LEZIONE DELL'8 NOVEMBRE - SALLUSTIO
PER
ARRIVARE AL DE CATILINAE CONIURATIONE (da Treccani.it)
La vita di Sallustio è
torbida come i tempi nei quali si è trovato a vivere e alterna rapide ascese a
repentine cadute; dopo la morte di Cesare, suo referente politico, decide di
dedicarsi alla storiografia e consegna a due succinte monografie la sua
disincantata visione della storia di Roma, una storia segnata da tempo da una
decadenza che appare inarrestabile e che anzi Sallustio, a mano a mano che
approfondisce la sua riflessione, proietta sempre più indietro nella vicenda
della città. Solo poche figure eccezionali sembrano emergere dalla palude: in
occasione della congiura di Catilina sono Cesare e Catone il Giovane, durante
la guerra giugurtina è Gaio Mario, l’uomo nuovo, il provinciale senza titoli
nel suo blasone, ma portatore di quella moralità integerrima e disinteressata
cui l’aristocrazia tradizionale ha ormai abdicato.
Le monografie
sallustiane presentano numerosi punti di contatto: entrambe sono aperte da un
ampio proemio, nel quale l’autore giustifica la scelta di dedicarsi alla
storiografia, rievoca la propria deludente esperienza politica, dalla quale
prende nettamente le distanze, e traccia un quadro disincantato della società
contemporanea; in entrambe il resoconto delle vicende narrate è interrotto da excursus più o meno estesi, che hanno la
funzione di allargare il quadro prospettico e indicare le grandi tendenze della
storia di Roma al cui interno si inseriscono e trovano senso i fatti oggetto
del racconto. Soprattutto, costante rimane il bisogno di fondo cui l’intera
opera storica risponde: la volontà di trovare una spiegazione alla crisi nella
quale si dibatte da tempo Roma, e alla quale anche l’esperienza del regime cesariano
non è stata in grado di opporre un rimedio efficace.
La percezione della
storia recente di Roma come storia di una lunga crisi precede di molto
Sallustio e nasce con il nascere stesso della storiografia: per Catone il
Vecchio la decadenza è già iniziata ai suoi tempi; gli storici dei decenni
successivi si sforzano di individuare il punto di svolta, il momento a partire
dal quale il pendolo della storia ha cambiato direzione; col tempo si impone la
data del 146 a.C., l’anno della distruzione di Cartagine, che per oltre un
secolo aveva conteso a Roma l’egemonia sul Mediterraneo, mettendone in forse la
stessa sopravvivenza. Quel nemico, e la paura che esso ispirava, avevano avuto
l’effetto di tenere compatta la società, impedendo l’affermarsi di interessi
individuali su un interesse collettivo così gravemente minacciato; ma allorché
il metus hostilis, la paura del
nemico, era venuta meno, si erano scatenate le ambizioni individuali, lo
spirito di fazione, la riduzione della classe di governo a cricca preoccupata
solo di ingrassare a spese delle province e di perpetuarsi impedendo qualsiasi
mutamento dello status quo.
Sallustio condivide
questo paradigma interpretativo: negli excursus
del De Catilinae coniuratione come nella digressione posta al centro del Bellum Iugurthinum la Roma arcaica è
modello di virtù civica e dedizione al bene comune; anche i paesi conquistati
sono gestiti in origine con equilibrio e senso della giustizia, senza
sopraffazione e nel rispetto dei sottomessi. Ma la sconfitta di Cartagine segna
l’avvio della fase discendente: l’arricchimento generalizzato assicurato dalle
conquiste è per Sallustio il primo veleno inoculato in un corpo in precedenza
sano; l’avidità (avaritia) trascina
quindi con sé gli altri vizi, in particolare l’amore per il lusso (luxuria), in una spirale che si avvita
su se stessa e della quale fanno le spese anche i sudditi, costretti ora a
subire un potere “crudele e intollerabile”. Nella monografia su Catilina
peraltro Sallustio propone una scansione più articolata: in un primo tempo a
emergere è soprattutto l’ambizione (ambitio),
un vizio che conserva però ancora un rapporto con la virtù; la degenerazione
definitiva si compie nell’età di Silla, in particolare con la prolungata
esposizione delle truppe romane al contatto con la corrotta cultura orientale
in occasione delle campagne contro il re del Ponto Mitridate. Nelle più tarde,
per composizione, Historiae il
pessimismo sembra invece estendersi anche alle epoche più remote della storia
di Roma, anch’esse tutt’altro che immuni dai vizi che dominano nell’età dello
storico. Alla luce di queste premesse, le monografie acquistano la natura di
micro-segmenti di storia scelti non tanto per la rilevanza oggettiva dei fatti
raccontati, il cui peso era stato tutto sommato limitato, quanto perché
rappresentano altrettanti momenti in cui la crisi che attanaglia Roma nella
contemporaneità dello storico si è manifestata in tutta la sua drammaticità.
IL DE CATILINAE CONIURATIONE
Nel 63 a.C., l’anno in
cui era console una delle intelligenze più brillanti della Roma
tardo-repubblicana, Cicerone, Lucio Sergio Catilina, un nobile decaduto,
arricchitosi con le proscrizioni sillane ma poi precipitato nuovamente in
miseria, si pone a capo di un movimento eversivo che raccoglie seguaci sia tra
gli aristocratici indebitati che tra la plebe urbana. Il putsch progettato da
Catilina – che negli anni precedenti ha tentato invano di raggiungere il
consolato – prevede la liquidazione di Cicerone, una vasta strage di senatori e
l’occupazione manu militari del potere; più vago quello che avrebbe dovuto far
seguito all’eventuale successo della congiura: i catilinari criticano ferocemente
le disuguaglianze sociali della Roma contemporanea, la scandalosa ricchezza dei
pochissimi, la chiusura dei ranghi politici al merito, la concentrazione del
potere nelle mani di una cerchia ristretta; di fatto però sembrano mirare
semplicemente ad aver parte alla spartizione di quelle ricchezze e di quel
potere. Alla fine, il progetto naufraga: molti dei complici di Catilina vengono
arrestati e giustiziati; il leader del movimento si rifugia in Etruria, dove è
raggiunto e liquidato dalle truppe regolari all’inizio del 62 a.C. Cicerone è
portato alle stelle come salvatore della patria, l’aristocrazia ottimate tira
un sospiro di sollievo, anche se sui retroscena di quel delicatissimo episodio
si continuerà a discutere per anni.
Per Sallustio la
congiura di Catilina manifesta drammaticamente la crisi della tarda repubblica;
al tempo stesso, essa costituisce un modello negativo di possibile fuoriuscita
dalla crisi stessa: benché le denunce dei catilinari coincidano con quanto lo
stesso storico lamenta ripetutamente negli excursus delle due monografie,
inaccettabile è la scelta di scorciatoie autoritarie, l’adozione della violenza
come strumento di risoluzione dei problemi. Ma la monografia ha probabilmente
anche un fine meno confessabile. In modi che non conosceremo mai sino in fondo,
i piani di Catilina avevano lambito, e forse coinvolto, lo stesso Cesare; un
primo progetto di congiura, messo a punto già nel 65 a.C., prevedeva
addirittura che l’ex sillano Crasso assumesse la dittatura e che Cesare
diventasse il suo vice. Con grande abilità, Sallustio scagiona il dittatore
scomparso dall’accusa di complicità con Catilina: Cesare giganteggia anzi nel
discorso tenuto in senato circa la punizione da infliggere ai catilinari,
distinguendosi per una proposta che, se rifiuta la sommaria condanna a morte
proposta da altri, non è meno ferma nei confronti dei partecipanti al piano
eversivo.
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