrittore di teatro che ha
percezione dell’epoca in cui vive, è in contatto con essa e non se ne astrae.
Riprendo allora, sia pure sinteticamente, un percorso attraverso l’attività
teatrale diretta e pratica di Goldoni, che nel 1734 incontra a Verona il
capocomico Giuseppe Imer, col quale torna a Venezia: iniziano gli anni di
collaborazione col teatro San Samuele, per il quale scrive i suoi primi testi.
Si tratta di tragicommedie, nelle quali non è ancora per nulla manifesto lo
spirito di quella che sarà la riforma. Nel 1738 però, concepisce la sua prima vera commedia, il Momolo cortesan, con la sola parte del
protagonista interamente scritta. Seguono periodi di traversie finanziarie,
spostamenti attraverso l’Italia, e nel 1748 il ritorno a Venezia e l’avvio di
una collaborazione con la compagnia del capocomico Girolamo Medebach, che lo
convince a sottoscrivere un contratto come scrittore della propria compagnia,
legata al teatro Sant’Angelo. La collaborazione dura fino al 1853 e coincide
con gli anni in cui Goldoni elabora e realizza la sua riforma. Fra i titoli di
commedie del periodo, L'uomo prudente, La
vedova scaltra, La putta onorata, Il cavaliere e la dama, La buona moglie, La
famiglia dell'antiquario e L'erede fortunata: a parte l’ultima, in tutte si
trovano tracce delle polemiche sulla novità del teatro goldoniano e sulla
rivalità con l'abate Pietro Chiari. Anno estremamente prolifico, per via di una scommessa con il
pubblico e con Medebach, il 1750 vede nascere sedici commedie: Il
teatro comico (primo importante esempio di teatro nel teatro e che si può
considerare il manifesto della sua riforma teatrale), Le femmine puntigliose, La bottega
del caffè, Il bugiardo, L'adulatore, Il poeta fanatico, La Pamela
(tratta dal romanzo di Samuel Richardson), Il
cavaliere di buon gusto, Il giuocatore, Il vero amico, La finta ammalata, La
dama prudente, L'incognita, L'avventuriere onorato, La donna volubile e I
pettegolezzi delle donne. Fra le commedie che precedono la rottura con
Medebach figura, nel 1752, La locandiera,
alla quale dedicheremo lettura e analisi. Poi Goldoni assume un nuovo impegno
con il teatro San Luca, di proprietà Vendramin, e inizia un periodo difficile,
che gli richiede di adattare a un nuovo palcoscenico, più grande, i suoi testi
e di avere a che fare con nuovi attori, non avvezzi al suo stile. Molti i
successi, comunque, di questo periodo, ad esempio con la commedia Gl’innamorati; nel 1761 viene invitato a recarsi a Parigi per
occuparsi della Comédie italienne. Il
pubblico parigino, però, non si aspettava una riforma ma di vedere esattamente le rappresentazioni della commedia
dell’arte, sicché anche in questo contesto Goldoni deve condurre una
battaglia. Si dedica a un certo punto a
insegnare l’italiano ale figlie del re di Francia Luigi XV, scrive due commedie
in francese, Le bourru bienfaisant e L'avare fastueux in occasione del recente matrimonio tra il
Delfino, futuro Luigi XVI, e Maria Antonietta d'Austria e, tra il 1784 e l'8,
sempre in francese, la sua citata autobiografia. Sopraggiunta la rivoluzione
francese, che sopprime le pensioni, cade in condizioni di povertà assoluta a
muore nel 1793 poco prima che in parlamento Andrea Chénier proponga la
reintegrazione del sussidio. Le sue ossa sono andate disperse.
Mi soffermo ora sulla
Locandiera, che nell’arco della
produzione di Goldoni si colloca in un periodo di intensa attività e
rappresenta per vari motivi un culmine della sua produzione artistica. Nell’Autore a chi legge, l'introduzione
scritta da Goldoni alla sua commedia, compare fra le altre questa annotazione:
Fra
tutte le Commedie da me sinora composte, starei per dire essere questa la più
morale, la più utile, la più istruttiva. Sembrerà ciò essere un paradosso a chi
soltanto vorrà fermarsi a considerare il carattere della Locandiera, e dirà
anzi non aver io dipinto altrove una donna più lusinghiera, più pericolosa di
questa. Ma chi rifletterà al carattere e agli avvenimenti del Cavaliere,
troverà un esempio vivissimo della presunzione avvilita, ed una scuola che
insegna a fuggire i pericoli, per non soccombere alle cadute.
L’autore dichiara che la commedia abbia un fine
didascalico e formativo, proprio perché presenta comportamenti non astratti ma veri, colti nella loro verità psicologica, dalla qule non si
può prescindere in effetti quando si voglia tornare, come richiede la riforma
da lui concepita, alla natura delle
persone e, di conseguenza, delle relazioni che s’instaurano fra loro. La
visione della commedia comporta un approfondimento di caratteri, tanto quello
di Mirandolina, donna lusinghiera e pericolosa, quanto quello del Cavaliere,
qui sintetizzato come persona presuntuosa destinata a subire una lezione dalla
vita. Interessante, oltre alla lettura in chiave psicologica suggerita da
questa annotazione autoriale, anche quella in chiave sociologica: nella
commedia sono rappresentati soggetti sociali destinati ad avere un ruolo chiave
nel periodo, fino all’esplosione rivoluzionaria. Le classi aristocratiche, sulla
scena presenti con i personaggi del Conte d'Albafiorita, del Marchese di Forlipopoli nonché del Cavaliere
medesimo, sono soggetti sociali
che vivono se non sempre una crisi (di autorevolezza e di ricchezza) per lo
meno una messa in discussione della propria funzione sociale, politica e
economica. Volta a volta rappresentati come più o meno vanamente boriosi,
inattendibili sul piano economico, i nobili sono portati dalla loro condizione
sociale e dal riconoscimento che ne deriva a essere poco intraprendenti, mentre
questa virtù non manca, insieme alla pazienza e alla tenacia (basti pensare al
caso di Fabrizio nella commedia), ai borghesi alla ricerca di un miglioramento
delle loro condizioni. Dunque la locandiera, come rappresentante della borghesia in ascesa, sia pure con alti e
bassi, è un soggetto destinato a ottenere per la prima volta nella storia
(quella reale e quella teatrale) uno spazio e una credibilità che sembrano cogliere,
per certi versi presagire, futuri
successi anche nella dimensione reale della politica e dell’economia. Senza
entrare in altri dettagli della trama, dato che leggeremo integralmente
l’opera, aggiungo una notazione. Mirandolina è davvero
una donna del Settecento. Sappiamo infatti che Goldoni costruiva i suoi
caratteri basandosi sul Mondo e rifiutando di appiattirli in rappresentazioni
macchiettistiche: li rendeva in tal modo vivi e veri. Nell’essere tale, tuttavia, possiede anche riconoscibili tratti moderni e
contemporanei: è un essere umano consapevole sia della sua forza sia della sua
debolezza, ha fiducia nei suoi mezzi (di qualunque specie siano, compresi
quelli della seduzione) ma sa riconoscere il momento del pericolo, in cui la
sua forza potrebbe non essere sufficiente e, a quel punto, ricorrere a chi
possa aiutarla. A farne un personaggio fuori dal tempo ossia universale è
questa commistione di elementi eterogenei, gli uni risalenti all'epoca in cui
la commedia è stata scritta, gli altri anticipatori di evoluzioni future.
Occorre però evitare, a nostra volta, di appiattire il personaggio
interpretandolo in modo univoco, ad esempio trasformando Mirandolina (com'è
stato fatto in qualche caso attraverso messe in scena realizzate nel Novecento)
in una sorta di icona ante litteram
del femminismo. La sua sfida nei confronti del Cavaliere di Ripafratta,
certamente, può essere intesa anche come una sfida sociale: la donna che ha un
potere economico (è padrona di una locanda) non sopporta di essere disprezzata
da un nobile ricco (magari come lei, ma appunto nobile, mentre lei è una
borghese) e per questo attiva nei suoi confronti un vero e proprio progetto
vendicativo. Ciò non toglie, ribadisco,
che comunque Goldoni, per quanto scrittore che valica i confini temporali e
attinge all'universalità, è figlio del suo tempo e figli del suo tempo sono i
suoi personaggi: alla fine Mirandolina rientra nei ranghi (quelli della sua
epoca, intendo), nel senso che sposa Fabrizio e promette di non comportarsi mai
più come in passato (una sorta di ravvedimento: voglio cambiar costume è l’esclamazione testuale che lo segnala).
Alla luce di questa conclusione, risulta in effetti ancor meno sostenibile, o
per lo meno forzata, una lettura in
chiave femminista del suo personaggio o addirittura dell'intera opera. Per
supportare ulteriormente questa affermazione, fornisco anche un’analisi del
personaggio di Mirandolina, con cui concludo questa presentazione.
La comparsa di
Mirandolina sulla scena, precisamente la
V del I atto, è preparata da dialoghi animati fra quelli che sono, nel
caso del cavaliere diventeranno, suoi spasimanti. I tratti salienti dei tre
sono già abbastanza delineati quando ella giunge: il marchese di Forlipopoli,
che si dichiara subito innamorato di Mirandolina, è un nobile povero e superbo (lo apprendiamo da un a parte
del Conte nella scena I); il conte d'Albafiorita è un nobile ricco e
consapevole del potere che può esercitare, anche sulle donne, attraverso la
ricchezza (si propone, per stuzzicare il
marchese, di fornire di una dote Mirandolina quando volesse sposare il
domestico Fabrizio, sempre nella scena I); infine il Cavaliere di Ripafratta è
un dichiarato misogino, che sostiene spavaldamente di spregiare le donne, di
non essersi innamorato mai e di compatire coloro che, come il Conte e il
Marchese, perdono tempo e denari dietro alle femmine.
Quando Mirandolina giunge tra loro, viene quasi
sottoposta a una prova: il Conte le offre dei diamanti ed ella, con qualche
ritrosia, li accetta, suscitando l'ovvio sdegno del Cavaliere (Oh, che forca!). Mirandolina ha così
modo di conoscere il Cavaliere e la sua avversione verso le donne: dapprima
reagisce pensando di liberarsi di lui, ma presto (scena IX) concepisce un piano
di conquista, al quale attribuisce una sorta di finalità educativa: voglio usare tutta l'arte per vincere,
abbattere e conquassare quei cuori barbari e duri che son nemici di noi, che
siamo la miglior cosa che abbia prodotto al mondo la bella madre natura.
Da questo punto in
avanti Mirandolina mette in atto un piano per vincere la resistenza del Conte:
in particolare, emula del principe machiavelliano, simula di essere a sua volta
un'odiatrice del genere femminile, ovvero di quelle caratteristiche del genere
femminile che gli uomini sono soliti attribuire alle donne, prima fra tutte,
proprio la simulazione. Mirandolina,
infatti, stupisce il Cavaliere per la sua sincerità, la quale invece è appunto
frutto di una volontà seduttiva. Nel II atto il Cavaliere è palesemente
conquistato dalle grazie (naturalmente
artificiose, ovvero provviste di quella naturalezza che l'artificio può
produrre, quando magistralmente padroneggiato) di Mirandolina, e medita di
allontanarsi dalla locanda. La messinscena teatrale di Mirandolina, alla fine
del II atto (pianto e svenimento) raggiunge un vertice: il Cavaliere patisce
l'attacco di armi che aveva inizialmente vituperato e cade prostrato e vinto.
L'atto III si apre con una Mirandolina che dichiara di voler porre fine al
divertimento. La conquista del cuore del Cavaliere si palesa quindi per quello
che è: una messinscena teatrale a scopo educativo del Cavaliere medesimo e del
pubblico. Tuttavia, la famosa scena dello stiro, sulla quale non a caso
richiama l'attenzione anche l'Autore nell'appello iniziale al pubblico, mette
in evidenza l'evolutività del personaggio di Mirandolina nel corso della
commedia: donna forte e avveduta, teatrante nata, ha un momento di cedimento
alla paura, si rende conto di aver esagerato, come ribadisce nel finale, e
decide quindi di cambiare stato e costume, di diventare una donna sposata e al
riparo dalle lusinghe. La decisione di
sposare Fabrizio, comunque, per quanto dettata da una volontà paterna espressa
in punto di morte, risulta un atto da lei compiuto in totale controllo della situazione:
sovvertendo il gioco delle parti fra uomo e donna socialmente più accreditato,
è Fabrizio che le concede la sua mano e non viceversa (ed è lei a dettare
poi tutte le condizioni, come si legge
in questa parte che riporto come conclusione:
MIRANDOLINA: Zitto, signore zitto. È andato via, e se
non torna, e se la cosa passa così, posso dire di essere fortunata. Pur troppo,
poverino, mi è riuscito d’innamorarlo, e mi son messa ad un brutto rischio. Non
ne vo’ saper altro. Fabrizio, vieni qui, caro, dammi la mano.
FABRIZIO: La mano? Piano un poco, signora. Vi
dilettate d’innamorar la gente in questa maniera, e credete ch’io vi voglia
sposare?
[...]FABRIZIO: Ma piano, signora...
MIRANDOLINA: Che piano! Che cosa c’è? Che difficoltà
ci sono? Andiamo. Datemi quella mano.
FABRIZIO: Vorrei che facessimo prima i nostri patti.
MIRANDOLINA: Che patti? Il patto è questo: o dammi la
mano, o vattene al tuo paese.
FABRIZIO: Vi darò la mano... ma poi...
MIRANDOLINA: Ma poi, sì, caro, sarò tutta tua; non dubitare
di me ti amerò sempre, sarai l’anima mia.
FABRIZIO: Tenete, cara, non posso più. (Le dà la
mano.) (Atto III, scene XIX e ultima).
ILLUMINISMO
Le periodizzazioni
sono frutto di scelte arbitrarie, che non di rado vengono nel tempo messe in
discussione e danno luogo a revisioni. La loro funzione è spesso soprattutto
ordinatrice e quindi didascalica, sicché è difficile prescinderne quando si
studino argomenti in sede scolastica.
Senza contare che, fino a un certo punto, riescono anche a trasmettere
concetti importanti e utili, consentono di individuare eterni ritorni e echi,
analogie e fratture, continuità e discontinuità, grazie alle quali i profili
autoriali, i significati delle opere artistiche, le prese di posizione
individuali e collettive si mettono a fuoco con maggior chiarezza o, se non
altro, si fondano in qualche modo in relazione alle epoche di appartenenza ma
anche alle precedenti e alle successive. Nel caso del periodo denominato illuminismo, la definizione data a un
arco di anni non esattamente coincidente col secolo, ma estendibile di qualche
decennio in avanti o all’indietro, a seconda della prospettiva che si adotta, vale
in effetti quasi esclusivamente per il contesto storico-filosofico. Il settecento, diciamo comunque con una
certa approssimazione e in prima battuta, è il secolo
dei lumi, perché ospita la nascita di correnti di pensiero che, in nome
della razionalità, esercitano analisi critiche del mondo che portano proprio in
questo secolo a rivoluzioni politiche.
L’espressione appena utilizzata, in nome
della razionalità, vale a indicare una tendenza, rispetto alla quale si
manifestano innumerevoli rivoli e alternative, che non sarà certo possibile
evocare tutti. L’introduzione, però, vale a giustificare per cominciare
l’attenzione che dedicheremo ad alcuni aspetti della storia del pensiero in
questo periodo.
Tra i luoghi deputati
al progresso della conoscenza
figurano nel settecento ancora le accademie, che appartengono a due tipologie.
La prima tipologia, capostitipite la Royal
Society londinese nata nel secolo precedente, è un tipo di istituzione che
riceve soltanto qualche privilegio dal suo benefattore o patrono, mentre si
sostiene con le quote raccolte tra i membri, ed è quindi incline ad ammettere
personaggi ricchi e prestigiosi, senza preoccuparsi di altri meriti. Di solito
queste società avevano dipendenti stipendiati, incluso un curatore degli
strumenti, e forse anche, come a Bordeaux e Stoccolma, un insegnante o un
professore di filosofia naturale. L'altro tipo di società ha il suo modello nella
parigina Académie Royale des Sciences,
fondata anch’essa nel secolo precedente. I suoi membri regolari ricevono uno
stipendio in cambio del loro servizio accademico, che include la stesura di
lavori originali e la valutazione di richieste per brevetti. Il modello
parigino, in cui rientrano le accademie di Berlino, Pietroburgo e Gottinga, ha
inevitabilmente una quantità inferiore di membri rispetto a quello londinese, e
quindi, mediamente, annovera fra essi un buon numero di personaggi che si erano
distinti per i loro contributi alla filosofia naturale. L'immagine che queste
società avevano di sé può essere desunta dai loro motti. Quello della Royal Society recitava Nullius in verba, con riconoscibile riferimento a Orazio: nullius addictus iurare in verba magistri
(non vincolato a giurare sulla parola di
alcun maestro). Una dichiarazione d’indipendenza di pensiero, dal re, dalle
scuole, dai dogmi della religione, perché la conoscenza possa provenire
interamente dal mondo naturale, da
osservazioni, esperimenti, raccolte di dati, calcoli. Il suo emblema, tuttavia,
dopo la riorganizzazione del 1699, è un
sole, che simboleggia sia la conoscenza sia il re di Francia, Luigi XIV, e il motto che lo correda, Invenit et perficit, ovvero scopre
e completa, fa riferimento al primato della conoscenza per realizzare qualunque cosa. Quanto
all’Accademia Svedese delle Scienze, fondata nel 1739, mostra nello
stemma un uomo anziano che lavora la terra sotto la dicitura För Efterkommande, e cioè per la posterità. Il monito, unito
all’immagine, sembra alludere alla
necessità di riportare alla concretezza la conoscenza accademica, nonché alla possibilità
di un immediato vantaggio (per il futuro soprattutto) di invenzioni pratiche.
Gli stessi temi ricorrono nel motto della Societas
Scientiarum Gottingensis fondata nel 1751, Fecundat et ornat, e pure in quello, Veritas et Utilitas dell’Académie
Royale des Sciences di Torino, fondata nel 1783. Per quanto diverse per
struttura e modus operandi, le accademie di riferimento, quella londinese e la
parigina, sono accomunate dal fatto di essere impegnate esclusivamente nella
ricerca della conoscenza naturale. La
maggior parte delle altre accademie hanno invece sezioni per le arti e le
lettere, in aggiunta a una o più di matematica, filosofia naturale e storia
naturale. Tra i compiti precipui delle accademie più
grandi vi sono la calibrazione dei
termometri e le prove di affidabilità dei parafulmini o ancora i giudizi di
affidabilità, redatti da comitati appositi, sulle affermazioni di Mesmer e sui
fenomeni del galvanismo. I comitati
accademici vagliano pubblicazioni, verificano esperimenti, bandiscono concorsi
scientifici e assegnano premi. Alcune di esse, quella parigina di sicuro, si
aprono al pubblico una o due volte l'anno: di solito si tratta di eventi accuratamente organizzati, condotti
con dispendio di mezzi e finalità pubblicitarie, per dimostrare il valore dell'istituzione e incoraggiarne il sostegno.
Culmine noetico e pratico di questa fioritura
accademica che ho sommariamente evocato è la pubblicazione dell'Encyclopédie, che ha nelle accademie i
più fedeli sottoscrittori e diversi accademici tra i suoi compilatori. Lo
sforzo innovativo di scoprire ed enunciare i principî che regolano, in
particolare, l'attività dei commerci e
delle manifatture sottolinea i fattori analitici e quantitativi che si erano
prestati al loro sviluppo razionale. Qui l'Encyclopédie
lavora in collaborazione con i centri di ricerca più specializzati, che hanno
il pieno sostegno dei governi. Queste organizzazioni includono i collegi reali
di agricoltura, sedici dei quali aperti proprio nel corso della pubblicazione
dell'Encyclopédie, e le agenzie che
si occupano del rilevamento di dati demografici, di silvicoltura, di
cartografia.
Il nostro primo
inquadramento dell’illuminismo, per via di questi riferimenti a Accademie e Encyclopédie consente di rilevare come
entrambi questi soggetti siano prodotto della temperie epocale e in sintonia, quando
non in sinergia, con forze economiche e politiche che improntano il secolo e
dalle quali non è possibile prescindere per intendere anche movimenti artistici
e letterari di nostro interesse. Quanto alla sinergia di cui sopra, essa trova
espressione nel programma illuminista di razionalizzazione delle istituzioni
sociali, superando abitudini e credenze fondate ormai eslcusivamente su
tradizioni, verso le quali non pochi governi si mostrano del tutto
insofferenti, in quanto interessati a un efficientismo che la burocrazia, astro
nascente dell’organizzazione sociale, almeno nella forma che definiamo moderna e al servizio di stati moderni, può garantire. Vi faccio
notare, en passant, come si profili
una scelta culturale, le cui coordinate geografiche sono estese (forse
comprendono quello che ancor oggi amiamo definire occidente), che pone al proprio centro l’utile, eletto baricentro del vivere collettivo, non di rado confuso
con un’idea di felicità che annette
importanza primaria, forse esclusiva, alla dimensione pratica,
all’organizzazione lavorativa con quel che ne consegue anche in termini di
definizione del miglior sistema di governo, ovvero quello più adatto a servire
gli interessi della nascente economia capitalista.
Passo ora a trattare
lineamenti dell’illuminismo che si situino in più diretta e palese relazione
con la letteratura. Per quanto riguarda quella italiana, il periodo illuminista
ospita, oltre a Goldoni, altri due scrittori che entrano nel nostro percorso in
posizione privilegiata, Alfieri e Foscolo, mentre a Parini dedico solo qualche
accenno, sempre passibile di approfondimenti da parte vostra. Mi servo tuttavia
proprio di lui per completare la delineazione del periodo in una prospettiva
più funzionale alla letteratura e, momentaneamente, in prevalenza nazionale.
Nato nel 1729 e
attivo dalla metà del secolo, rispecchia in grande misura la mentalità
riformistica del periodo, effetto della sinergia
alla quale ho appena fatto riferimento, quale si esprime politicamente con Maria Teresa d’Austria e Giuseppe II in Prussia, non a caso
definiti sovrani illuminati. Un
problema interpretativo legato alla sua opera riguarda la valutazione del
rapporto che lo lega alle tematiche illuministiche, che possiamo così a questo
punto individuare. Il posto di
istitutore presso i Serbelloni lo pone in contatto con l’aristocrazia e
l’ingresso nell’Accademia dei Trasformati lo inserisce negli ambienti
intellettuali milanesi. Da questi contatti nascono le sue odi civili, che documentano la vocazione a risolvere problemi
sociali con l’ausilio della poesia, sfruttata nella sua possibilità di miscere utile dulci (Omne tulit punctum, qui miscuit utile dulci,
"Ha coronato tutti i desideri, ossia un consenso unanime, chi ha mescolato
l'utile al dilettevole" , Orazio, Ars
poetica, v. 343). Si capisce, anche solo da questo accenno, che nel periodo
illuminista, quello che ho inizialmente individuato come l’affidamento alla
ragione come strumento fondamentale e la scelta, resa evidente
dall’impostazione delle principali accademie, di rendere la scienza naturale la
forma di ricerca basilare per qualsiasi prospettiva, peraltro collettivamente
auspicata, di progresso, rappresentino un vero e proprio statuto
epistemologico. Ciò spiega come possa accadere che un poeta, sia pur
rifacendosi all’antico, dedichi la propria ispirazione al miglioramento della
vita civile, scrivendo appunto odi
che fin dal titolo rivelano tale loro vocazione pratica: La salubrità
dell’aria (1759), L’educazione (1761),
L'innesto del vaiuolo (1765), Il bisogno (1766). Gli argomenti sono
varî e trattano questioni che interessano sia la società nel suo insieme sia
chi governa i territori. L’orientamento
illuministico di Parini è filantropico e umanitario più che politico e
ideologico, alimenta un riformismo che si addice alla politica dei sovrani
illuminati, senza entrare mai in conflitto con essa. Nessuna tentazione
rivoluzionaria, insomma, giacché dal suo punto di vista, ostile al
cosmopolitismo e ai principi settecenteschi di divulgazione della scienza, il
problema della diseguaglianza sociale si giustifica in realtà sulla base di una
gerarchia naturale. Dunque Parini è
sensibile a problemi sociali, dà loro spazio nelle Odi e pure nel Giorno, poemetto didascalico incompiuto, ma non smette
mai di credere che le questioni anche più scottanti possano essere risolte
attraverso una politica adeguatamente gestita da una classe politica ben
formata, educata sulla base di principi solidi e fondati soprattutto nella
scienza. Non caso la voce narrante del Giorno è un precettore, che descrive la
giornata tipo di un giovane aristocratico, dal rientro verso l’alba, al lento
risveglio in tarda mattinata, alla cerimonia della vestizione, al pranzo in
casa della dama di cui egli è cavalier servente, al passeggio sul corso ai
divertimenti notturni. Il quadro che ne emerge, frutto di esperienze
autobiografiche di Parini, è quello di una società e di una classe, quella
aristocratica, che rischia di, o è decisamente destinata, a estinguersi per
perdita di energie intellettuali e morali, mentre altrove si preparano eventi
destinati a cambiare le prospettive del mondo intero. Lo spirito di Parini
tuttavia non è mai incline a cambiamenti rivoluzionari, come dimostra anche
l’atteggiamento assunto, ormai anziano (muore a Milano nel 1799), nei confronti
della rivoluzione francese. Dapprima la vede come una possibilità di
cambiamento positivo di una situazione d’ingiustizia sociale, ma poi ne rifugge
estremismi ed eccessi. Di qui una breve collaborazione, poco prima di morire,
col governo rivoluzionario provvisorio istituitosi a Milano nel 1796, dal quale
però si allontana presto, anche per via di irrisolvibili contrasti nel merito dei provvedimenti da assumere. Nel
bilancio complessivo delle sue opere, che certo può valere la pena esaminare
direttamente, si capisce che Parini investe la poesia del compito di portare
alla luce, avvalendosi come strumento stilistico principale dell’ironia, i
problemi sociali, le spesso feroci ingiustizie che quotidianamente si producono
e le resistenze opposte al progresso dall’ignoranza ancora massicciamente
diffusa. Il suo interlocutore prilivegiato, quello nel quale ripone appunto una
sostanziale e progressista, in senso
riformista, fiducia resta un potere sovrano illuminato, quello che è in grado
di non dare luogo a una tempesta rivoluzionaria perché non alimenta al suo
interno i motivi per promuoverla.
NEOCLASSICISMO
Sempre nel rispetto
della terminologia e delle classificazioni basilari, così come ho brevemente
trattato l’illuminismo delineo ora una corrente che caratterizza parte della produzione
artistica del settecendo e,
intrecciandosi con altre sensibilità e estetiche, alimenta l’ispirazione di
notevoli autori, da Alfieri a Foscolo a Goethe, fino ad arrivare a Leopardi,
ovvero ad artisti che hanno anche avviato e alimentato variamente la nuova
corrente del romanticismo. Questa preliminare considerazione vale, una volta di
più, a rimarcare l’importanza di una consapevolezza originaria di come gli spiriti
artistici più interessanti per noi non siano quasi mai con assoluta precisione
inquadrabili entro un movimento o delle coordinate estetitacamente e
concettualmete definite, anche se è ovviamente fondamentale avere cognizione di
quali esse siano. Per quanto riguarda il neoclassicismo, come suggerisce la
denominazione, esso è un ritorno,
forse un eterno ritorno: precisamente
dell’antico nella sua pura espressione di classico (latino e greco,
naturalmente), con tutto ciò che comporta in termini di bellezza, regolarità, moralità. Un assoluto, insomma, che è andato
forgiandosi nel tempo, contraddicendo così, peraltro, una nozione di
assolutezza intesa come fissità: se pure è vero che il classico (e il neoclassico che lo riprende) considera perfette ossia compiute una volta per
tutte certe forme (ciò vale
soprattuto nell’architettura), è analogamente sostenibile che da quanto scritto
nel vitruviano De Architectura a
proposito della storia dell’arte antica, poi rivisto all’epoca di Leonardo da
Vinci e ripreso da J.J. Winckelmann nella sua Storia dell’Arte antica del 1763 sono ravvisabili dei cambiamenti,
per lo meno di sensibilità. Per suffragare questa affermazione, posso addurre
un esempio, tratto proprio da Winckelmann: la matrice dell’arte neoclassica è senz’altro la Grecia antica, ma la sua
percezione da parte del settecento è considerevolmente mutata anche, ma non
solo, da nuove
scoperte archeologiche, che
rappresentano un punto di svolta nella ricostruzione del passato fino a quel
momento accreditata. Anche il deciso impulso ai viaggi fa la sua parte, nel
senso di rendere relativamente veloce la comunicazione di idee e il diffondersi
di sensibilità. Un’incursione nel campo dell’architettura neoclassica, il
settore artistico in cui è maggiormente radicato e espresso il neoclassicismo,
permette di farsene un’idea preliminare. In questa corrente settecentesca si individuano diversi stili orginari, come quello
dorico (neodorico o neogreco), influenzato dalla riscoperta dei templi di
Paestum e dal Partenone e quello romano, con l’uso dell’ordine tuscanico, ionico e
corinzio. A questi, però, si affianca una nuova esigenza di utilità, comodità,
solidità degli edifici, ripresa da Vitruvio, ma coniugata con quella più moderna, già dettata dalle esigenze
dell’insorgente società industriale, di
semplificazione degli ordini e dei piani, estrema sobrietà decorativa, ricerca di
proporzioni chiare e armoniche. Possiamo riconoscere in questo l’influenza
della nuova organizzazione promossa dal
pensiero illuminista trattato in parte nel precedente capitolo: non si tratta
più di concepire singoli edifici, ma complessi di strutture, soluzioni
urbanistiche che privilegiano schemi geometrici (applicati alle piazze, ai
parchi, alle abitazioni, ai mercati, ai cimiteri e ai musei, creati per esporre al pubblico collezioni fino allora
conservate in spazi privati), e che trovano larga diffusione in Europa.
Per quanto riguarda
invece la letteratura, il neoclassicismo si esprime a livello accademico
attraverso l’Arcadia, fondata a Roma
il 5 ottobre 1690 da Giovanni Vincenzo Gravina e da Giovanni Mario Crescimbeni,
coadiuvati nell'impresa anche dal torinese Paolo Coardi, sotto l’egida della
regina Cristina di Svezia. L'Accademia diventa un vero e proprio movimento letterario, che si
sviluppa e si diffonde in tutta Italia durante l’intero settecento in risposta
a quello che era considerato il cattivo
gusto del barocco. Fin dalla denominazione, e poi nei contenuti proposti,
si richiama alla tradizione dei pastori-poeti della mitica
regione dell'Arcadia.
Il più importante, ma
anche il più grande poeta drammatico del Settecento arcadico è Pietro
Metastasio. Il primo in ordine di tempo e il più popolare dei suoi Drammi per musica è l' Artaserse (1730). Coi forti connotati
classici della forma e dello stile Metastasio chiude la disordinata epoca
dell'opera barocca: i suoi drammi sono costruiti in Recitativi in versi sciolti, ai quali per lo più è affidata
l'azione, e Arie in metri regolari,
alle quali è affidata la vita emotiva e lirica da questa stessa azione nascente
nell'animo dei protagonisti. A lui vale certo la pena dedicare un
approfondimento, che permetta di cogliere fra l’altro il nesso profondo, e
spesso trascurato, che lega la storia della letteratura con quella della
musica.
ALFIERI
Alfieri vive in pieno
illuminismo, ovvero in quell’epoca che è anche attraversata da una corrente
neoclassica, eppure anticipa atteggiamenti e sensibilità che sono proprie del periodo successivo, il
romanticismo, pur considerando che quest’ultimo si manifesta con un certo
anticipo in diverse nazioni europee, dove le sue prime espressioni risalgono
alla seconda metà del settecento: come vedremo nel prossimo capitolo, questo
anticipo è particolarmente evidente in Germania e Inghilterra. Lo presento, come in tanti altri casi,
attraverso una sintetica biogtafia.
Nato ad Asti nel 1749, da una nobile
famiglia savoiarda, viene ingabbiato (più
o meno parole sue) all’età di nove anni nella Regia Accademia di Torino. L’effetto imprigionante è ampiamente
documentato nella sua autobiografia, La
vita scritta da esso, fondamentale strumento per la comprensione di uno
spirito abitato da permanenti inquietudini e connaturata insoddisfazione. Quanto
all’origine nobile, scrive che l’esser nato tale gli è servito per
poter poi senza taccia d’invidioso e di
vile, dispregiare la nobiltà per se sola; nel 1778, peraltro, dando prova
di rara coerenza, rinuncia ai beni di famiglia con una donazione a favore
della sorella Giulia. Spirito cosmopolita, amante dei viaggi come delle
letture, ha modo di contrapporre all’ambiente assolutistico e retrivo
sperimentato nel regno sabaudo l’esperienza viva e diretta, ad esempio, della
libera vita inglese. Ne caratterizzano lo spirito ansia di conoscenza,
desiderio di provare emozioni forti, di sperimentare avventure passionali, di
verificare concretamente quello che fin dagli anni dell’accademia si precisa
come il suo odio antitirannico, che assume poi la forma di una precisa teorizzazione, rimasta
del tutto astratta, di come in nome della libertà si debbano respingere tutte
le specie di autorità politica. Comunque, per quanto in assenza di esiti
pratici, politica, poetica e poesia appaiono sorrette da un nucleo profondo in
cui la lotta per la libertà politica e quella per l’affermazione di uno
scrittore libero e autentico hanno una comune radice. Alfieri ha dunque proposto, in
un’epoca in cui abbiamo vsto proliferare le accademie, una nozione di letterato libero, uomo del
dissenso e della contestazione, essere umano integrale, senza soluzione di
continuità fra opera e creatore. In particolare è la produzione tragica a
rientrare in questa concezione: il poeta rappresenta quella che si denomina la crisi tragica, ovvero la
rappresentazione del limite contro cui, religiosamente ovvero spiritualmente,
lotta l’eroe alfieriano. Tale limite non è solo rapprentanto dalla tirannide
del potere politico (per quanto diverse tragedie abbiano proprio questa
ispirazione), ma dallo stesso ordine
delle cose, dalla natura e dalla divinità, anch’esse secondo lui più tiranniche che paterne o provvidenziali.
La tragedia alfieriana è dunque principalmente riassumibile nel conflitto
permanente fra ideale e reale, fra volontà rinnovatrice e limite di un ordine
politico, culturale, esistenziale.
Per conoscere Alfieri
ci dedicheremo alla lettura integrale di una sua tragedia, Mirra, ma prima è necessario soffermarsi sul trattato che contiene
l’esplicitazione del suo pensiero in merito al tormentoso rapporto fra piani di
realtà differenti come quello in cui vivono le
persone comuni, quello dei tiranni, e
quello degli oppositori. Della tirannide,
scritto fra il 1777 e il ’79 apre la fittissima stagione creativa che vede Alfieri comporre, nell'ordine, un secondo trattato
intitolato Del principe e delle lettere, 19 tragedie e una raccolta
di Rime. In questo fecondo periodo, ha modo anche di continuare
a coltivare l'amore per quella che, tra le tante, è la sua donna, o
il degno amore, ossia la contessa di Albany, Luisa Stolberg-Gedern,
moglie di Charles Edward Stuart (di 32 anni più anziano), pretendente al trono
d'Inghilterra, incontrata a Firenze nel 1777[31]. Nel trattato iniziato
appunto nel 1777 a Siena, Alfieri delinea il carattere
antagonistico e l’impeto eroico che caratterizzano l’inevitabile scontro fra
tiranno e uomo libero. In quest’opera si trovano opposti da una parte l’eroe, che combatte contro i limiti rappresentati
dalla tirannide, e dall’altra chi detiene questo potere assoluto. A essere una battaglia è, nella prospettiva
alfieriana che qui si delinea, anche la
sua opera, che si manifesta come diretta e primaria affermazione della propria
libera personalità; d’altro canto, si legge, egli è un uomo che abbandonerebbe
volentieri la penna per impugnare la spada. Alfieri si schiera pertanto contro il dispotismo, anche quello
illuminato, della sua epoca e identifica con tirannide ogni tipo di monarchia
che ponga il sovrano al di sopra delle leggi. Anzi, dichiara di preferire
le tirannidi estreme a quelle moderate, che altro non sono che contraffazioni,
che illudono i popoli, mascherando più o meno abilmente e efficacemente la
propria ineludibile essenza. Egli sogna quindi un’insurrezione del popolo tale
da provocare il capovolgimento della situazione e il ritorno alla totale
libertà dell’essere umano non asservito in qualsiasi modo a un suo simile. Molto
interessanti i passaggi del testo in cui il tiranno viene paragonato a Dio: la concezione assolutistica in politica è da
lui vista come un monoteismo che ha
assunto forme monarchiche. L’assunto che
alimenta questa visione è che il concetto di divinità, in particolare quello
veterotestamentario, sia intrinsecamente connesso con una visione assolutistica
del potere, in quanto l’essenza metafisica del divino è potenza (non amore, secondo Alfieri), da cui deriva solo la
necessità della sottomissione,
ampiamente confermata dai racconti veterotestamentari che delineano Javeh come Dio degli eserciti. Il mantenimento nel
tempo della tirannide è poi secondo lui promosso da una classe sociale che ne trae
principalmente beneficio, ovvero la nobiltà, D’altronde i nobili, grazie
all’educazione ricevuta, sono in grado di comprendere il vero pericolo che
rappresenta il tiranno, ma quest’ultimo, indotto da spirito di autoconservazione, li
corrompe offrendo loro privilegi in cambio di una diminuzione dei poteri di cui
dispongono. Quanto al popolo, Alfieri
lo distingue nettamente dalla plebe
(questo il termine di cui si serve), in quanto il primo è costituito da cittadini
e contadini più o meno agiati, mentre la seconda da nullatenenti, ai quali
dedica parole sprezzanti, definendoli corrottissimi
e scostumati; ogni qualunque governo, perfino la schietta Democrazia, non dee
né può usar loro altro rispetto, che di non li lasciar mai mancare né di pane,
né di giustizia, né di paura. Che ogniqualvolta l’una di queste tre cose lor
manchi, ogni buon ordine di società può essere in un istante da costoro
sovvertito, e anche pienamente distrutto.” Il riferimento alla paura viene approfondito in un intero
capitolo del libro I, il III, intitolato proprio Della paura, in cui descrive il rapporto fra tiranno e sudditi
caratterizzato da una duplice forma di paura, da parte del tiranno di perdere
il potere e, da parte dei sudditi, del tiranno in sé ovvero della perdita di
libertà totale che la sua esistenza comporta. Da qui deriva il fatto che l’uomo libero (interiormente tale, ossia
predisposto da educazione a sentire il valore della libertà) non possa vivere
sotto una tirannide (Libro II) e abbia
di fronte a sé un’unica opzione dignitosa: il tirannicidio e la gloria di morir da libero, abbenchè pur nato servo, attraverso
un atto che si trasforma non di rado in suicidio. Alfieri
invoca in questo caso la morte come
suprema prova di eroismo, come affermazione della propria natura e come
vocazione alla libertà. Soprattutto nel caso in cui il gesto del tirannicidio
non abbia un risultato positivo, comunque il suicidio dell’eroe può fungere da
stimolo per il popolo, ossia provocare
un suo decisivo risveglio e una sua irresistibile insurrezione. Anche solo da
questa sintesi si capisce che il testo alfieriano non è particolarmente
articolato dal punto di vista strettamente politico, ma illumina sulla genesi degli
eroi tragici alfieriani i quali, anche
se vincitori, subiscono sconfitte tragiche e dolorose, restano profondamente tormentati
anche, ma non solo, a causa del sangue
versato. Evidente, insomma, che per Alfieri la teorizzazione proposta non rappresenti
un preludio a un’azione politica vera e propria: a dimostrarlo, la sua reazione
alla rivoluzione francese, di cui è
inizialmente
entusiasta e che celebra in un'ode intitolata Parigi sbastigliato (1789), ma che
successivamente genera il suo sdegno per gli eccessi di quello che definisce il mostruoso governo rivoluzionario.
Fugge peraltro da Parigi nel 1792 con la contessa d’Albany e si stabilisce a Firenze. Gli ultimi anni della sua vita, conclusasi per
infarto a 54 anni nel 1803, sono
caratterizzati da una quasi completa scomparsa della vena compositiva migliore
e da una sorta di involuzione reazionaria.
La produzione tragica, ribadisco tuttavia,
ben rientra nella concezione che ho
delineato servendomi del trattato: il poeta rappresenta quella che si denomina
la crisi tragica, ovvero la
rappresentazione del limite contro cui, religiosamente, lotta l’eroe alfieriano,
che non è solo il limite della tirannide del potere politico (per quanto
diverse tragedie abbiano proprio questa ispirazione) ma è lo stesso ordine
delle cose, la natura e la divinità, anch’esse a ben vedere più tiranniche che
paterne o provvidenziali. La tragedia alfieriana è dunque principalmente espressione
del conflitto irrisolvibile fra ideale e reale, fra volontà rinnovatrice e
limite di un ordine politico, culturale, esistenziale che non si lasciano
scalfire perché è nella loro volontà mantenersi il più a lungo possibile. La
produzione tragica di Alfieri conosce un vertice in due tragedie, Saul e Mirra, risalenti rispettivamente all''82 e all'84. La forma
teatrale tragica, è evidente da quanto già visto, si addice particolarmente al suo spirito,
abitato da tensioni ideali molto forti: della forma tragica tradizionale,
all'epoca piuttosto usurata, Alfieri accetta la partizione in atti (cinque) e le
unità aristoteliche di tempo, luogo e azione. Diminuisce però il numero dei
personaggi, in particolare i secondari,
e concentra l'attenzione su uno o due protagonisti; analogamente elimina le
digressioni o gli episodi minori che potrebbero distrarre, sfronda gli elementi
di caratterizzazione storica e dei costumi, mirando a collocare la tragedia
essenziale del protagonista (nel caso sia di Saul sia di Mirra è solo) su uno sfondo quasi atemporale e
anche fuori dallo spazio. Il risultato è una tragedia "di un solo
filo ordita; rapida per quanto si può servendo alle passioni [...]; tetra e
feroce, per quanto la natura lo soffra".
Delle complessive 19, quasi tutte sono imperniate
sul conflitto fra un tiranno e un eroe della libertà, che inesorabilmente va
incontro alla morte. Gli antagonisti, pur essendo tali, sono accomunati da
un forte sentire, ossia dal possedere un'anima eccezionale, fattori
che rendono entrambi appunto profondamente soli. Egocentrici, spregiatori dei
limiti, pungolati da pulsioni e ossessioni oscure, questi personaggi sono
colti, come le trame, dal repertorio della storia greca, romana, medievale,
rinascimentale o dalla Bibbia. Del tutto estranea a tematiche
politiche è invece la Mirra, ispirata a un racconto
delle Metamorfosi di Ovidio: al centro è l'amore incestuoso
della protagonista per il padre Ciniro, re di Cipro. Tra la Mirra di Ovidio e
quella di Alfieri corre una differenza sostanziale: la prima infatti riesce a
coronare il suo desiderio, complice una nutrice, giacendo con il proprio padre
all'insaputa di lui. Viene poi trasformata, durante il parto che ne consegue,
nell'albero della mirra, dal quale nascerà Adone. La Mirra alfieriana, invece,
si sforza di nascondere la sua passione, si induce quasi a celebrare le nozze,
volute dal padre, con il giovane Pereo, ma poi, nel momento in cui confessa il
terribile segreto al genitore, si trafigge con la spada di lui. A differenza
degli altri protagonisti alfieriani, Mirra è un personaggio delicato, privo di
tratti violenti: a essere violenta e insana è la passione che la abita,
contro la quale né lei, né tutte le persone affettuose e comprensive che la
circondano possono fare nulla. Mirra è vittima di un'insanabile contraddizione
interiore, che le impedisce di trovare un accordo con se stessa: disprezza il
suo stesso desiderio, ritiene mostruosa, estranea a se stessa la parte che si è
innamorata del padre e decide di riconquistare per così dire la purezza perduta
esplicitando la sua colpa, e suicidandosi. Con questo personaggio
femminile Alfieri ha trovato il modo di purificare anche la sua concezione
politica, esibendone o metaforizzandone il contenuto più profondo: nessun
essere umano è davvero libero, dal momento che le passioni, di cui si dice che agitino lo spirito sono non di rado una
ragione dell’esistenza, la quale non si mantiene se non attraverso esse, che
pure rappresentano anche un tormento indicibile. Spezzare questo circolo
vizioso è impossibile, e una parte fondamentale nel trattarne tragicamente è svolta dalla parola: a Mirra è impossibile
parlare, è prigioniera dell’indicibile,
e se ne libera solo nel momento in cui si uccide, ponendo fine al paradosso che
ormai è diventata la sua esistenza, per
via dell’irrealizzabilità del desiderio. Interessante, a questo proposito,
notare la differenza in radice tra il
mito proposto da Ovidio e la sua rivisitazione
(termine tuttavia riduttivo) alfieriana. Mentre in Ovidio è prevista una, certo
dolorosa e in parte esiziale, liberazione
della protagonista, che oltre a realizzare il desiderio incestuoso, viene anche
esaudita nella richiesta di non essere
più né viva né morta¸ trasformandosi in pianta e riuscendo ancora a
partorire un figlio, in Alfieri il finale, sul quale ci soffermeremo
adeguatamente dopo la lettura, sancisce la colpevolezza di Mirra, che viene
alla fine esclusa da tutto, compreso un ricordo minimamente benevolo da parte
dei suoi genitori, che si ritraggono inorriditi da lei come previsto da lei
stessa, a motivazione dell’indugio protratto quasi fino al termine a confidarsi
con chicchessia in merito al suo desiderio.
ROMANTICISMO
Il periodo che va
dall’ultimo settecento agli anni ottanta dell’ottocento circa offre almeno due
ragioni che ne legittimano una trattazione unitaria: sul piano storico-politico
è in quel lasso di tempo che si afferma il principio di nazionalità, realizzandosi
concretamente in numerosi processi di
unificazione territoriale (Italia, Germania, Grecia), e si consolida il
liberalismo attraverso istituzioni e prassi politiche e economiche (elezioni,
sistema parlamentare, libertà d’impresa); sul piano letterario è quasi
interamente occupato dalla manifestazione in varie arti del romanticismo, cioè
la nascita, lo sviluppo e la diramazione a livello europeo di questo composito
movimento culturale e artistico.
Inserisco qualche
cenno alla storia, in particolare ancora a quell’evento epocale che è la rivoluzione francese. Tra le varie anime
della rivoluzione è quella liberal-borghese ad avere la meglio: è il terzo
stato, la borghesia, a codificare un assetto sociale rispondente ai suoi
interessi, in particolare con la Dichiarazione
dei diritti dell’Uomo e del Cittadino del 1789, che sancisce l’abolizione
del regime feudale, la libertà personale, l’uguaglianza di tutti di fronte alla
legge, e dichiara la proprietà diritto inviolabile e sacro; tuttavia al momento
di dare determinazione concreta a tale libertà
e uguaglianza la Costituzione del
1791 discrimina il diritto di voto sulla base del censo e con la Costituzione dell’anno III, 1795, frutto
della reazione di Termidoro al Terrore giacobino, viene ancora una volta
stabilito il principio del censo nelle elezioni, ribadito il diritto di
proprietà senza restrizioni, riaffermata la piena libertà di iniziativa degli
operatori economici. Una strada, quella praticata dalla borghesia attraverso
queste codificazione, di opposizione tanto ai privilegi della nobiltà quanto
alle richieste più radicali del popolo, che pure in certe occasioni vengono
sfruttate per ottenerne l’appoggio in contrasto con l’aristocrazia. La medesima
strada seguita dal Codice civile
napoleonico (1804), responsabile della
diffusione in Europa, nei territori, ivi compresa l’Italia, toccati
dall’invasione, dell’assetto statale liberal-borghese, che concede spazio non
tanto all’uomo di cui si parla nella
dichiarazione dei diritti, ma a quell’uomo
che sia sufficientemente autonomo,
possidente, colto, da potersi considerare vero cittadino.
La Rivoluzione
comprende comunque anche fasi che vanno in direzione propriamente democratica e non liberale, intendendo col primo termine un’attenzione alle esigenze
e al ruolo delle forze popolari, con sottintesa una contestazione dell’egemonia
borghese: il mito giacobino, sostengono alcuni storici fra cui Eric Hobsbawm[32], si
è imposto con potenza superiore persino a quello napoleonico (che comunque
sopravvive alla morte dell’imperatore) in quanto sogno di libertà, eguaglianza
e fraternità, rivendicate da un popolo che si sente finalmente signore di sé. Indimenticabile, tra
l’altro, in una ricostruzione attenta ai dettagli, che un episodio della rivoluzione francese sia la radicalissima congiura degli Uguali di Gracco Babeuf, organizzata nel 1796,
repressa nel sangue dal Direttorio, ma espressasi in un Manifesto, le Manifeste des plébéiens, in cui si trova teorizzata
l’abolizione della proprietà privata come premessa indispensabile
dell’effettiva eguaglianza fra cittadini, considerata, tale eguaglianza, primo
bisogno dell’uomo e auspicio della natura. Si tratta palesemente di un
comunismo ante litteram: a riprova di
questo, nel ’28, l’italiano Filippo Buonarroti, che vi aveva preso parte,
indica in tale esperienza il punto di partenza per una ripresa dell’azione
rivoluzionaria che rompa l’assetto dell’Europa della restaurazione. Da questo breve
quadro risulta che la rivoluzione francese può quantomeno essere ritenuta una
fucina nella quale si sono avviate e sperimentate forme di organizzazione
politica che per tutto l’Ottocento avrebbero costituito punti di riferimento,
anche per artisti di varia estrazione.
Quanto a Napoleone,
l’imperatore fonda il suo potere su un colpo di stato (del 18 brumaio 1798) con
cui nega e afferma al contempo la rivoluzione: da una parte realizza un
accentramento assolutistico obiettivo
d’elezione dei sovrani dell’ancien
régime, dall’altra edifica lo stato borghese, che risponde alle aspettative
e agli interessi della classe che è stata protagonista vittoriosa della
rivoluzione francese; oltre a ciò riporta ordine all’interno e riafferma il
prestigio della Francia e la sua egemonia nel contesto europeo. Di qui,
peraltro, la delusione storica percepita
da soggetti di varia nazionalità, di vedere una rivoluzione approdare al
cesarismo, delusione alla quale la cultura e sensibilità ottocentesche daranno
voce, per cominciare proprio con Foscolo.
Come nel caso
dell’illuminismo, anche del romanticismo è impossibile fornire una definizione
univoca: si tratta di un movimento estremamente diversificato, per intenzioni
ideologiche e per esiti, sia a livello di letterature europee, sia all’interno
di singole nazioni. Qualche semplificazione tuttavia è, come sempre, utile. Al classico, con l’annessa
codificazione di generi, o l’indicazione di regole quali quelle relative a
unità di luogo, tempo e azione teatrali, viene opposta l’esaltazione della
spontaneità; passione amorosa, malinconia,
irrequietezza interiore, gusto
dell’introspezione, pittoresco e sehnsucht
sono sentimenti e concetti che, uniti o separatamente, alimentano una
sensibilità poetica che affonda le sue radici di preferenza non più nella mitologia
greco-latina, ma in miti nazionali, nella storia, nel folclore locale. D’altra
parte, identificate approssimativamente queste linee di fondo, va tenuto conto
che il romanticismo si diffonde con una tempistica differente nelle varie
nazioni europee: prima in Germania e in Inghilterra, quindi in Francia e infine, con una certa resistenza, in Italia[33]. Per
questo motivo, ovvero per riuscire a cogliere una sorta di matrice della sensibilità variegata del romanticismo, esamineremo
nel prossimo capitolo il romanzo
epistolare I dolori del giovane Werther.
Possiamo però
iniziare a concepire il romanticismo come una corrente di lungo periodo, che accompagna per decenni l’Europa nella sua
metamorfosi letteraria, politica, economica, filosofica, sociale, in aperta
fraternità o in continuo conflitto con l’ordine costituito e con la storia: una
corrente provvista di una notevole forza di penetrazione in territori e tempi
differenti, in Italia e altrove. Per questo la geografia del romanticismo è
molto variegata: ci sono centri di diffusione e espansione, zone morte e zone
ritardatarie, centri prolifici di manifesti e proclamazioni. Si delinea fin dall’inizio del discorso uno
dei paradossi romantici, di quella corrente che afferma il concetto di nazione
e pratica d’altra parte, in continuità col settecento, un accentuato
cosmopolitismo. Come elemento caratterizzante la sensibilità romantica possiamo
però almeno indicare quella che Rousseau[34], in
pieno settecento, definisce la force et
la viguerur de l’ âme, ossia una
sorta di coscienza vitale naturale che, secondo il filosofo illuminista, secoli
di civiltà avevano soffocata. Tale
forza originaria, che mira esclusivamente al piacere e alla felicità, da
ottenersi con mezzi semplici e pur sempre naturali,
diviene il corrispettivo del sogno
dell’età dell’oro e come esso nei
tempi antichi, svolge appunto la funzione di dare alla poesia una sorta di
orizzonte di riferimento. Dai primi romantici tedeschi, fra cui Goethe, a
Leopardi, pur nelle declinazioni molto differenti, questa sorta di linfa
originaria resta intatta, manifestandosi come forza dirompente: è un vitalismo
che produce rivolte spirituali, dando luogo a visioni variegate, dall’ottimismo
al pessimismo, dal religioso all’ateo, a comprova della natura composita del
movimento. Da notare che, come vedremo
occupandoci di specifiche opere letterarie, energia
e vitalismo appena evocate permeano
tanto il pensiero quanto il sentimento: da loro nascono rivolte contro il
sistema, la società, la cultura, che vedremo maturare all’inizio dell’ottocento
e sbocciare verso la metà, mentre precocemente si manifesta, come vedremo con
Werther, anche il sentore di una possibile malattia dello spirito, che
s’impadronisce del soggetto quando gli slanci iniziali non approdano ai
risultati desiderati, ovvero quasi sempre. In una fase aurorale, comunque, ad
esempio i protagonisti del primo movimento romantico, i tedeschi dello Sturm un Drang, concepiscono la poesia
come impeto d’azione, in armonia col
nome adottato, Tempesta e Impeto.
La scelta lessicale segnala un cambiamento radicale, rispetto al
neoclassicismo, ovvero l’uscita dal recinto
sacro (pur sempre un recinto) dell’accademia o dei salotti aristocratici e
la scelta di un nuovo territorio, il più vasto e smisurato possibile, anche il
più naturale possibile, per esprimere
una ricerca di assoluto e un superamento dei limiti che appare come
tema dominante dell’ispirazione. A questa tensione si associa, in alcuni casi,
un’idealizzazione del primitivo, già
presente in Rousseau, da intendersi come popolo
primitivo, per definizione libero,
selvaggio e in sé poetico. Anche
in Leopardi ritroviamo questa sorta di idealizzazione, come pure nei primi
romantici, e in lui riconosciamo un’altra componente peculiare del
romanticismo, in apparente contrasto con quella appena trattata: la malinconia,
il colore oscuro che tingeva secoli prima l’anima accidiosa di Petrarca nel suo
Secretum e che torna ora a essere
l’inchiostro preferito di tanti artisti. L’immaginazione è malinconica quando
il vigore dell’istinto vitale e naturale non riesce a ravvivarla, il che a
volte accade per via della storia individuale come di quella collettiva. D’altronde
l’istinto vitale naturale può anche affiancarsi alla malinconia e sconvolgere così
definitivamente la rigidità formale del settecento: la serenità, la classica compostezza non s’accordano con la poesia
che s’innalza verso il cielo o s’immerge nell’abisso. Omero, la Bibbia, Shakespeare, gli elisabettiani assurgono a
simboli, anche polemici, di una poesia che non teme la violenza e il disordine. E la natura,
prediletta dai poeti romantici, riflette perfettamente questa nuova direzione:
sono le scogliere del Baltico schiaffeggiate da gelide onde, le pianure immense
e variopinte, in pieno rigoglìo di
piante e di uccelli selvatici, dell’America, la Grecia delle isole bagnate dal
mare che vide nascere dalle sue onde Afrodite, i monti selvosi della Scozia.
Natura antica e vergine, che ha alimentato l’immaginazione di poeti vecchi e
nuovi: Omero, Ossian, Milton, Chénier, Chateaubriand.
In armonia o in
contrasto con questo spirito della natura
che è sentimento della natura, il
romanticismo è attraversato da svariati rivoli di sensibilità religiosa: in
alcuni casi già si presagisce la svolta decadente, di un cristianesimo oscuro e
venato di sadismo, ideale per la messinscena di atti atroci o di perversioni
(da Chateaubriand a de Maistre), in altri, come per noi principalmente in
Manzoni, si presenta come un’ideologia forte, in grado di veicolare messaggi
formativi per la società e di guidare il percorso della letteratura.
Un’attenzione a parte
merita anche il concetto di genio: per
i primi romantici l’uomo è una creatura partecipe del’infinito, e il genio non
si identifica certo con colui che mette ordine nelle cose: tende piuttosto a
dar loro fuoco per ricrearle. Per uno
scrittore come Balzac il genio-romanziere fa concorrenza direttamente a Dio.
L’iconografia romantica insiste: Byron, Shelley e Chateaubriand si fanno
ritrarre in mezzo alla natura tempestosa, capelli al vento e cravatta nera
svolazzante, nella postura dello sfidante e del profeta. Presto però l’immagine
si logora, e quando anche quieti borghesi ricorrono a questa ritrattistica si
capisce che la sorte del genio è segnata: sarà Baudelaire, a metà del secolo, a
stroncare il tipo dell’artista-genio come se l’immaginavano ormai solo i buoni
borghesi, modello del disordine, dell’ispirazione che si nutre di condotta
dissoluta: insomma del genio ridotto a banale ciarlatano.
Dato che inevitabilmente
le epoche vengono, da quelli che le vivono e da quelli che le ricotruiscono,
confrontate, non di rado contrapposte, e comunque sottoposte a un vaglio che
porta a riconoscere differenze più che continuità, è tra classicismo e
romanticismo che nasce un dibattito, al quale danno voce autori come Madame de
Staël, che rimprovera a Goethe
l’adorazione per il mondo classico, che per lei era anacronistica: la nuova
letteratura, la letteratura romantica venuta dal nord, a suo dire conviene di
più allo spirito di un popolo libero di quanto non sia per una letteratura
antica. Nei primi decenni dell’ottocento, però, la grande letteratura gravita ancora intorno al sud europeo, e Grecia e
Italia continuano a essere percepite come ideale patria comune, le cui rovine
(nel senso archeologico del termine) sono ancora oggetto di venerazione. Un mito che non solo stenta a morire,
ma che si prefigge anche di rinnovarsi, rispetto al neoclassicismo
settecentesco: così, gli dei della
Grecia di Schiller, ma anche i richiami all’antico presenti in Leopardi (più
che in Foscolo) non sono certo considerabili
espressioni di spirito reazionario e attardato. Schiller, ad esempio, oppone il politeismo pagano come religione
della libertà e dell’antico valore al monoteismo cristiano responsabile della
separazione, scrive lui, della Verità
dalla Bellezza.
Un ultimo
riferimento, col quale concludo l’excursus
sul romanticismo, alla Sehnsucht,
vocabolo tedesco di difficile traduzione, che tuttavia è importante avvicinarsi
a definire per la sua espressività concettuale. La nostalgia è dolore del
ritorno, sentimento quindi strettamente connesso con la percezione di una
distanza pressoché invalicabile rispetto al passato: anche se si riesce a
tornare, insegna l’esperienza di Ulisse che tocca il suolo della sua Itaca dopo
un’assenza di vent’anni, dieci di guerra e più di nove di vagabondaggi e
prigionie, non si riconosce subito la propria terra, la propria casa, tutto è
diventato estraneo, il tempo scava grandissimi solchi. La definizione di nostalgia deve precedere quella di sehnsucht,
che è una forma di struggimento sempre connesso
con la lontananza, ma riferito piuttosto a qualcosa che non si potrà mai avere,
a un oggetto di desiderio precluso; sehnsucht
è anelito all’inattingibile, desiderio allo stato puro, per questo venato
di malinconia; è, approssimandoci a una traduzione letterale, il male del desiderio, quello che però,
in uno di quei soprassalti che si trasformano in capriole, può anche diventare felice struggimento, come mirabilmente
esprime Leopardi al termine del suo idillio L’infinito,
col celebre ossimoro che suona il
naufragar m’è dolce. Desiderare di
desiderare, si capisce, è un anelito destinato a non finire mai, sicché la
sua parentela con la categoria inebriante dell’infinito è resa evidente sin dall’etimologia. Analogamente si
coglie quanto, pur nel distanziamento dall’antico, ci si riavvicini alla
matrice della poesia originaria, nonché alla matrice del metamorfismo, primo
fra tutti quello ovidiano. Il poeta augusteo, senza il quale interi canti dell’Inferno non esisterebbero, ha colto
forse per primo quanto di inimitabile la
natura abbia nelle sue intime fibre, e l’ha reso poesia. I versi latini delle Metamorfosi sono espressione di quella
quintessenza che si muove nella pianta, risplende nella luce, sorride nelle
creature appena nate o nelle anime innamorate. La poesia originaria che ha
trovato il logos, la parola, per
esprimersi.
GOETHE
Primogenito di Johann Caspar Goethe, giurisperito
e consigliere imperiale, e di Katharina Elisabeth Textor, Johann Wolfgang von
Goethe nasce a Francoforte sul Meno nel 1749. Riceve dapprima un’educazione
familiare, studiando insieme alla sorella di poco più giovane sotto la guida
del padre e di qualche maestro privato. Pur avendo sviluppato una vocazione per
le lettere e la filofia, per volontà paterna si iscrive alla facoltà di diritto di Lipsia
nel 1765. Trascorre qualche anno di intensa partecipazione alla vita della
città, incorre in qualche problema di salute ma si riprende, e parte per
Strasburgo nel 1775 per proseguire gli studi presso l’università e perfezionare
la sua conoscenza del francese. Nel 1771, tornato a Francoforte, ottiene il permesso
di esercitare la professione di avvocato, che abbandona dopo circa quattro
anni. Nel frattempo si dedica alla scrittura e inizia a seguire la nuova
corrente dello Sturm und Drang, che
prende il nome dall’omonimo dramma di Friedrich Maximilian Klinger. Consigliato
dal padre, si trasferisce nel 1772 nella cittadina di Wetzlar, e si iscrive al
tribunale come praticante. In questo periodo conosce la giovane che
probabilmente gli ispira il personaggio di Lotte nei Dolori del giovane Werther, così come probabilmente il personaggio
di Werther è ispirato a un suo amico, suicida per amore, di quel periodo. Nei
primi mesi del 1774 l’ispirazione detta a Goethe I dolori del giovane Werther, il cui impatto sulla società del
tempo è immediato: in breve tempo il testo valica i confini della Germania e
viene tradotto in tutte le lingue europee, contribuendo così al diffondersi
della sensibilità che cercheremo di approfondire nei suoi connotati salienti
leggendo e analizzando l’opera. Impossibile procedere con un dettagliato
resoconto della genesi delle numerosissime opere di Goethe, autore estremamente
prolifico, studioso dalle molteplici curiosità, viaggiatore e cultore di pittura e musica. Scelgo pertanto ancora
qualche evento e qualche opera che possano poi essere evocate e collegate al
momento dell’analisi del primo romanzo. Goethe viaggiatore, allora, per dare
conto di quello che viaggiare significa a quell’epoca, col vantaggio di poter
leggere considerazioni dello stesso autore, il quale non manca di redigere un diario di viaggio, Ricordi del viaggio in Italia 1786-’87, all’inizio dei quali si
legge che la partenza avviene come sotto un cogente impulso, una furia quasi,
che lo prende, a fine agosto, poco dopo
la festa di compleanno organizzata da suoi amici, e lo induce a salire, quasi di soppiatto, su una carrozza diretta a sud, prima tappa la
Baviera, poi, l’11 settembre, le prime città d’Italia: Bolzano e Trento.
Ho percorsa la città [Trento] la quale
è molto antica, ma che però possiede in alcune strade case nuove, di buona
costruzione. Nella chiesa havvi un dipinto, il quale rappresenta il concilio
ecumenico, intento ad ascoltare un discorso del generale dei gesuiti.
Avrei pure voluto sapere quanto avesse detto quegli all’assemblea. La chiesa di
quei padri porge bello aspetto, colle sue colonne di marmo rossiccio nella
facciata, e l’ingresso è preceduto da una tenda pesante per impedire l’accesso
alla polvere; la chiesa stessa poi è chiusa da una cancellata in ferro, la
quale consente spingere lo sguardo all’interno. Tutto era silenzioso,
tranquillo, imperocchè non si celebrano più in quella chiesa le funzioni del
culto, e la porta era aperta, unicamente perchè così si suole praticare in
tutte le chiese, all’ora del vespro.
Mentre io stavo esaminando l’architettura, la quale è
simile a quella di tutte le chiese dello stesso ordine, entrò un vecchio, togliendosi la berretta nera che aveva in
testa. Tutti i suoi abiti neri, vecchi, logori, rivelavano appartenere desso al
clero; egli s’inginocchiò davanti alla cancellata, e dopo fatta una breve
preghiera, si alzò di nuovo in piedi, e nel girarsi addietro disse a mezza
voce, quasi parlando a sè stesso «Ora che hanno cacciati i gesuiti, avrebbero
per lo meno dovuto pagare loro quanto ha loro costato la chiesa. Io so pure al
pari di tanti altri, quanto abbiano loro costato non solo la chiesa, ma ancora
il seminario.» Intanto era ricaduta dietro di lui la tenda che io aveva tenuta
alzata, standomene in silenzio; egli si era fermato sull’ultimo gradino in
alto, e diceva «Non è l’imperatore che abbia ciò fatto; lo volle il Papa.» E
volgendosi verso la strada, senza punto badare a me, disse «Prima gli
Spagnuoli; dopo noi; quindi i Francesi. Il sangue di Abele grida vendetta,
contro Caino suo fratello» e scendendo la gradinata si avviò per la strada,
continuando a parlare per tal guisa, con sè stesso. Probabilmente era tale
mantenuto dai gesuiti, il quale, dopo l’immensa rovina dell’ordine sarà
impazzato, e che verrà ora ogni giorno nella chiesa deserta, per cercarvi gli
antichi abitatori, e dopo una breve preghiera, scagliare maledizioni ai
persecutori di quelli.[35]
Tanto per dare
un’idea dello spirito di questi appunti di viaggio, riporto ancora due passaggi
del testo, uno relativo a Venezia, il secondo a Roma. Il resto lascio
all’eventuale curiosità dei singoli.
Era scritto nel libro del destino, alla pagina a me
dedicata, che nel 1786 il 28 settembre a sera, e verso le cinque, secondo il
nostro modo di contare le ore, sboccando dalla Brenta nella laguna, io potessi
vedere Venezia per la prima volta, e poco dopo porre il piede in questa città
meravigliosa, formata tutta d’isole, e visitare questa repubblica di castori!
La cosa sta propriamente così, e Venezia, grazie a Dio, non è più per me una
parola vana, un nome vuoto, il quale mi ha tormentato le tante volte col suo
suono fatale! [...] Di Venezia si è di già narrato e scritto oramai tanto,
che io non intendo punto farne una descrizione. Narrerò unicamente quanto mi
avvenne, le cose le quali mi colpirono. E la prima fu qui ancora il popolo,
questa folla immensa, la quale, non spontaneamente, ma per necessità fu
condotta a vivere diversamente dagli altri popoli. Non fu per propria elezione
che i primi abitatori si stabilirono su queste isole, nè che vennero altri
unirsi ai primi; la necessità fu quella la quale li spinse a cercare sicurezza
in una località infelice che col tempo seppero rendere felicissima, e che li
rese avveduti allorquando tutte le contrade settentrionali trovavansi immerse
tuttora nelle tenebre. D’allora in poi, le case sorsero le une a fianco alle
altre, le paludi, le sabbie furono rese ferme, e stabili per mezzo delle
pietre, e le case cercando aria, nè più nè meno che le piante le quali crescono
chiuse in spazio ristretto, cercarono a crescere in altezza, quanto loro faceva
difetto in larghezza. Facendo fin da principio la massima economia del terreno,
si lasciò alle strade quel tanto di ampiezza appena, che si richiede per
separare le file delle case le une dalle altre, e per consentire il passo ad
una persona. Nel resto l’acqua servì loro di strade, di piazze, di passeggiate.
Il Veneziano pertanto dovette diventare uomo di nuova specie, nella stessa
guisa che Venezia sorge città tale, da non potersi paragonare a verun altra. Il
canale grande che si svolge a forma di spirale, non ha strada al mondo che lo
agguagli; la piazza di S. Marco non ha altro che le si possa porre a confronto.
E d’uopo far menzione poi dello spazio acqueo che si stende a forma di mezza
luna, al di quà di Venezia propriamente detta. A sinistra si scorge l’isola di
S. Giorgio maggiore, alquanto più in là a diritta la Giudecca ed il suo canale;
più in là, e sempre a diritta la dogana, e l’ingresso del canal grande, dove
sorgono, l’una di fianco all’altra, due chiese grandiose ricche di marmi. Sono
questi, accennati con poche parole, i principali oggetti i quali si
presentarono al nostro sguardo, allorquando sboccammo fra le due colonne sulla
piazza di S. Marco.Tutte queste cose furono disegnate ed incise le tante e le
tante volte, che sarà facile a miei amici il rappresentarsele. Dopo cenato mi
affrettai di procacciarmi un impressione complessiva della città, e mi lanciai,
solo, senza guida, tenendo presenti soltanto le stelle, in quel laberinto della
città, la quale tuttochè frastagliata in ogni punto di canali, e canaletti,
trovasi però tutta riunita da ponti, e ponticelli. Non è possibile imaginarsi,
senza averla vista, la ristrettezza di queste strade, l’aderenza delle case le
une alle altre. Generalmente, stendendo le braccia si può misurare la larghezza
delle prime, e per talune bastano i gomiti, se si appoggiano le mani ai
fianchi; si trovano pure per dir vero strade più ampie, e quà e là piccole
piazze, ma in complesso tutto si deve dire angusto, ristretto,Trovai facilmente
il canale grande, ed il ponte principale, quello di Rialto,formato di un arco
solo in marmo bianco. Dall’alto di quello la vista è stupenda; si vede il
canale solcato di barche, le quali recano dalla terra ferma i prodotti
occorrenti alla vita, e che per la maggior parte si fermano e sbarcano il loro
carico in questo punto, e fra mezzo alle barche poi, una flottiglia di gondole;
ed oggi specialmente che era giorno di festa, quella di S. Michele, lo
spettacolo, la vista erano meravigliose, se non che, per poterne dare un’idea
abbastanza esatta, è d’uopo soggiungere ancora alcuni particolari.Le due parti
principali di Venezia, separate dal canal grande, non sono riunite da altro
ponte, all’infuori di quello unico di Rialto, però si provvide alle
comunicazioni fra l’una e l’altra parte della città, per mezzo di barche
pubbliche, le quali attraversano di continuo il canale, in certi punti
determinati. Ed oggi, tutta quella folla pulitamente vestita, le donne con un
velo nero sul capo, faceva bellissima vista, nell’avviarsi alla chiesa dove si
celebrava la festa dell’Arcangelo. Scesi dal ponte, e mi portai in uno di quei
punti di passaggio, per osservare con più comodo le persone le quali
attraversavano il canale, e viddi colà bellissime figure, e
fisionomie.Allorquando mi trovai stanco, presi posto in una gondola, ed
abbandonando le stradelle anguste, mi avviai per la parte a settentrione del
canal grande, facendomi portare all’isola di S. Chiara, nelle lagune, nel
canale della Giudecca, e per ultimo alla piazza di S. Marco, ed allora mi
sentii io pure a mia volta compadrone del mare adriatico, al pari di qualunque
Veneziano sdraiato nella sua gondola. Mi ricordai allora del mio buon padre, il
quale non la finiva tanto facilmente, allorquando prendeva a discorrere di
questa città. Non ne farò io oramai altrettanto? Tutte le cose le quali mi
circondano sono degne di rispetto, sono opera pregevole delle forze di molte
generazioni di uomini; sono monumento stupendo, non già di un principe, ma
bensì di un popolo. Ed ora, quantunque la laguna si vadi poco a poco
interrando, quantunque sorgano vapori mefitici dalle paludi, tuttochè sia decaduto
il commercio, e venuta meno la grande possanza della Repubblica, sono pur
sempre meritevoli questa ed i suoi ordinamenti, dell’attenzione di un
osservatore. Dessa soggiacque all’influenza del tempo, a cui nessuna cosa
sfugge, di quante sono al mondo.
A Roma,invece, giunge il primo novembre.
Sì, io sono
finalmente arrivato in questa capitale del mondo. Se io l’avessi potuta
visitare quindici anni sono, in buona Compagnia, e sotto la direzione di un
uomo intelligente, mi terrei propriamente felice. Ma dovendola visitare da
solo, vederla con i miei propri occhi, è meglio che io abbia aspettato più
tardi.
[...] Mi trovo qui da sette giorni, e mi
vado formando mano a mano, un’idea generale di questa città. Girando continuamente, vo acquistando cognizione della
pianta di Roma nuova e di Roma antica; contemplo le rovine,gli edifici, visito
ora una villa, ora un altra; mi fermo a lungo davanti alle rarità le più
notevoli; cammino su e giù, sempre cogli occhi aperti, guardando ogni cosa,
imperocchè soltanto a Roma è possibile
prepararsi a conoscere Roma. Lasciatemi però dire essere ufficio triste ed
ingrato, quello di cavar fuori Roma antica dalla Roma moderna; ma è pure forza
compierlo, nella speranza di rinvenirvi grande soddisfazione. Trovansi traccie
di splendidezza e di distruzione, le quali superano ogni mia imaginazione.
Quanto fu rispettato dai barbari, venne manomesso dagli architetti moderni. Quando
si considera l’esistenza di questa città, la quale risale a due mille anni ed
oltre; quando si pon mente a tutte le vicissitudini, e tutte le trasformazioni
a cui andò soggetta nel corso dei secoli, e che si pensa sorgere pure dessa
sempre sullo stesso suolo, sugli stessi colli; che si scorgono ancora le stesse
colonne, gli stessi muri; che nel popolo si riconoscono tuttora traccie del
carattere antico, si finisce per diventare in certo modo contemporaneo delle
varie epoche, delle diverse vicende, per comprendere quanto a primo aspetto
pareva oscurissimo, vale a dire, in qual modo una Roma sia succeduta all’altra;
e non solo quella moderna all’antica, ma quelle ancora le quali si formarono, e
si succedettero, nelle epoche intermedie. Ora io non ho fatto altro che cercare
a scoprire i punti tuttora nascosti in parte, alla quale cosa mirabilmente
giovano i lavori preparatori fatti fin qui; imperocchè, a partire dal secolo XV
ai giorni nostri, valenti artisti ed erudit dedicarono a quegli studi tutta intera la loro
vita. Buona parte di questo lavoro poi si compie agevolmente, unicamente nel
percorrere Roma, per recarsi a visitare le cose le più notevoli; imperocchè
negli altri luoghi è d’uopo ricercare queste, e qui, in tanta abbondanza, e
cotanto vicine le une alle altre, si offrono quasi spontanee allo sguardo. Sia
che si stia fermo, sia che si cammini, si vedono dovunque un quadro, una vista
di ogni genere, di ogni specie; palazzi, e rovine, giardini e deserti, strade
ampie e strade strette, casipole, stalle, archi di trionfi e colonne, e spesse
volte tutte queste cose addossate cotanto le une alle altre, che si potrebbero
disegnare sopra uno stesso foglio di carta. Converrebbe avere cento mani, per
poter descrivere tutto. A che cosa può servire una penna? Tanto più se si pensa
che si resta stanchi, quasi spossati, dal continuo vedere, ed ammirare.
Poi il Goethe che contribuisce a un mito: precisamente quello di Faust[36], nell’omonimo
dramma, la cui composizione dura letteralmente una vita, dato che l’originario,
Urfaust risalirebbe al 1772, mentre
l’edizione finale viene completata da Goethe poco prima di morire, e pubblicata
postuma, nel 1832. Il personaggio di Faust nasce nel XVI. secolo: compare in un anonimo Volksbuch,
pubblicato a Francoforte nel 1587 presso
l’editore Spieß. Si tratta di un erudito che stringe un patto con il diavolo
per ottenere conoscenza e potere di là
dai limiti posti dalle facoltà umane. Dal medioevo all’età moderna, il
personaggio inizia a delinearsi, soprattutto in ambito alchimistico, con riferimento al biblico Simon Mago[37] il quale (Atti
degli apostoli, 8,924) sarebbe stato solito sbalordire gli abitanti di
Samaria con le sue arti magiche. Battezzato dall’apostolo Filippo, non abbandona
del tutto le sue pratiche, offrendosi di comprare il diritto di far discendere
lo Spirito Santo imponendo le mani. Maledetto da Pietro, Simon Mago chiede di essere perdonato. La tradizione vuole che in seguito
sia tornato alle sue pratiche magiche e abbia contribuito a promuovere l’eresia
gnostica. Particolarmente interessante, e degno di essere approfondito, il tema
della connessione fra forza demoniaca e scienza
(intesa appunto come scienza magica o
alchemica), che rappresenta il
demonio come un ente in grado di dare
agli esseri umani delle prerogative (sottratte al divino) che lo rendono potente (quasi onnipotente) ma pagando un prezzo spirituale, un tributo che
coincide con la dannazione eterna,
ovvero con la perdita di un bene assoluto anche se non sempre precisato nelle
sue peculiari caratteristiche. Il tema di partenza è quello della scelta fra bene e male,
ma presto i contorni si sfumano, al punto che nel momento in cui la tematica è
colta da Goethe e resa nella forma del suo dramma tragico, le linee di
separazione sono decisamente complesse da stabilire. Mi limito qui a suggerire
che quella proposta da Goethe con la vicenda di Faust sia, tra l’altro, la
sfida della manipolazione demiurgica della materia, quella che gli alchimisti
conducono all’estremo limite della ricerca della pietra filosofale ovvero dell’assoluto,
non senza condire la raffigurazione delle forze in gioco (semplificando,
materiali e spirituali) di una permanente tentazione del carnascialesco, lo spirito giocoso che capovolge tutto nel momento
più (apparentemente) inopportuno, per lasciare poi inopinatamente aperte di
nuovo tutte le possibilità. Un breve cenno alla trama del dramma può
consentirmi di suffragare questo limitato suggerimento interpretativo. Due prologhi precedono l’inizio: il primo,
metateatrale, ospita la discussione fra poeta, direttore di scena e attore in
merito a cosa si debba privilegiare, se l’arte
o il pubblico; il secondo si svolge
nelle regioni celesti e propone il punto di partenza della tragedia: la
scommessa che Satana propone a Dio
(reminiscenza di quella biblica che coinvolge Giobbe) in merito
all’irreprensibilità di un soggetto, Faust medesimo, medico e teologo, che ha
sempre obbedito alle leggi divine e che Satana è sicuro di riuscire a sedurre.
Dio non accetta la scommessa, ma permette a Satana di tormentare Faust, dal
momento che è certo sia destinato alla
salvezza eterna. Faust conduce, all’inizio del dramma, un’esistenza di studio
che non lo soddisfa: non riesce infatti a svelare quelli che gli paiono i segreti più profondi della natura, per
penetrare i quali si dedica alle arti magiche, con cui evoca lo spirito elementare della Terra
(ovvero Dio che opera attraverso la natura), ma il tentativo si risolve
nell’ennesimo, clamoroso insuccesso e
Faust decide di suicidarsi, ma, un attimo prima di bere una pozione avvelenata,
ode le campane che annunciano la Pasqua e rinsavisce: rilegge il Prologo
del Vangelo di Giovanni (In principio era il Verbo) e intuisce
che la traduzione migliore sarebbe quella che sostituisce atto a verbo; in seguito,
capisce che il suo cane è probabilmente posseduto da uno spirito maligno, che si rivela essere Mefistofele stesso. Faust,
che non teme il soprannaturale, cerca di trattenere il diavolo, che invece
vorrebbe allontanarsi dalla stanza, ma è bloccato da un pentagramma divino
sulla soglia di casa che egli, in quanto creatura demoniaca, non può spezzare. Uscito
di casa solo grazie all’aiuto di un topo, Mefistofele torna da Faust e gli
propone un patto: fargli conoscere le bellezze del mondo e della vita rispetto
all’esistenza di insuccessi e insoddisfazioni sperimentata fino a quel momento dal
dotto protagonista. Faust, che dapprima è titubante, accetta solo quando gli
viene proposto un patto di sangue, la cui posta è la sua stessa anima. Infatti
Mefistofele si propone di esaudire i suoi desideri grazie alla magia: se
riuscirà a far sperimentare a Faust un godimento tale da fargli pronunciare la
frase Dirò all’attimo: sei così bello,
fermati!, avrà l’esclusiva sul suo spirito. Faust, peraltro, non teme
l’oltretomba e, anzi, ha la ferma convinzione che nulla potrà più dargli gioia,
una volta terminata la vita terrena, quindi accetta di partire con il diavolo
alla ricerca dei più grandi piaceri che il mondo ha da offrire. Le successive
vicende, avventurose e a tratti fiabesche, conducono fino alla richiesta da
parte di Faust di far innamorare di lui
la giovane Margherita, una donna innocente e pia di cui si è invaghito e da cui
è stato respinto, benché a questo punto della storia Mefistofele l’abbia reso
giovane, bello e nobile. Grazie agli espedienti escogitati da Mefistofele,
Faust riesce a sedurre Margherita, ma la lo relazione volge presto al tragico e
Margherita viene condannata a morte per infanticidio, mentre Mefistofele
coinvolge Faust in un sabba infernale
(La notte di Valpurga) e, alla fine
di questa parte, Margherita in carcere, per avere invocato il perdono di Dio,
viene salvata dagli angeli e portata in cielo. La seconda parte è ricchissima
di riferimenti alla mitologia classica ed è inzialmente ambientata presso la
corte imperiale. L’evento principale di questa parte è rappresentanto
dall’innamoramento di Faust per Elena di Troia, evocata dagli Inferi, seguito da un secondo sabba, durante il quale
assistono ad una processione di creature e mostri mitologici. Faust, dopo aver
salvato Elena da un sacrificio rituale, ha da lei un figlio, Euforione, che
però muore prematuramente come Icaro nell’omonimo mito; Elena si ritira
nuovamente negli Inferi con l’anima del figlio, abbandonando Faust. Il
protagonista e Mefistofele aiutano poi l’imperatore in una guerra contro un
usurpatore e Faust riceve in cambio della vittoria un feudo costiero. Ormai
vecchio e stanco, si ritira nel suo nuovo possedimento, da cui fa espellere due
anziani (dal nome, evocativo di Ovidio, di Filemone e Bauci) causandone infine la morte. Il demone dell’Angoscia s’impadronisce dello
spirito del protagonista, che rimpiange la sua vita sprecata in vane ricerche e
nel commercio con Mefistofele, e che vuole dedicarsi a un’attività utile per la
collettività, bonificando una palude dei suoi possedimenti. Durante i lavori, mentre
immagina un’umanità del futuro veramente libera, Faust pronuncia la frase del
patto, Dirò all’attimo: sei così bello,
fermati!, e Mefistofele pone fine alla sua vita per poter portare via la
sua anima, ma mentre sta per condurlo
all’Inferno, giungono degli angeli che, per intercessione di Margherita e in
considerazione del fatto che si sia sempre dedicato all’assoluto, lo portano in
cielo. Il poema si chiude con la celebrazione dell’eterno femminino, e
dell’Amore come forza creatrice e motrice dell’intero universo.
Potete rendervi conto, da questa sintesi, quale variegata materia sia
contenuta in questo testo, che non a caso viene portato a compimento a pochi
mesi dalla morte, dopo essere stato iniziato in gioventù. Un contenuto che si
può, senza timore di essere approssimativi, rilevare anche solo dalla sintesi e
ricondurre subito al romanzo del quale abbiamo intenzione di occuparci
prioritariamente, è quella ricerca
dell’assoluto alla quale ho fatto più volte riferimento. Il termine stesso,
assoluto, è utile da definire almeno provvisoriamente. Assoluto è, per via etimologica, quanto si situa in un territorio libero da ogni legame (ab unito a solvo, ovvero sciolgo da).
A parte l’uso grammaticale, nella lingua latina per definire il costrutto
sintattico dell’ablativo assoluto ad esempio, il termine viene utilizzato in
filosofia e teologia per indicare quanto si situi a un livello trascendente, privo di relazioni con la
dimensione finita, che non può in alcun modo condizionarlo, quindi
inconoscibile nella sua natura, sovratemporale e infinito. Nel tentativo di
cogliere l’assoluto nella dimensione teologica,
il centro di riferimento diviene il soggetto, e implicitamente la realtà
assoluta è posta come spirituale, non sostanza ma spirito: Dio è spirito, ma è concepito come trascendente, essere eterno e
perfetto, sostanza o natura infinita. Come si legge in Tommaso d’Aquino, Dio è absolutum secundum quod in se est. Questo
modo di rendere l’assoluto sostanza
non elude il problema della conoscenza, anzi, lo ripropone negli stessi termini
in cui si poneva nell’aristotelismo. Una sostanza inconoscibile nella sua
essenza è pertanto, ritornando alla questione della ricerca dell’assoluto, una sfida permanente, che gli alchimisti
denominano grande opera, ossia opus magnum alla latina, rendendo empirica, in particolare chimica, la ricerca spirituale. Il nesso con il nostro discorso letterario è
rappresentato dal fatto che in tanti soggetti, a cominciare da Werther, scaturiti
dall’immaginazione romantica, si manifesta nell’interiorità una condizione di
permanente insoddisfazione che, se non conduce all’autodistruzione, dà luogo a
un vitalismo in grado di esprimersi a vari livelli dell’esistenza. Di qui, nel
romanzo di Werther, la sensibilità acuita nei confronti della natura, dell’arte, dell’amore, e, sul
fronte opposto, il disgusto nei confronti della civiltà, dell’artefazione,
delle convenzioni di qualsiasi
genere. Si predispone, come in un crogiuolo, l’eliminazione di sostanze nocive
alla sensibilità che definiamo romantica,
la maggior parte delle quali è radicata in tradizioni percepite ormai come
usurate, in quanto espressione di una società obsolescente ma ancora rispettata
e in possesso di ricchezze e poteri. La contrapposizione, nel romanzo, fra
Werther e Albert si gioca anche su questo piano: il primo rappresenta lo
spirito ribelle, anticonvenzionale, romantico,
mentre il secondo la rispettabile e
rispettata coscienza borghese, che
tiene a graduali e controllati cambiamenti, e rifugge ogni tipo di eccesso,
stabilendo soglie molto basse per la definizione di quest’ultimo. Riporto, per
suffragare questa affermazione, dalla quale potrà poi svilupparsi un’analisi
ulteriore, una citazione dal testo. Si tratta di una lettera della prima parte
dei Dolori del giovane Werther, datata 12 agosto, con la quale concludo, per
ora, la sezione dedicata a Goethe.
"Questo non c'entra, replicò Alberto, perché un uomo
che è in balìa delle passioni perde ogni forza di ragione, ed è considerato
come in preda all'ebbrezza o al delirio". "Oh le persone
ragionevoli!, esclamai sorridendo. Passione! Ebbrezza! Delirio! Voi siete così
impassibili, così estranei a tutto questo, voi uomini per bene! Rimproverate il
bevitore, condannate l'insensato, passate dinanzi a loro come il sacrificatore
e ringraziate Dio, come il fariseo, perché non vi ha fatto simili a loro! Più
di una volta io sono stato ebbro, le mie passioni non sono lontane dal delirio,
e di queste due cose io non mi pento perché ho imparato a capire che tutti gli
uomini straordinari che hanno compiuto qualcosa di grande, e che pareva
impossibile, sono stati in ogni tempo ritenuti
ebbri o pazzi. Ma anche nella vita comune, è insopportabile sentir dire
ogni volta che qualcuno sta per compiere un'azione libera, nobile, inattesa:
quell'uomo è ubriaco, è pazzo! Vergognatevi, uomini sobri e savi!"
"Ecco le tue solite fantasie, disse Alberto, tu esageri tutto, e in questo
caso hai per lo meno il torto di paragonare il suicidio di cui ora è questione,
con delle grandi gesta, mentre esso non può esser considerato che come una
debolezza, poiché certo è più facile morire che sopportare con fermezza una
vita dolorosa". Ero sul punto di interrompere il discorso, perché niente
mi mette così fuori dei gangheri come vedere qualcuno armato di insignificanti
luoghi comuni mentre io parlo con tutto il cuore. Pure mi contenni, perché
molte volte ho sentito addurre quell'argomento e me ne sono indignato: risposi
dunque alquanto vivamente: "Tu lo chiami una debolezza? Ti prego, non
lasciarti ingannare dall'apparenza. Puoi chiamare debole un popolo che geme
sotto il giogo di un tiranno se infine, fremendo, spezza le sue catene? Un uomo
che nel terrore di vedere la sua casa in preda alle fiamme sente le sue forze
centuplicate, e solleva facilmente dei pesi che a mente calma potrebbe appena
muovere? e uno che nel calore dell'offesa ne affronta sei, e li vince, tu lo
chiami debole? E, mio caro, se lo SFORZO costituisce la forza, per ché lo
sforzo supremo dovrebbe essere il contrario?". Alberto mi guardò e disse:
"Non te ne avere a male, ma gli esempi che tu porti non hanno nulla a
vedere col nostro discorso". "Può darsi, risposi, già più volte mi
hanno detto che il mio modo di ragionare è spesso privo di logica. Vediamo se
possiamo in altro modo figurarci quale coraggio deve avere un uomo che si
decide a gettare il fardello della vita, che è generalmente gradito, perché
solo in quanto noi sentiamo una cosa, possiamo parlarne con giusto criterio. La
natura umana, continuai dunque, ha i suoi limiti: essa può sopportare la gioia,
la sofferenza, il dolore fino a un certo punto, e soccombe se questo è
oltrepassato. Non è questione di stabilire se un uomo è debole o forte, ma di
vedere se egli può sopportare la sofferenza che gli è imposta, sia morale che
fisica; e a me pare tanto strano dire che un uomo è vile perché si toglie la
vita, come troverei assurdo dire che è tale perché muore di febbre
maligna". "Che paradosso!" esclamò Alberto. "Non tanto
quanto tu pensi, ribattei. Ammetterai che noi chiamiamo mortale una malattia la
quale assale la nostra costituzione naturale in modo che le sue forze sono in
parte distrutte e in parte sminuite nella loro attività: sicché essa non può in
alcun modo aiutarci né riattivare, per mezzo di alcuna risoluzione, il corso
della vita. Ebbene, amico mio, applichiamo questo allo spirito. Vedi quante
impressioni agiscono sull'uomo nella sua limitata sfera, quante idee penetrano
in lui, finché una crescente passione non gli toglie ogni serena forza di
pensiero e lo trascina alla sua perdita. Invano l'uomo libero da ogni cura e in
possesso della sua ragione lo guarda con pietà, invano cerca di convincerlo con
la persuasione. È come un uomo sano che pur stando al letto di un infermo non
può infondergli la minima parte delle sue forze". Ma per Alberto queste
erano idee troppo generali. Gli raccontai allora di una fanciulla che da poco
tempo era stata trovata morta annegata, e ripetei la sua storia. Era una buona
giovane creatura, cresciuta nell'angusta cerchia delle occupazioni casalinghe,
nel lavoro di tutta la settimana, e che non aveva altra prospettiva ed altro
piacere oltre quello di andare a volte la domenica, con le sue compagne, a
passeggiare intorno alla città, abbellita da qualche ornamento messo insieme a
poco a poco; di ballare forse una volta nelle feste solenni e di chiacchierare
qualche ora da una vicina con vivacità ed interesse a proposito di una disputa
o di una maldicenza. L'ardore della sua giovinezza le fa provare infine degli
intimi desideri accesi dalle lusinghe degli uomini. Le sue antiche gioie le
sembrano sempre più insipide, e infine incontra un uomo verso il quale è
irresistibilmente spinta da un sentimento sconosciuto e su cui posano tutte le
sue speranze; dimentica il mondo intero, non ode, non vede, non sente che lui,
non aspira che a lui, l'Unico. E poiché non è corrotta dai vuoti piaceri di
un'incostante vanità, il suo desiderio va dritto allo scopo, vuole essere di
lui, vuole in un eterno legame raggiungere tutta la felicità che le manca e
godere tutte le gioie alle quali aspira. Ripetute promesse, che coronano tutte
le sue speranze, ardite carezze che accendono il suo desiderio, dominano tutta
la sua anima; lei è in preda a un oscuro sentimento che le fa pregustare ogni
gioia, si esalta al massimo grado, stende infine le braccia per cingere
l'oggetto dei suoi desideri... e il suo amato la abbandona. Lei si stupisce e,
come insensata, le pare di essere davanti a un abisso: tutto è tenebre intorno
a lei; non ha nessun avvenire, nessun conforto, nessuna speranza, perché l'ha
lasciata colui nel quale si sentiva vivere. Non vede il vasto mondo che si
stende davanti a lei, né i molti che potrebbero consolarla della perdita
subìta; si sente sola, abbandonata da tutti al mondo, e cieca, oppressa
nell'angustia dell'orribile miseria del suo cuore, si precipita per distruggere
tutti i suoi tormenti in una morte annientatrice. Vedi, Alberto, è questa la
storia di molte persone! e non ti pare proprio lo stesso caso di una malattia?
La natura non trova nessuna via d'uscita dal labirinto delle forze turbate e
contrarie, e l'uomo deve morire. Guai a colui che potrà dire, vedendo un simile
evento: che pazza! se avesse aspettato, se avesse lasciato agire il tempo, la
sua disperazione si sarebbe placata, qualche altro si sarebbe trovato per
consolarla! Sarebbe lo stesso che dire: quel pazzo, è morto di febbre! se
avesse aspettato finché le forze gli fossero ritornate, i succhi vitali
purificati, e calmato il tumulto del suo sangue! Egli vivrebbe ancora oggi e
tutto sarebbe andato bene!". Alberto, a cui il paragone non pareva
appropriato, mosse ancora qualche obiezione; e fra l'altro disse che io avevo
parlato di una semplice giovinetta, ma che egli non capiva come si sarebbe
potuto scusare un uomo di criterio, di mente non così limitata, e che sa
cogliere un maggior numero di rapporti. "Amico mio, esclamai, l'uomo è
uomo, e quel poco d'intelligenza che egli può avere serve poco o niente quando
arde la passione e l'essere umano è spinto verso i confini della sua forza.
Tanto più... Ma ne parleremo un'altra volta" dissi, e presi il cappello...
Il mio cuore era gonfio e ci lasciammo senza esserci compresi. Ma del resto in
questo mondo è difficile che gli uomini si comprendano.
FOSCOLO
Come si determini il
fato di un essere umano è di sicuro uno dei rovelli del pensiero, e quanto
abbia nutrito di sé le letterature vi è chiaro da quando ne abbiamo inaugurato
lo studio. In certi casi la scrittura del fato sembra provvista però di una sua
eloquenza, ed è ciò che si può ravvisare nel caso di Foscolo, a partire dalla
nascita a Zante, nel 1778. Zante, Zacinto,
è un’isola della Grecia che, per iniziare subito a usare la penna del
poeta in un suo celebre sonetto[38], con
le sue acque fatali cantate da
Omero diede i natali alla sorridente vergine
Venere ben prima che a lui. Il
destino di Foscolo, che compone il sonetto al quale mi sono appena riferita nel
1802, è in effetti un po’ delineato da quelle sacre sponde, per quanto vi si sente risuonare d’una storia di
lontananza, d’esilio, di nostalgia, di separazione, che rende fratelli l’antico
Ulisse e lo scrittore al contempo neoclassico e preromantico che iniziamo a
conoscere così, per via d’un misurato e dolente lamento sulla patria perduta,
per sempre. In effetti la perdita, e conseguente nostalgia, di Zacinto è un
evento simbolico importante nella sua vita: vi si lega una grande illusione giovanile, destinata a velocissima estinzione e a
grandi frutti letterari. Si tratta dell’illusione, condivisa latamente in
questo periodo, che Napoleone, l’imperatore,
intendesse davvero portare libertà nei
territori in cui si è momentaneamente estesa la conquista francese. Il
triplice motto, ingannevole nella sua essenza, della rivoluzione francese aveva
infatti infiammato un certo numero di spiriti, e Foscolo scrive a celebrazione
di tale sentimento un’ode A Bonaparte
liberatore nel 1797, cui si
accompagna, nello stesso anno, la
rappresentazione di Tieste, tragedia
di spiriti alfieriani, veementemente antitirannici. Nello stesso anno però
sopraggiunge la delusione, prodotta dal trattato di Campoformio, dalla cui
formulazione si evinceva quanto Napoleone fosse nella sostanza identico ai
sovrani dell’ancien régime. Sempre meno giacobino, Foscolo conduce
comunque un’intensa attività politica, militare, letteraria e amorosa: elencando un po’ alla
rinfusa, frequenta Parini e vari poeti neoclassici, tra cui Vincenzo Monti,
combatte contro gli Austro-Russi, partecipa alla difesa di Genova assediata,
dove viene ferito (1800), dal 1804 al
1806 è in Francia, scontento e
amareggiato, come ufficiale della divisione italiana che avrebbe dovuto
partecipare all'invasione dell'Inghilterra progettata da Napoleone. Alla vita
sentimentale occorre senz’altro un elenco a parte: s'innamora via via, in
questi e negli anni successivi, di Teresa Pikler, moglie di Vincenzo Monti, di
Isabella Roncioni, Antonietta Fagnani Arese (l'amica risanata di una celebre ode), l'inglese Fanny Emerytt (dalla
quale ha una figlia,Floriana), Marzia Martinengo, Maddalena Bignami, Quirina
Mocenni Magiotti (la donna gentile,
di dantesca memoria), che lo conforta e soccorre durante l’esilio. Quest’ultimo,
nella forma di esilio volontario ha
inizio nel 1813, ed è la conseguenza del suo rifiuto di giurare fedeltà, in
veste di ufficiale, agli Austriaci, riappropriatisi del potere dopo la
parentesi napoleonica. Dopo un breve periodo
in Svizzera, passa a Londra, dove per qualche anno ottiene grandi guadagni per
i suoi lavori letterarî e riesce a condurre una vita agiata; ritrova anche la
figlia naturale Floriana, con cui vive fino alla morte. Il periodo londinese è
caratterizzato da un intenso attivismo: si dedica al poemetto mitologico e
neoclassico Le Grazie, alla
traduzione dell'Iliade, ma
soprattutto a saggi di carattere
storico-filologico-critico, tra cui lo scritto Della servitù d'Italia, e i
saggi critici su Tasso, Boccaccio, Petrarca, Dante. Il poeta si spegne,
assistito da pochi amici, nel 1827 a Turnham Green nei pressi di Londra, e
viene seppellito nel cimitero di Chiswick, da cui nel 1871 le ceneri sono trasportate nella
chiesa di S. Croce a Firenze.
Già dalla biografia è
possibile evincere che Foscolo sia un poeta di
transizione fra neoclassicismo e romanticismo: alla prima della due
ispirazioni si possono con certezza far risalire le odi A Luigia Pallavicini caduta da cavallo e All'amica risanata, e il poemetto, rimasto incompiuto, Le Grazie; alla seconda le
Ultime lettere di Jacopo Ortis, i
dodici sonetti, il carme Dei Sepolcri.
Sarebbe tuttavia riduttivo ricondurre uno scrittore così poliedrico e prolifico
a queste due sole direttrici. Ne cito pertanto solo una terza, che si manifesta
in un’opera di traduzione dall’inglese alla quale Foscolo si dedica nel periodo
londinese: si tratta del Sentimental
Journey di Sterne, che il poeta presenta preceduto da una Notizia intorno a Didimo Chierico¸ovvero
il nom de plume con cui firma la
traduzione medesima, che gli offre il destro di creare una sorta di suo alter ego, potrebbe essere (alcuni
critici lo hanno suggerito) una sorta di Jacopo
Ortis sopravvissuto al suicidio, o meglio, che non si è suicidato malgré tout ed è approdato a una sorta
di sano disincanto. Lascio, come
altre volte, alla curiosità di qualcuno l’approfondimento di questa
interessante terza direttrice
esistenziale di Foscolo, e mi occupo del componimento dei Sepolcri e del romanzo Ultime lettere di Jacopo Ortis.
Carme, in
endecasillabi sciolti, è la definizione data da Foscolo al primo dei due, che è anche, a tutti gli effetti, un’epistola
poetica rivolta all’amico Ippolito Pindemonte, a seguito di una discussione
avuta con lui a Venezia nell’aprile 1806 in merito all’editto di Saint-Cloud,
promulgato da Napoleone nel 1804. Tra i dettami previsti, quello di collocare le
sepolture fuori dalle città e di renderle il più possibile uguali, con
l’eccezione di qualche personaggio particolarmente meritevole di onore, sulla
cui tomba, per scelta di una commisssione, si sarebbe potuto incidere un
epitaffio. La discussione aveva visto Pindemonte intento a sostenere
l’importanza della sepoltura individuale, in nome della sua visione cristiana,
e Foscolo, in onore di tesi materialiste, negarla. Il Carme, dopo l’incipit
materialista, recupera invece il valore e il senso delle sepolture,
celebrandole come una delle possibilità (insieme alla poesia) concesse all’uomo
per sconfiggere, sia pur provvisoriamente, il tempo, che cancella qualsiasi
traccia umana. Si può anche riconoscere, nel percorso che la poesia per così dire argomentativa di
Foscolo traccia nel carme, una sorta di superamento di una visione nichilista
che impronta invece il finale delle Ultime
lettere di Jacopo Ortis, dove, vedremo fra breve, si rappresenta un totale naufragio
esistenziale. Probabilmente le due visioni riuscivano a essere compresenti
nello spirito di Foscolo, che da entrambe ricavava alimenti per la riflessione
e la poesia. Poesia che riflette e riflessioni che diventano poesia riesce a essere il Carme di cui ci stiamo occupando, nel quale confluiscono visioni
filosofiche, religiose, conoscenze di storia della civiltà, della cultura,
della letteratura, ma soprattutto un modo di sentire e di intendere la morte,
di sentire e intendere il sepolcro e, infine, di sentire e intendere il valore
della vita. Per agevolare il commento, riporto qualche selezione di versi.
All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne
confortate di pianto è forse il sonno
della morte men duro? Ove più il Sole
per me alla terra non fecondi questa
bella d’erbe famiglia e d’animali, 5
e quando vaghe di lusinghe innanzi
a me non danzeran l’ore future,
nè da te, dolce amico, udrò più il verso
e la mesta armonia che lo governa,
nè più nel cor mi parlerà lo spirto 10
delle vergini Muse e dell’Amore,
unico spirto a mia vita raminga,
qual fia ristoro a’ dì perduti un sasso
che distingua le mie dalle infinite
ossa che in terra e in mar semina morte? 15
Vero è ben, Pindemonte! Anche la Speme,
ultima Dea, fugge i sepolcri; e involve
tutte cose l’obblio nella sua notte;
e una forza
operosa le affatica
di moto in moto; e l’uomo e le sue tombe 20
e l’estreme sembianze e le reliquie
della terra e del ciel traveste il tempo.
Ma perché pria del tempo a sè il mortale
invidierà l’illusion che spento
pur lo sofferma al limitar di Dite? 25
Non vive ei forse anche sotterra, quando
Gli sarà muta l’armonia del giorno,
Se può destarla con soavi cure
Nella mente de’ suoi? Celeste è questa
corrispondenza d’amorosi sensi, 30
celeste dote è negli umani; e spesso
per lei si vive con l’amico estinto
e l’estinto con noi, se pia la terra
che lo raccolse infante e lo nutriva,
nel suo grembo materno ultimo asilo 35
porgendo, sacre le reliquie renda
dall’insultar de’ nembi e dal profano
piede del vulgo, e serbi un sasso il nome,
E di fiori adorata arbore amica
le ceneri di molli ombre consoli. 40
Sol chi non lascia eredità d’affetti
Poca gioia ha dell’urna; e se pur mira
dopo l’esequie, errar vede il suo spirto
fra ’l compianto de’ templi Acherontei,
o ricovrarsi sotto le grandi ale 45
del perdono d’lddio: ma la sua polve
lascia alle ortiche di deserta gleba
ove nè donna innamorata preghi,
nè passeggier solingo oda il sospiro
che dal tumulo a noi manda Natura. 50
Nichilismo, per
cominciare. Una domanda retorica che si itera più volte (All’ombra dei cipressi e dentro l’urne confortate di pianto è forse il
sonno della morte men duro? Ove più il sole per me alla terra non fecondi
questa bella d’erbe famiglia e d’animali, e quando vaghe di lusinghe innanzi a
me non danzeran l’ore future, né da te, dolce amico, udrò più il verso e la
mesta armonia che lo governa, né più nel cor mi parlerà lo spirto delle vergini
Muse e dell’amore, unico spirto a mia vita raminga, qual fia ristoro a’ dì
perduti un sasso che distingua le mie dalle infinite ossa che in terra e in mar
semina morte? VV. 1-15). Una domanda che, in quanto retorica, conosce la sua risposta: di fronte alla morte, che
spegne gli sguardi e semina oscurità nei cuori, che consolazione può offrire
una tomba, qui evocata attraverso un termine volutamente scabro, essenziale,
che precipita a chiudere per sempre qualcosa (la vita) il termine brutale, sasso, inutilmente predisposto a
distinguere ciò che non ha più senso distinguere, un corpo destinato a disfarsi
nella terra, a confondere i propri atomi con quelli del tutto. Materialismo, Democrito
e Epicuro, dominano anche i versi
successivi, dove una forza operosa è
evocata nel suo perpetuo muoversi per dare luogo a ciò che esiste, cambiando
continuamente forma e passando dalla vita alla morte, per poi ancora vivere e
poi morire. Tutto passa, tutto si trasforma, e il tempo rende irriconoscibili
le cose, travestendole (v. 22). A
questo inizio fa però subito seguito, al verso 23, un’avversativa, che
introduce una nuova,opposta nel significato alla precedente, domanda retorica:
perché privarsi di una bella illusione?
Di quell’illusione che reca conforto quando ci si trova sulle soglie della
morte: la sopravvivenza, in qualche modo, in qualsiasi modo. Si continua a
vivere, suggerisce il poeta, anche quando è ormai muta l’armonia del giorno, se si viene ricordati, se i cari si prendono cura del luogo di sepoltura. Soavi cure¸ corrispondenza d’amorosi sensi
concorrono a rendere vivo l’amico estinto¸ grazie anche solo a un sasso (riprende il termine al v. 38
connotandolo in modo opposto a prima), capace di distinguere e consolare. Nel
seguito del carme[39]
Foscolo prende posizione contro la nuova legge, l’editto di Saint-Cloud
naturalmente, che in nome dell’egualitarismo rende le tombe una sorta di
territorio indistinto e comune, e avvia una suggestiva concatenazione di
immagini dedicate a sepolture in stato d’abbandono o praticate da animali
selvaggi (di gusto preromantico, vv. 78 e sgg.). Dal verso 91 Dal dì che nozze, tribunali ed are
prende invece l’avvio la celebrazione della funzione civile dei sepolcri, la
cui introduzione nella vita umana è coincisa con un avanzamento della civiltà:
Foscolo esprime la sua predilezione per la concezione della morte pagana,
mentre evidentemente rifugge la visione cristiana (vv. 104 e sgg. riti
cristiani, vv. 114 e sgg pagani, gli scheletri
contrapposti ai puri effluvii). La
sezione dei Sepolcri che comprende i
vv. 151- 195 è dedicata alle tombe di Santa Croce, Machiavelli, Michelangelo, Galileo, e riporta
alla memoria anche Dante, Petrarca e Alfieri: dalle tombe spirano idee che
possono ispirare ingegni nel futuro, nei tempi a venire. Al verso 196, con un
volo pindarico, si passa da Santa Croce ai Greci che combattono contro i
Persiani a Maratona, il tessuto poetico si infittisce di immagini, il poeta
evoca anche se stesso esule (v. 226),
mentre valica distanze temporali vedendo compiersi battaglie di là dal tempo
(quelle compiute dai Greci celebrati da Omero), chiudendo infine il cerchio
della celebrazione dei sepolcri con un’evocazione dei grandi miti originari, la
cui straordinaria permamenza nel tempo, di là dai millenni, dimostra che l’uomo
è in grado di procurarsi una specie di eternità, dalla quale traggono beneficio
i vinti della Storia: gli ultimi versi infatti cantano l’eroe troiano sconfitto,
Ettore, destinato a sopravvivere anche lui fino a che il Sole risplenderà su le sciagure umane.
Le ultime lettere di Jacopo Ortis hanno una complicata storia editoriale, ma la
prima edizione riconosciuta e accreditata dall’autore risale al 1816, pubblicata in Svizzera, poi a
Londra l’anno dopo con poche modifiche. Il protagonista di questo romanzo
epistolare con cui s’inagura la stagione dei romanzi italiani è un alter ego di
Foscolo, Jacopo Ortis, giovane veneziano, patriota con ideali giacobini,
costretto a lasciare la città dopo il tradimento
napoleonico: il trattato di Campoformio che nell’ottobre del 1798 cede la
città e i suoi territori all’Austria. Jacopo, per sfuggire alle persecuzioni,
si ritira in una proprietà di campagna sui colli Euganei, dove entra in
relazione con la famigia T., innamorandosi della giovane Teresa, promessa sposa
dal padre, contro la volontà materna, al marchese Odoardo, un ricco possidente
dedito agli affari e, per quanto pare a Jacopo, poco interessato all’amore. Teresa ricambia il
sentimento del protagonista, ma non riesce a opporsi alla volontà del padre.
Ma, e perché, le diss'io, perché mai non è
qui vostra madre? - Da più settimane vive in Padova con sua sorella; vive
divisa da noi e forse per sempre! Mio padre l'amava: ma da ch'ei s'è pur
ostinato a volermi dare un marito ch'io non posso amare, la concordia è sparita
dalla nostra famiglia. La povera madre mia dopo d'avere contraddetto invano a
questo matrimonio, s'è allontanata per non aver parte alla mia necessaria
infelicità. Io intanto sono abbandonata da tutti! ho promesso a mio padre, e
non voglio disubbidirlo - ma e mi duole ancor più, che per mia cagione la
nostra famiglia sia così disunita (lettera del 20 novembre)
Quando
il padre si rende conto del sentimento che unisce i due giovani, si reca da
Jacopo, caduto ammalato, per persuaderlo a allontanarsi da sua figlia. Jacopo,
per non rendere ancora più penosa la situazione di Teresa, si allontana da lei
senza una spiegazione. La seconda parte del romanzo descrive i continui viaggi
attraverso l’Italia di Jacopo, che visita luoghi ricchi di storia, ma non
riesce a dimenticare Teresa e ritorna alla fine ai colli Euganei, dove però la
situazione è insostenibile per lui: alla fine Jacopo si suicida colpendosi al
petto con un pugnale. Più la sintesi del romanzo viene scarnificata, più appare
evidente l’influenza esercitata su di esso, come modello, dai Dolori del giovane Werther. In entrambi
i casi gli autori hanno descritto un dissidio insanabile fra ideale e il reale, fra giovanili impulsi
vitalistici e imposizioni di un ordine costituito rappresentato dall’autorità
paterna, che guida le scelte dei propri figli, in questo caso delle proprie
figlie. Una società patriarcale, nella quale prevalgono i richiami all’ordine e
a un mantenimento del patrimonio familiare, e i matrimoni sono più dettati da
ragioni di convenienza che da amore. Se poi vogliamo continuare a riconoscere
affinità, ad esempio per quanto concerne la delineazione dei caratteri dei due eroi romantici, è evidente, a un livello di analisi abbastanza
superficiale, che Werther e Jacopo sono spiriti inquieti e inappagati, in
permanente tensione e preda di impulsi, capaci di soffrire come di gioire in
modo estremo. Sotto questo profilo si manifesta in entrambi uno degli alimenti
spirituali del romanticismo che abbiamo individuato precocemente: quella
tentazione costante del limite, da varcare per via di un desiderio
inestinguibile, sehnsucht allo stato
puro, che si alimenta di sé in un circolo vizioso che sembra alla fine rendere
impossibile una vita normale e per
questo votare alla morte. Il suicidio ovviamente rende particolarmente fratelli Werther e Jacopo, ma il gioco
delle affinità può terminare qui, dato che molte differenze separano i due testi,
una volta che se ne approfondisca la conoscenza. Posto che per noi quest’ultima
riguarda in modo particolare il romanzo tedesco, mentre all’italiano dedichiamo
solo un passaggio attraverso alcune citazioni, vi propongo, per concludere, una selezione di pagine[40]
corredate di mie analisi del testo.
Il sacrificio della patria nostra è
consumato: tutto è perduto; e la vita, seppure ne verrà concessa, non ci
resterà che per piangere le nostre sciagure e la nostra infamia. Il mio nome è
nella lista di proscrizione, lo so; ma vuoi tu ch’io per salvarmi da chi
m’opprime mi commetta a chi mi ha tradito? Consola mia madre: vinto dalle sue
lagrime le ho ubbidito, e ho lasciato Venezia per evitare le prime
persecuzioni, e le più feroci. Or dovrò io abbandonare anche questa mia
solitudine antica, dove, senza perdere dagli occhi il mio sciagurato paese,
posso ancora sperare qualche giorno di pace? Tu mi fai raccapricciare, Lorenzo:
quanti sono dunque gli sventurati? E noi, pur troppo, noi stessi Italiani ci
laviamo le mani nel sangue degl’Italiani. Per me segua che può. Poiché ho
disperato e della mia patria e di me, aspetto tranquillamente la prigione e la
morte. Il mio cadavere almeno non cadrà fra braccia straniere; il mio nome sarà
sommessamente compianto da pochi uomini buoni, compagni delle nostre miserie; e
le mie ossa poseranno su la terra de’ miei padri.
Così si
esprime Jacopo, rivolgendosi all’amico Lorenzo Alderani, nella prima epistola, datata 11 ottobre 1797 e
scritta dai colli Euganei. Lorenzo Alderani apre il romanzo con
una nota di suo pugno, in cui celebra, in uno stile altisonante, la virtù sconosciuta, che tale resterebbe
ove nessuno si occupasse di celebrarne la memoria. Tema caro a Foscolo, come
sappiamo da quanto scritto a proposito del Carme
dei Sepolcri. Nell’incipit per
mano di Jacopo, si nota la presenza del motivo dominante dell’opera, che la
distingue dal precedente goethiano, ovvero quello politico. Il patriota Ortis,
tale per una scelta originaria e dalle radici antichissime (la patria, è evidente, è tanto il Veneto italiano e non austriaco quanto l’antica
terra dei padri, greca e latina al tempo stesso, nel suo essere un territorio
mitico in cui la geografia conta poco), lamenta una sconfitta che gli appare definitiva, alla quale oppone una
fierezza indomita, un senso della vergogna
da evitare a tutti i costi, identificata con una resa assoluta ai vincitori
e ai traditori. Per ragioni diverse, rispetto a Werther, Jacopo approda però
alla medesima condizione di solitudine totale del suo omologo tedesco, che fin dalle prime lettere si sente un reietto rispetto al contesto sociale, e
acuisce poi questa percezione man mano che gli capita di frequentare ambienti
sia borghesi sia aristocratici (nella prima e poi nella seconda parte del
romanzo), rispetto ai quali la sua diversità,
la sua alterità si manifesta in tutta
evidenza.
L’ho veduta, o Lorenzo, la divina fanciulla;
e te ne ringrazio. La trovai seduta, miniando il proprio ritratto. Si rizzò
salutandomi come s’ella mi conoscesse, e ordinò a un servitore che andasse a
cercare di suo padre. Egli non sperava, mi diss’ella, che voi sareste venuto;
sarà per la campagna; nè starà molto a tornare. Una ragazzina le corse fra le
ginocchia dicendole non so che all’orecchio. È l’amico di Lorenzo, le rispose
Teresa, è quello che il babbo andò a trovare l’altr’jeri. Tornò frattanto il
signor T...: m’accoglieva famigliarmente, ringraziandomi ch’io mi fossi
sovvenuto di lui. Teresa intanto, prendendo per mano la sua sorellina, partiva.
Vedete, mi diss’egli, additandomi le sue figliuole che uscivano della stanza;
eccoci tutti. Proferì, parmi, queste parole, come se volesse farmi sentire che
gli mancava sua moglie. Non la nominò. Si ciarlò lunga pezza. Mentr’io stava
per congedarmi, tornò Teresa. Non siamo tanto lontani, mi disse; venite qualche
sera a veglia con noi.
Io tornava a casa col cuore in festa. — Che?
lo spettacolo della bellezza basta forse ad addormentare in noi tristi mortali
tutti i dolori? vedi per me una sorgente di vita; unica certo, e chi sa! fatale.
Ma se io sono predestinato ad avere l’anima perpetuamente in tempesta, non è
tutt’uno?
I passi
sopra proposti, come si può capire, evocano il primo incontro con Teresa, che
potete quindi confrontare col primo incontor fra Werther e Lotte. La somiglianza
è notevole, il modello qui opera fortemente: il quadretto familiare che induce
alla contemplazione, l’accensione immediata degli affetti, la percezione sempre
fulminea di una possibile redenzione del
dolore da parte di quello che qui Jacopo definisce lo spettacolo della bellezza, per poi approdare nuovamente alla
constatazione di una profonda, soggettiva, diversità rispetto a tutti gli altri
e a un destino di tumulto interiore permanente. Come abbiamo letto più volte in
Werther, e ribadito nell’individuare le peculiarità della temperie romantica,
gli spiriti di questo secolo hanno un animo sintonizzato sulle tempeste e gli
impeti, osano guardare negli abissi, da cui sono irresistibilmente attratti,
quanto più appaiono insondabili e
paurosi alla maggioranza delle persone. Evidente anche, componente non
trascurabile in entrambi i personaggi, un certo autocompiacimento, alimentato
da una sensibilità acuta fino all’eccesso, che è già un presagio di morte
precoce, se non autoinflitta, come in effetti accade.
Io sto bene, bene per ora come un infermo che
dorme e non sente i dolori; e mi passano gl’interi giorni in casa del signor
T*** che mi ama come figliuolo: mi lascio illudere, e l’apparente felicità di
quella famiglia mi sembra reale, e mi sembra anche mia. Se nondimeno non vi
fosse quello sposo, perchè davvero — io non odio persona al mondo, ma vi sono
cert’uomini ch’io ho bisogno di vedere soltanto da lontano. — Suo suocero me
n’andava tessendo jer sera un lungo elogio in forma di commendatizia: buono —
esatto — paziente! e niente altro? Possedesse queste doti con angelica
perfezione, s’egli avrà il cuore sempre così morto, e quella faccia magistrale
non animata mai nè dal sorriso dell’allegria, nè dal dolce silenzio della
pietà, sarà per me un di que’ rosaj senza fiori, che mi fanno temere le spine.
Cos’è l’uomo se tu lo abbandoni alla sola ragione fredda, calcolatrice?
scellerato, e scellerato bassamente. — Del resto, Odoardo sa di musica; giuoca
bene a scacchi; mangia, legge, dorme, passeggia, e tutto con l’oriuolo alla
mano; e non parla con enfasi se non per magnificare tuttavia la sua ricca e
scelta biblioteca. Ma quand’egli mi va ripetendo con quella sua voce
cattedratica, ricca e scelta, io sto li lì per dargli una solenne mentita. Se
le umane frenesie che col nome di scienze e di dottrine si sono scritte e
stampate in tutti i secoli, e da tutte le genti, si riducessero a un migliajo
di volumi al più, e’ mi pare che la presunzione de’ mortali non avrebbe da
lagnarsi — e via sempre con queste dissertazioni.
Il
malevolo ritratto del promesso sposo e poi sposo di Teresa è anch’esso appaiabile
agli elementi descrittivi ricavabili dai dialoghi, quasi delle dispute, tra
Albert e Werther. Si tratta della malevolenza che spira dalla percezione di
un’insanabile divergenza fra visioni del mondo: l’una tutta ideale, l’altra
prosaica e materiale. Il vituperio della ragione fredda, calcolatrice e foriera di scelleratezze è figlia di quel
sentimento di superiorità che il temperamento artistico nutre nei confronti del mondo borghese (o aristocratico,
poco importa) che da parte sua considera il primo tra l’inconcludente, nella visione più benevola, e il pericoloso
(per l’ordine sociale, appunto). Un’intesa,
almeno in questa fase aurorale, sembra proprio impossibile, ma ben presto si
delineerà invece una possibilità di conciliazione, alla quale sia Werther sia
Jacopo sarebbero stati fieramente avversi, dato che si manifesta sotto forma di
compromesso: il mondo borghese fagociterà gli artisti prendendoli per fame, nel senso che l’allettamento
di un riconoscimento materiale del loro genio determinerà la nascita di
un’industria del successo, sirena incantatrice alla quale è molto difficile
resistere. Nel periodo di cui ci stiamo occupando, però, tutto è ancora appunto
in una fase embrionale, e sia Jacopo sia Werther (meno i loro autori, se
esaminate a fondo le biografie corrispettive) possono permettersi di
manifestare uno sprezzo totale nei confronti di un sistema che è modo di vivere e
visione del mondo dal quale sono onorati di essere estromessi, anche se
compresente con questo senso di superiorità è di sicuro un analogamente
virulento vittimismo.
Frattanto ho preso a educare la sorellina di
Teresa: le insegno a leggere e a scrivere. Quand’io sto con lei, la mia
fisonomia si va rasserenando, il mio cuore è più gajo che mai, ed io fo mille
ragazzate. Non so perchè, tutti i fanciulli mi vogliono bene. E quella
ragazzetta è pur cara, bionda e ricciuta, occhi azzurri, guance pari alle rose,
fresca, candida, paffutella, pare una Grazia di quattr’anni. Se tu la vedessi
corrermi incontro, aggrapparmisi alle ginocchia, fuggirmi per ch’io la siegua,
negarmi un bacio e poi improvvisamente attaccarmi que’ suoi labbruzzi alla
bocca! Oggi io mi stava su la cima di un albero a cogliere le frutta: quella
creaturina tendeva le braccia, e balbettando pregavami che per carità non
cascassi.
Anche il
passo precedente può dar adito a interessanti raffronti col testo di Goethe,
nonché documentare un’ambivalenza alla quale ho accennato poco sopra. Jacopo e
Werther disprezzano il modo di vivere borghese e aristocratico, ma al tempo
stesso sono felici di essere ritenuti
parte di una famiglia. Vero è che per tutti e due, il vero motore
dell’attrazione per una vita familiare
è l’amore per una donna impossibile,
ma resta il fatto che i due eroi romantici siano provvisti di una sensibilità
che ci si potrebbe augurare alberghi in chiunque abbia dei figli. La tenerezza
verso la sorellina, in questo passo
in particolare, è tuttavia anche leggibile come un omaggio indiretto sempre
rivolto a Teresa: rientra nell’armamentario del seduttore, come poteva ben
sapere Foscolo, circondare di premure anche gli affetti più cari di chi si
vuole conquistare.
Che bell’autunno! addio Plutarco! sta sempre chiuso sotto
il mio braccio. Sono tre giorni ch’io perdo la mattina a colmare un canestro
d’uva e di pesche, ch’io copro di foglie, avviandomi poi lungo il fiumicello, e
giunto alla villa, desto tutta la famiglia cantando la canzonetta della
vendemmia.
Frattanto io recitava sommessamente con l’anima tutta
amore e armonia la canzone: Chiare, fresche, dolci acque; e l’altra: Di pensier in pensier, di
monte in monte; e il sonetto: Stiamo,
Amore, a veder la gloria nostra; e quanti
altri di que’ sovrumani versi la mia memoria agitata seppe allora suggerire al
mio cuore. Teresa e suo padre se n’erano iti con Odoardo il quale andava a
rivedere i conti al fattore d’una tenuta ch’egli ha in que’ dintorni. Ho poi
saputo ch’e’ sta sulle mosse per Roma, stante la morte di un suo cugino; nè si
sbrigherà così in fretta, perchè essendosi gli altri parenti impadroniti de’
beni del morto, l’affare si ridurrà a’ tribunali.
In questa lettera
Foscolo crea un chiaroscuro avvalendosi di reminiscenze classiche, incarnate in
questo caso da Petrarca: da una parte l’anima di Jacopo abitata dal furor poetico, che si serve dello
strumento della memoria per alimentare le fiamme del cuore;
dall’altra un Odoardo dedito agli affari, che rivede conti e si dispone a
sostenere una causa ereditaria in tribunale.
Umana vita? sogno; ingannevole sogno, al quale noi pur
diam sì gran prezzo, siccome le donnicciuole ripongono la loro ventura nelle superstizioni
e ne’ presagj! Bada: ciò cui tu stendi avidamente la mano è un’ombra forse, che
mentre è a te cara, a tal altro è nojosa. Sta dunque tutta la mia felicità
nella vota apparenza delle cose che ora m’attorniano; e s’io cerco alcun che di
reale, o torno a ingannarmi, o spazio attonito e spaventato nel nulla! Io non
lo so; ma, per me, temo che la natura abbia costituito la nostra specie quasi
minimo anello passivo dell’incomprensibile suo sistema, dotandone di cotanto
amor proprio, perché il sommo timore e la somma speranza creandoci nella
immaginazione una infinita serie di mali e di beni, ci tenessero pur sempre
affannati di questa esistenza breve, dubbia, infelice. E mentre noi serviamo
ciecamente al suo fine, essa ride del nostro orgoglio che ci fa reputare
l’universo creato solo per noi, e noi soli degni e capaci di dar leggi al
creato.
Andava dianzi perdendomi per le campagne, inferrajuolato
sino agli occhi, considerando lo squallore della terra tutta sepolta sotto le
nevi, senza erba nè fronda che mi attestasse le sue passate dovizie. Nè
potevano gli occhi miei lungamente fissarsi su le spalle de’ monti, il vertice
de’ quali era immerso in una negra nube di gelida nebbia che piombava ad
accrescere il lutto dell’aere freddo ed ottenebrato. E parevami vedere quelle
nevi disciogliersi e precipitare a torrenti che innondavano il piano,
strascinandosi impetuosamente piante, armenti, capanne, e sterminando in un
giorno le fatiche di tanti anni e le speranze di tante famiglie. Trapelava di
quando in quando un raggio di sole, il quale, quantunque restasse poi
soverchiato dalla caligine, lasciava pur divedere che sua mercè soltanto il
mondo non era dominato da una perpetua notte profonda. Ed io rivolgendomi a
quella parte di cielo che albeggiando manteneva ancora le tracce del suo
splendore: — O Sole, diss’io, tutto cangia quaggiù! E verrà giorno che Dio
ritirerà il suo sguardo da te, e tu pure sarai trasformato; nè più allora le
nubi corteggeranno i tuoi raggi cadenti; nè più l’alba inghirlandata di celesti
rose verrà cinta di un tuo raggio su l’oriente ad annunziar che tu sorgi. Godi
intanto della tua carriera, che sarà forse affannosa e simile a questa
dell’uomo; tu ’l vedi; l’uomo non gode de’ suoi giorni; e se talvolta gli è
dato di passeggiare per li fiorenti prati d’aprile, dee pur sempre temere
l’infocato aere dell’estate, e il ghiaccio mortale del verno.
Pagina di prosa
poetica, o di poesia in prosa, non infrequente in questo atipico romanzo. Il
tema è noto, possiamo farlo risalire agli Antichi, cercando fra i frammenti dei
lirici greci[41]:
la vita è sogno, ombra, fugacità permanente, allettamento per taluno, noia per
qualcun altro. Il suo modo di porsi ingannevole nei confronti degli umani
comporta da parte di questi ultimi una sofferenza che certo non tutti
percepiscono con la medesima intensità. Quelli che sperano di più, illusi in
verità, sono destinati a vivere in una condizione permanente d’affanno e di
dolore, mentre la natura, già provvista di connotati che ritroveremo in
Leopardi, si fa beffe delle pretese prerogative umane, continuando
semplicemente il suo corso e perseguendo le sue finalità, peraltro
imperscrutabili agli esseri umani. Nella seconda parte si avverte la medesima
ispirazione, che ho definito materialista, dei Sepolcri. Tutto ciò che esiste è in permanente divenire, tutto è
soggetto a deperimento e morte, nemmeno gli astri si sottraggono a questa
legge, anche se nel caso degli esseri umani, ipotizza il poeta, il piacere è
senz’altro più raro e ridotto del dolore.
T’amai dunque, t’amai, e t’amo ancor di un amore che non
si può concepire che da me solo. È poco prezzo, o mio angelo, la morte per chi
ha potuto udir che tu l’ami, e sentirsi scorrere in tutta l’anima la voluttà
del tuo bacio, e piangere teco — Io sto col piè nella fossa: eppure tu anche in
questo frangente ritorni, come solevi, davanti a questi occhi che morendo si
fissano in te, in te che sacra risplendi di tutta la tua bellezza. E fra poco!
Tutto è apparecchiato: la notte è già troppo avanzata — addio — fra poco saremo
disgiunti dal nulla, o dalla incomprensibile eternità. Nel nulla? Sì — Sì, sì;
poichè sarò senza di te, io prego il sommo Iddio, se non ci riserba alcun luogo
ov’io possa riunirmi teco per sempre, lo prego dalle viscere dell’anima mia, e
in questa tremenda ora della morte, perchè egli m’abbandoni soltanto nel nulla.
Ma io moro incontaminato, e padrone di me stesso, e pieno di te, e certo del
tuo pianto! Perdonami, Teresa, se mai.... — Ah consolati, e vivi per la
felicità de’ nostri miseri genitori; la tua morte farebbe maledire le mie
ceneri.
Che se taluno ardisse incolparti del mio infelice
destino, confondilo con questo mio giuramento solenne ch’io pronunzio
gittandomi nella notte della morte: Teresa è innocente. — Ora tu accogli
l’anima mia.
L’ultima citazione
corrisponde con la fine del romanzo: Jacopo torna sui colli Euganei solo per
rendersi definitivamente conto di come sia per lui impossibile vivere. Non
potrà avere Teresa e questo lo rende morto
per quanto riguarda l’unica esistenza che gli sembra desiderabile. Suicidarsi è
quindi inevitabile, ma un dettaglio non deve sfuggire: Jacopo domanda a Dio una
cosa impossibile da richiedere (una specie di ultimo omaggio intriso di sehnsucht) a un qualsiasi dio esistente, ovvero il nulla, se non
potrà avere Teresa. Qualcosa di simile alla richiesta impossibile di Mirra,
immaginata da Ovidio, di non essere né
viva né morta. Foscolo poteva anche avere in mente questi versi dell’antico
poeta, come pure la dolentissima ottava che Tasso dedica a Tancredi dopo la
morte di Clorinda. Omaggio all’amore impossibile da realizzare e alla parola
che non esiste per definire come si
possa stare al mondo quando si smetta di desiderare il desiderio, ossia quando
venga meno sehnsucht.
BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA[42]
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https://www.treccani.it/enciclopedia/donazione-di-costantino_%28Enciclopedia-Dantesca%29/
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https://www.homolaicus.com/teorici/pico/fonti/delladignitadelluomo.zip
·
Ariosto, Satire e
Orlando furioso:
https://it.wikisource.org/wiki/Satire_(Ariosto)
Orlando
furioso di Ludovico Ariosto raccontato da Italo Calvino, lettura integrale, qualsiasi edizione cartacea
·
Leonardo da Vinci, Fiabe
e Uomo vitruviano
https://it.wikisource.org/wiki/Favole_(Leonardo_da_Vinci)
https://matematica.unibocconi.it/articoli/misura-duomo-leonardo-e-luomo-vitruviano
·
Niccolò Machiavelli, Principe e Lettere (in
particolare la lettera XI al Vettori);
Mandragola lettura integrale, qualsiasi
edizione cartacea:
http://www.letteraturaitaliana.net/pdf/Volume_4/t324.pdf
https://it.wikisource.org/wiki/Lettere_(Machiavelli)
·
Francesco Guicciardini, Ricordi e confronto con Machiavelli:
https://www.filosofico.net/guicciardini.htm
·
François Rabelais, qualche capitolo dai romanzi e l’integrale:
https://www.rodoni.ch/busoni/bibliotechina/pantagruele/rabelais2.html
http://www.liber-rebil.it/wp-content/uploads/2011/09/RABELAIS-Gargantua_e_Pantagruel.pdf
·
Baldassar Castiglione, Il cortegiano:
http://www.letteraturaitaliana.net/pdf/Volume_4/t84.pdf
·
Giovanni della Casa, Il Galateo:
http://www.letteraturaitaliana.net/pdf/Volume_5/t118.pdf
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Torquato Tasso, Discorsi
dell’arte poetica e in particolare del poema eroico e Gerusalemme liberata (Proemio, I canto, e Giardino
della maga Armida, canto XV):
http://www.edscuola.it/archivio/antologia/millelibri/Tasso/0120030.html
http://www.letteraturaitaliana.net/pdf/Volume_5/t329.pdf
Video da Monteverdi, Combattimento di Tancredi e Clorinda:
https://www.youtube.com/watch?v=LUYpo-DzZs4
·
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·
Giovan Battista Marino, Poesie
varie:
https://it.wikisource.org/wiki/Poesie_varie_(Marino)
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Ruzante, video di Dario Fo:
https://www.youtube.com/watch?v=qfG20CGd_AI
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Commedia dell’arte, video di Dario Fo:
https://www.youtube.com/watch?v=NYm-F6CJnX0
·
Metastasio, Arie
https://www.youtube.com/watch?v=I2ORSJEEESY
·
Carlo Goldoni, La
locandiera, lettura
integrale, qualsiasi edizione cartacea; on line (per velocizzare
le citazioni dal testo):
http://www.letteraturaitaliana.net/pdf/Volume_7/t334.pdf
messe in scena:
https://www.youtube.com/watch?v=mW1zi76rTjE
https://www.youtube.com/watch?v=nNUBQzF8acU
·
Vittorio
Alfieri, Mirra, lettura integrale, qualsiasi edizione cartaea; La vita scritta da esso:
http://www.aiutamici.com/PortalWeb/eBook/ebook/Vittorio_Alfieri-Vita_scritta_da_esso.pdf
·
Ovidio, Metamorfosi versi dedicati a Mirra:
https://draft.blogger.com/blog/post/edit/preview/5990511380350109872/483939427446709999
·
W. Goethe, I dolori del giovane Werther, lettura integrale, qualsiasi edizione cartacea.
·
Ugo Foscolo,
Le ultime lettere di Jacopo Ortis:
http://www.letteraturaitaliana.net/pdf/Volume_8/t167.pdf
[1] Un’opera novecentesca interamente dedicata al Kairòs che consiglio di leggere è Momenti fatali. 14 miniature storiche di Stefan Zweig.
[2] Terenzio, commediografo latino del II secolo a. C., elabora, in parziale consonanza con lo spirito del Circolo Scipionico, una concezione dell’umano che si trova espressa particolarmente in due sue commedie: quella citata nel testo, Il punitore di se stesso e gli Adelphoe, I fratelli. Nella prima commedia viene trattato il tema delle relazioni sociali e dell’importanza della conoscenza reciprova e della comunicazione, nella seconda il tema dell’educaizone dei giovani.
[3] La citazione che segue nel testo è tratta dal De vita beata, uno dei Dialogi di Seneca, nella traduzione del 1996, eduzione Bur, di Donatella Agonigi.
[4] Conclusione del De clementia, trattato che Seneca scrive pensando a Nerone, del quale è precettore prima e dopo la precoce ascesa al trono nel 54 d.C.
[5] Orlando furioso di Ludovico Ariosto raccontato da Italo Calvino, Mondadori, I ed. 1995.
[6] Aretino, vissuto fra il 1370 e il 1444, Leonardo Bruni fu umanista, storico e uomo politico di rilievo in Firenze.
[7] Vitruvio è uno srittore latino del I secolo d. C., autore del trattato De Architectura, riferimento per gli artisti del periodo.
[8] Francesco Guicciardini (Firenze, 1483, Arcetri 1540), che qui conosciamo nelle vesti di uomo politico e amico di Machiavelli, è un altro pensatore del periodo addentratosi nell’analisi dei comportamenti e dei meccanismi della politica. I suoi Ricordi sono ispirati a un pragmatismo affine a quello espresso da Machiavelli, dal quale però si distingue per via del mancato riconoscimento di costanti dell’agire umano, alle quali sostituisce l’idea basilare che le circostanze mutino continuamente e che per questo occorra essere dotati della virtù della discrezione (capacità di discernere e riconocere il particulare in ogni circostanza).
[9] Gli specula principum appartengono a un genere letterario di tipo didascalico, che ha per oggetto il probo comportamento dei regnanti e la loro arte di governo. Nel descrivere e prescrivere un modello ideale, l’intenzione degli autori è quella di dotare di un senso soprattutto religioso e morale l’ordinamento politico e, più in particolare, l’ufficio del principe. Proprio per la loro intenzione parenetica, e per una tendenza normativa e quindi critica, gli specula principum si differenziano dai panegirici di corte, anche se spesso nelle lettere dedicatorie che li accompagnano la distanza tra autore e destinatario si annulla nella lode del principe. Il genere, già diffuso e conosciuto nell’antico Egitto, nell’India, in Cina e nel mondo arabo, conosce i suoi modelli classici nella Ciropedia di Senofonte, nelle orazioni di Isocrate a Nicocle ed Evagora, e nel già citato De clementia di Seneca dedicato a Nerone. Gli specula possono anche essere indirizzati ai regnanti in generale: la dedica premessa agli scritti esprime un desiderio di riconoscimento e di apprezzamento dell’autore da parte del destinatario, qualora sia determinato, oppure un legame, reale o solo vagheggiato, con chi detiene il potere. Le regole degli specula, che per lo più hanno anche un contenuto religioso, mirano a disegnare il comportamento moralmente retto del principe per il raggiungimento di fini politici legittimi. Infine, per quanto riguarda la metafora dello specchio, essa risale alle Scritture e alle epistole di Paolo Apostolo, in cui la Scrittura stessa è proposta come uno specchio per gli esseri umani, che vi possono rintracciare il dover essere, ovvero insegnamenti e norme di comportamento
[10] A Francesco Vettori è rivolta una celebre lettera, che sarebbe interessante qualcuno presentasse, in cui Machiavelli descrive le giornate all’Albergaccio durante il primo periodo di forzato esilio dalla vita politica, in cui inizia tra l’altro a precisarsi il disegno del Principe.
[11] Plauto e Terenzio, attivi rispettivamente nel III/II e nel II secolo a. C., sono autori comici del teatro latino molto presenti a Machiavelli, forse più spiritualmente affine al secondo che al primo.
[12] Traduzione di Gildo Passini, De Agostini, 1983.
[13] Ibidem, Prologo
[14] Il nome viene dal greco, precisamente dal
verbo θελω, che signifca voglio, desidero.
[15] Si tratta dell’abbazia benedettina dove Rabelais aveva studiato.
[16] Questa, come la seguente, sono sempre abbazie esistenti e note a Rabelais.
[17] Michel Foucault (1926-1984) si è occupato in particolare delle relazioni tra il potere e le comunità umane, dall’antico al contemporaneo: Sorvegliare e punire, Storia della follia e Storia della sessualità sono alcuni dei suoi contributi più articolati per approfondire questo argomento vastissimo.
[18] Rientrano in questo genere sia il Galateo di Monsignor Della Casa sia Il Cortegiano di Baldassar Castiglione, risalenti entrambi alla prima metà del Cinquecento circa. A Castiglione faccio riferimento anche nel capitolo dedicato al barocco.
[19] La prima crociata (1096-1099) è la prima di una serie di spedizioni volte a conquistare Gerusalemme e la Terra Santa. Invocata da papa Urbano II nel corso di un'omelia tenuta durante il Concilio di Clermont nel 1095, essa inizia come un pellegrinaggio armato della cristianità occidentale obbediente alla Chiesa di Roma per riconquistare la Terra Santa, caduta sotto il controllo dei musulmani durante la prima espansione islamica avvenuta nel corso del califfato di ʿOmar ibn al-Khaṭṭāb (r. 634-644). La crociata termina nel 1099 con la presa di Gerusalemme.
[20] Claudio Monteverdi, nato a Cremona nel 1567 e morto a Venezia nel 1643, è un compositore italiano, la cui attività artistica segna il passaggio dalla musica rinascimentale alla musica barocca. Il suo Orfeo è il primo melodramma della nostra tradizione musicale. Il Combattimento di Tancredi e Clorinda è invece un madrigale (vi ricordo che noi abbiamo ascoltato l’anno scorso Luca Marenzio, per avere un’idea del madrigale in musica). Per l’ascolto, vi rimando a questo link: https://www.youtube.com/watch?v=_E8SOOgDPU
[21] A denominarlo così è sempre Italo Calvino, nostro mentore per la lettura dell’Orlando. Il termine epicedio deriva dal greco, e denomina un componimento scritto in morte di qualcuno. In questo caso la denominazione vale per indicare come il genere in questione fosse ormai defunto, all’inizio el Seicento e dopo le svariate interpretazioni datene fino a Tasso medesimo, e la forma romanzesca prescelta da Cervantes ne sarebbe la prova.
[22] La vita di Pedro Calderon de la Barca è profondamente intrecciata con la dimensione politica, sociale e culturale del suo secolo: un Seicento opulento e amante dello sfarzo ai limiti dell’esibizionismo, percorso da ispirazioni visionarie, caratterizzato da conquiste, eppure già percorso da avvertimenti di decadenza. Nato a Madrid nel 1600 (ivi morirà nel 1681), vive sotto il regno di Filippo IV, nel periodo di massima fioritura culturale della corte. Di famiglia nobile, studia a Madrid in collegi gesuitici e frequenta poi le università di Alcalà de Henares e Salamanca: cultura classica e teologia scolastica rimangono sempre i fondamenti essenziali della sua visione del mondo. Da segnalare un’infanzia segnata dalla perdita precoce della madre e dalla presenza di una matrigna ostile, che intenta contro i figliastri una causa per l’eredità. Pedro a un certo punto abbandona gli studi e si dedica alla vita mondana madrilegna. frequentando ambienti di corte e teatro. Periodo avventuroso e turbolento, caratterizzato da ricorrenti difficoltà economiche (aggravate anche dal fatto che, accusati di un omicidio, i suoi fratelli siano condannati a pagare una somma ingente alla famiglia dell'ucciso), vede però anche avere inizio la fortuna letteraria: le sue commedie, rappresentate nella sala centrale del palazzo reale con ricche scenografie barocche, incominciano a raccogliere successi e garantirgli notorietà.
Questa stagione di glorie mondane è interrotta da episodi di vita militare: entra a far parte nel 1637 dell'Ordine dei Cavalieri di Santiago, partecipa nel 1638 a una campagna in Francia e nel 1640 alla spedizione organizzata contro la sollevazione della Catalogna, guerra in cui si distingue per il suo valore anche se, a causa dei disagi riportati per una ferita alla mano, è costretto a chiedere il congedo due volte. L'insuccesso di tale esperienza, che metteva in luce la disorganizzazione dell'esercito spagnolo e segnava l'inizio di un'epoca travagliata per la corona, l'incalzare di disgrazie familiari (la morte dei due fratelli e quella di un figlio naturale), le contrastate vicende sentimentali, lo condussero a una crisi personale profonda che culmina nel 1651 con la decisione di divenire sacerdote. Nel 1653 è nominato cappellano della chiesa di Toledo e dieci anni dopo cappellano di corte. Prosegue l’attività di drammaturgo ma si dedica particolarmente alla composizione di autos sacramentales (drammi religiosi in un unico atto, con personaggi allegorici fortemente simbolici) e spettacoli per la corte, aderendo allo spirito delle nuove leggi che, in accordo con la mutata situazione politica, tendeono a limitare le rappresentazioni di carattere profano e soprattutto gli sfarzi barocchi. Tuttavia la sua ultima commedia, composta nel 1680 in occasione delle nozze del sovrano con Maria Luisa di Orléans, è rappresentata ancora con ricchezza e magnificenza. Muoreì l'anno successivo mentre sta componendo un dramma eucaristico lasciato incompiuto.Oggi la critica gli attribuisce 120 comedias, 80 autos sacramentales e una ventina di opere minori.
[23] Laio è il mitico padre di Edipo, che tenta vanamente di ostacolare il responso dell’oracolo in merito al destino di suo figlio e suo. Abbiamo letto, a questo proposito, la tragedia di Sofocle dedicata a questa sventurata famiglia.
[24] Nel corso del Cinquecento nascono numerosissime (se ne contano più di 2000, di durata molto differente nel tempo) in tutta Italia, con strutture organizzative e ritualità diverse, ma generalmente meno rigide e formali delle università: esse sono luoghi privilegiati di elaborazione, riflessione e diffusione della lingua volgare, il fiorentino-italiano che aspira ad essere nazionale, al di sopra dei tanti dialetti quotidianamente parlati e a diffondersi in nuovi campi del sapere (filosofia, scienza, diritto) fino a quel momento dominio esclusivo del latino. Le accademie d’Italia sono di tipologie molto varie e con svariati campi di interessi, alcune sono pubbliche, come l’Accademia fiorentina, (Firenze 1541), altre private (si tratta della stragrande maggioranza: dall’Accademia degli Affidati, Pavia 1525, all’Accademia degli Infiammati, Padova 1540, all’Accademia degli Alterati, Firenze 1564); inoltre vi sono accademie impegnate sul fronte delle arti figurative (l’Accademia delle arti del disegno, Firenze 1563), del teatro (Accademia degli Intronati, Siena 1525), della lingua (Accademia della Crusca, Firenze 1583) o della nuova scienza (Accademia dei Lincei, Roma 1603; Accademia del Cimento, Firenze 1657).
[25] Il termine sprezzatura è degno di approfondimento. Mi limito a qualche indicazione sommaria. Nel suo trattato Castiglione la tratta come una virtù necessaria sia nella vita sociale sia nella pratica artistica: consente di nascondere completamente lo studio che richiede l’esibizione di una virtù (da quella di saper scrivere o parlare a quella di saper ballare), facendo risultare come naturale quello che, in chi non conosce l’arte della sprezzatura, risulta invece del tutto artificioso.
[26] Le sacre rappresentazioni, dette anche laude drammatiche e misteri si servono di testi in svariati volgari, e sono diffuse quindi dall’Italia, alla Francia, alla Spagna, alla Germania e all’Inghilterra. Esse, in forma per lo più dialogica, propongono sequenze tratte dalle Scritture, recitate e cantate all’interno delle chiese, sfruttando come palcoscenico l’altare e rendendo quest’ultimo elemento scenografico immediatamente riconoscibile (appunto per gli evidenti rimandi scritturali) al pubblico di fedeli. Nella scenografia rientrano i cosiddetti luoghi deputati, ai quali vengono assegnati significati simbolici condivisi dalla comunità dei credenti: la sinistra dell’altare è il luogo deputato coincidente con l’inferno, mentre la destra con il paradiso, con conseguente associazione a queste posiizoni di ruoli corrispettivi per gli attori (figure diaboliche a sinistra, angeliche a destra).
[27] Mi riferisco a M. Bachtiin, autore dello studio L’opera di Rabelais e la cultura popolare, 1965
[28] Un altro soggetto, rilevano sempre gli studi antropologici ai quali sto facendo riferimento, che rappresenta il diverso da tutti, quindi il contraltare dell’indifferenziato può essere in qualche caso il buffone o il matto o il giullare, figura solo apparentemente incontrollata dato che la possibilità di dire qualunque cosa, anche offensiva, persino al re, è pur sempre frutto di una concessione, connessa con il suo essere una specie di soggetto sacro, a metà fra il mondo umano e quello diabolico.
[29] In particolare nel periodo umanistico-rinascimentale si pone, come già all’epoca del De vulgari eloquentia di Dante, la questione della lingua, destinata a permanere irrisolta fino all’unità d’Italia e oltre. Fra i più significativi contributi in merito, senz’altro rispettati da Ruzante e non oggetto di critica da parte sua, quello di Pietro Bembo (1470-1547), che con le sue Prose della volgar lingua contribuisce a sostenere il modello del volgare toscano del Trecento come lingua cardinale (per dirla come Dante) del territorio italiano e soprattutto come lingua della letteratura.
[30] Nel solito gioco di echi che si innesca spesso mentre si studiano le letterature si può, da Ruzante e dal suo contadino patavino passare al teatro novecentesco, a Dario Fo e al suo grammelot, lingua foneticamente verosimile, ma in realtà priva di significato, frutto della commistione di onomatopee e suoni propri di lingue e dialetti caratteristici dell’Italia settentrionale e, in alcune occasioni, dei paesi d’oltralpe. Per farsene un’idea, e dedicarsi a approfondimenti in merito, ecco un limk a uno spettacolo di Dario Fo: https://www.facebook.com/watch/?v=332036173885784
[31] (le rimarrà appassionatamente legato fino alla morte: lui all'epoca ha 28 anni, lei 25). Nel 1786 si stabilisce con lei a Parigi: le traversie iniziali sono notevoli poiché il marito, molto geloso, la perseguita, finché otterrà la separazione legale grazie all'intervento del re di Svezia Gustavo III, ma sarà solo dal 1788 che lei, grazie alla sopravvenuta morte dello Stuart, potrà vivere apertamente la relazione con Alfieri.
[32] Eric Hobsbawm, 1917-2012, è uno storico satunitense, autore tra l’altro del Secolo breve, 1914-1991, nel quale connota in maniera opposta il XIX e il XX proprio quanto alla lunghezza del primo e alla brevità del secono.
[33] Le ragioni della resistenza alla diffusione delle idee romantiche in Italia sono molteplici, ma una delle più evidenti è connessa con la posizione culturale, ovvero con la prossimità anche geografica, addirittura una coincidenza, con la civiltà greco-latina, fonte di miti che i romantici, prima fra tutte M.me de Staël, decidono di sacrificare in nome di un rinnovamento totale del materiale fonte di ispirazione, che recuperi piuttosto le radici nazionali.
[34] Jean-Jacques Rousseau, nato a Ginevra nel 1712 e morto a Ermenonville nel 1778, è insieme a Voltaire uno dei filosofi dell’illuminismo. Tra le opere che influenzano la sensibilità romantica, oltre alle Confessions, La nouvelle Héloise e l’Emile: quest’ultimo contiene in particolare idee sull’educazione molto moderne. Per la storia del pensiero politico, fondamentale il suo Du contrat social.
[35] La fonte di questa citazione è wikisource, che propone una traduzione del testo del 1875 di Augusto Nomis di Cossilla.
[36] Si tratta di una persona che potrebbe essere realmente vissuta tra la fine del Quattrocento e la fine del Cinquecento in Germania: così sostiene Johan Georg Neuman nel 1640 nella sua Disquisitio storica de Fausto prestigiatore, che stabilisce il ritratto di Faust diventato appunto storico, definendolo come un mago itinerante. A lui certo si ispira, con la Tragical History of Doctor Faustus, il drammaturgo inglese Christopher Marlowe (1564-1593), la cui prima rappresentazione attestata è del 1594, ma che è stata composta nel 1588. Marlowe porta in scena caratteri ed episodi che vengono poi mutuati da Goethe, come la tragicità insita nel personaggio o l’amore per Elena di Troia.
Goethe ha modo di avvicinarsi al Doctor Faustus di Marlowe già in giovane età, durante uno spettacolo di marionette, detto Puppenspiel in tedesco.
[37] Da Simon Mago discende anche il peccato della simonia, la compravendita di cose sacre, che Dante stigmatizza nel XIX canto dell’Inferno, relegandoli nell’VIII cerchio, III bolgia. fra i fraudolenti puniti a testa in giù, con fiamme che bruciano i loro piedi.
[38] Né più mai toccherò le sacre sponde
ove il mio corpo fanciulletto giacque,
Zacinto mia, che te specchi nell'onde
del greco mar da cui vergine nacque
Venere, e fea quelle isole feconde
col suo primo sorriso, onde non tacque
le tue limpide nubi e le tue fronde
l'inclito verso di colui che l'acque
cantò fatali, ed il diverso esiglio
per cui bello di fama e di sventura
baciò la sua petrosa Itaca Ulisse.
Tu non altro che il canto avrai del figlio,
o materna mia terra; a noi prescrisse
il fato illacrimata sepoltura.
[39] Riporto qui il resto del testo del carme, dal punto in cui ho interrotto la citazione sopra:
Pur nuova legge impone oggi i sepolcri
Fuor de’ guardi pietosi, e il nome a’ morti
Contende. E senza tomba giace il tuo
Sacerdote, o Talia, che a te cantando
Nel suo povero tetto educò un lauro 55
Con lungo amore, e t’appendea corone;
E tu gli ornavi del tuo riso i canti
Che il lombardo pungean Sardanapalo,
Cui solo è dolce il muggito de’ buoi
Che dagli antri abduani e dal Ticino 60
Lo fan d’ozi beato e di vivande.
O bella Musa, ove sei tu? Non sento
Spirar l’ambrosia, indizio del tuo nume,
Fra queste piante ov’io siedo e sospiro
Il mio tetto materno. E tu venivi 65
E sorridevi a lui sotto quel tiglio
Ch’or con dimesse frondi va fremendo
Perchè non copre, o Dea, l’urna del vecchio,
Cui già di calma era cortese e d’ombre.
Forse tu fra plebei tumuli guardi 70
Vagolando, ove dorma il sacro capo
Del tuo Parini? A lui non ombre pose
Tra le sue mura la città, lasciva
D’evirati cantori allettatrice,
Non pietra, non parola; e forse l’ossa 75
Col mozzo capo gl’insanguina il ladro
Che lasciò sul patibolo i delitti.
Senti raspar fra le macerie e i bronchi
La derelitta cagna ramingando
Su le fosse e famelica ululando; 80
E uscir del teschio, ove fuggìa la Luna,
L’ùpupa, e svolazzar su per le croci
Sparse per la funerea campagna,
E l’immonda accusar col luttuoso
Singulto i rai di che son pie le stelle 85
Alle obblîate sepolture. Indarno
Sul tuo poeta, o Dea, preghi rugiade
Dalla squallida notte. Ahi! sugli estinti
Non sorge fiore ove non sia d’umane
Lodi onorato e d’amoroso pianto: 90
Dal dì che nozze e tribunali ed are
Dier alle umane belve esser pietose
Di sè stesse e d’altrui, toglieano i vivi
All’etere maligno ed alle fere
I miserandi avanzi che Natura 95
Con veci eterne a’ sensi altri destina.
Testimonianza a’ fasti eran le tombe,
Ed are a’ figli; e uscìan quindi i responsi
De’ domestici Lari, e fu temuto
Su la polve degli avi il giuramento: 100
Religïon che con diversi riti
Le virtù patrie e la pietà congiunta
Tradussero per lungo ordine d’anni.
Non sempre i sassi sepolcrali a’ templi
Fean pavimento; nè agl’incensi avvolto
De’ cadaveri il lezzo i supplicanti
Contaminò; nè le città fur meste
D’effigïati scheletri: le madri
Balzan ne’ sonni esterrefatte, e tendono
Nude le braccia su l’amato capo 110
Del lor caro lattante, onde nol desti
Il gemer lungo di persona morta
Chiedente la venal prece agli eredi
Dal santuario. Ma cipressi e cedri
Di puri effluvi i zefiri impregnando 115
Perenne verde protendean su l’urne
Per memoria perenne; e prezïosi
Vasi accogliean le lagrime votive.
Rapìan gli amici una favilla al Sole
A illuminar la sotterranea notte, 120
Perchè gli occhi dell’uom cercan morendo
Il Sole; e tutti l’ultimo sospiro
Mandano i petti alla fuggente luce.
Le fontane versando acque lustrali
Amaranti educavano e viole 125
Su la funebre zolla; e chi sedea
A libar latte o a raccontar sue pene
Ai cari estinti, una fragranza intorno
Sentia qual d’aura de’ beati Elisi.
Pietosa insania che fa cari gli orti 13
De’ suburbani avelli alle britanne
Vergini, dove le conduce amore
Della perduta madre, ove clementi
Pregaro i Geni del ritorno al prode
Che tronca fe’ la trîonfata nave
Del maggior pino, e si scavò la bara.
Ma ove dorme il furor d’inclite gesta
E sien ministri al vivere civile
L’opulenza e il tremore, inutil pompa
E inaugurate immagini dell’Orco
Sorgon cippi e marmorei monumenti.
Già il dotto e il ricco ed il patrizio vulgo,
Decoro e mente al bello Italo regno,
Nelle adulate reggie ha sepoltura
Già vivo, e i stemmi unica laude. A noi
Morte apparecchi riposato albergo,
Ove una volta la fortuna cessi
Dalle vendette, e l’amistà raccolga
Non di tesori eredità, ma caldi
Sensi e di liberal carme l’esempio.
A egregie cose il forte animo accendono
L’urne de’ forti, o Pindemonte; e bella
E santa fanno al peregrin la terra
Che le ricetta. Io quando il monumento
Vidi ove posa il corpo di quel grande
Che, temprando lo scettro a’ regnatori,
Gli allor ne sfronda, ed alle genti svela
Di che lagrime grondi e di che sangue;
E l’arca di colui che nuovo Olimpo
Alzò in Roma a’ Celesti; e di chi vide
Sotto l’etereo padiglion rotarsi
Più Mondi, e il Sole irradiarli immoto,
Onde all’Anglo che tanta ala vi stese
Sgombrò primo le vie del firmamento:
Te beata, gridai, per le felici
Aure pregne di vita, e pe’ lavacri
Che da’ suoi gioghi a te versa Apennino!
Lieta dell’aer tuo veste la Luna
Di luce limpidissima i tuoi colli
Per vendemmia festanti, e le convalli
Popolate di case e d’oliveti
Mille di fiori al ciel mandano incensi:
E tu prima, Firenze, udivi il carme
Che allegrò l’ira al Ghibellin fuggiasco,
E tu i cari parenti e l’idïoma
Dèsti a quel dolce di Calliope labbro,
Che Amore in Grecia nudo e nudo in Roma
D’un velo candidissimo adornando,
Rendea nel grembo a Venere Celeste;
Ma più beata che in un tempio accolte
Serbi l’Itale glorie, uniche forse
Da che le mal vietate Alpi e l’alterna
Onnipotenza delle umane sorti,
Armi e sostanze t’invadeano, ed are
E patria, e, tranne la memoria, tutto.
Che ove speme di gloria agli animosi
Intelletti rifulga ed all’Italia,
Quindi trarrem gli auspici. E a questi marmi
Venne spesso Vittorio ad ispirarsi,
Irato a’ patrii Numi; errava muto
Ove Arno è più deserto, i campi e il cielo
Desîoso mirando; e poi che nullo
Vivente aspetto gli molcea la cura,
Qui posava l’austero; e avea sul volto
Il pallor della morte e la speranza.
Con questi grandi abita eterno: e l’ossa
Fremono amor di patria. Ah sì! da quella
Religïosa pace un Nume parla:
E nutrìa contro a’ Persi in Maratona
Ove Atene sacrò tombe a’ suoi prodi,
La virtù greca e l’ira. Il navigante
Che veleggiò quel mar sotto l’Eubea,
Vedea per l’ampia oscurità scintille
Balenar d’elmi e di cozzanti brandi,
Fumar le pire igneo vapor, corrusche
D’armi ferree vedea larve guerriere
Cercar la pugna; e all’orror de’ notturni
Silenzi si spandea lungo ne’ campi
Di falangi un tumulto e un suon di tube
E un incalzar di cavalli accorrenti
Scalpitanti su gli elmi a’ moribondi,
E pianto, ed inni, e delle Parche il canto.
Felice te che il regno ampio de’ venti,
Ippolito, a’ tuoi verdi anni correvi!
E se il piloto ti drizzò l’antenna
Oltre l’isole Egée, d’antichi fatti
Certo udisti suonar dell’Ellesponto
I liti, e la marea mugghiar portando
Alle prode Retèe l’armi d’Achille
Sovra l’ossa d’Ajace: a’ generosi
Giusta di glorie dispensiera è morte:
Nè senno astuto, nè favor di regi
All’Itaco le spoglie ardue serbava,
Chè alla poppa raminga le ritolse
L’onda incitata dagl’inferni Dei.
E me che i tempi ed il desio d’onore
Fan per diversa gente ir fuggitivo,
Me ad evocar gli eroi chiamin le Muse
Del mortale pensiero animatrici.
Siedon custodi de’ sepolcri, e quando
Il tempo con sue fredde ale vi spazza
Fin le rovine, le Pimplèe fan lieti
Di lor canto i deserti, e l’armonia
Vince di mille secoli il silenzio.
Ed oggi nella Tròade inseminata
Eterno splende a’ peregrini un loco
Eterno per la Ninfa a cui fu sposo
Giove, ed a Giove diè Dàrdano figlio,
Onde fur Troja e Assàraco e i cinquanta
Talami e il regno della Giulia gente.
Però che quando Elettra udì la Parca
Che lei dalle vitali aure del giorno
Chiamava a’ cori dell’Eliso, a Giove
Mandò il voto supremo: E se diceva,
A te fur care le mie chiome e il viso
E le dolci vigilie, e non mi assente
Premio miglior la volontà de’ fati,
La morta amica almen guarda dal cielo
Onde d’Elettra tua resti la fama.
Così orando moriva. E ne gemea
L’Olimpio; e l’immortal capo accennando
Piovea dai crini ambrosia su la Ninfa
E fe’ sacro quel corpo e la sua tomba.
Ivi posò Erittonio: e dorme il giusto
Cenere d’Ilo; ivi l’Iliache donne
Sciogliean le chiome, indarno, ahi! deprecando
Da’ lor mariti l’imminente fato;
Ivi Cassandra, allor che il Nume in petto
Le fea parlar di Troja il dì mortale,
Venne; e all’ombre cantò carme amoroso,
E guidava i nepoti, e l’amoroso
Apprendeva lamento a’ giovinetti.
E dicea sospirando: Oh se mai d’Argo,
Ove al Tidide e di Laerte al figlio
Pascerete i cavalli, a voi permetta
Ritorno il cielo, invan la patria vostra
Cercherete! le mura, opra di Febo,
Sotto le lor reliquie fumeranno;
Ma i Penati di Troja avranno stanza
In queste tombe; chè de’ Numi è dono
Servar nelle miserie altero nome.
E voi palme e cipressi che le nuore
Piantan di Priamo, e crescerete ahi! presto
Di vedovili lagrime innaffiati.
Proteggete i miei padri: e chi la scure
Asterrà pio dalle devote frondi
Men si dorrà di consanguinei lutti
E santamente toccherà l’altare,
Proteggete i miei padri. Un dì vedrete
Mendico un cieco errar sotto le vostre
Antichissime ombre, e brancolando
Penetrar negli avelli, e abbracciar l’urne,
E interrogarle. Gemeranno gli antri
Secreti, e tutta narrerà la tomba
Ilio raso due volte e due risorto
Splendidamente su le mute vie
Per far più bello l’ultimo trofeo
Ai fatati Pelìdi. Il sacro vate,
Placando quelle afflitte alme col canto,
I prenci argivi eternerà per quante
Abbraccia terre il gran padre Oceàno.
E tu, onore di pianti, Ettore, avrai,
Ove fia santo e lagrimato il sangue
Per la patria versato, e finchè il Sole
Risplenderà su le sciagure umane.
[40] Un integrale on line del testo si trova all’indirizzo http://www.letteraturaitaliana.net/pdf/Volume_8/t167.pdf
[41] Ma al pari di un sogno è effimera/la preziosa giovinezza scrive Mimnermo nel VII secolo.
[42] Non indico le fonti di cui mi sono servita per la dispensa in sé ma alcuni dei testi che ho inserito e altri che possono servire per decidere quali approfondimenti effettuare. Includo anche suggerimenti di ascolto di musiche. L’elenco non è ordinato secondo alfabeto, ma riproduce la disposizione degli argomenti nel testo.
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