LEZIONE DEL 25 GENNAIO - selezione di versi da LUCREZIO e inizio di commento sul testo latino

L'inizio del De rerum natura è noto come inno a Venere. Il poeta romano che si è assegnato il compito di tradurre in versi latini, rendendolo poema (didascalico, filosofico ed epico al contempo), il pensiero filosofico di Epicuro, pensiero materialista e ateo, esordisce con un omaggio a una divinità. Non c'è contraddizione, tuttavia. Per quanto la poesia possa rendere consistente un'idea, renderla vera in quel modo particolare che le è riservato (alla poesia), qui non si tratta di avvalorare l'esistenza delle divinità, ma di recare omaggio a un principio, che i materialisti epicurei riconoscevano come uno dei due ai quali spetta il compito di determinare il compiersi degli eventi e dare forma all'esistente: il principio vitalistico. Più precisamente, l'altro nome dell'amore, al quale potrebbe persino valere la pena di assegnare la maiuscola. Venere, nell'inno che le dedica Lucrezio, è l'Amore, la vita che si manifesta primariamente, essenzialmente, per via di questa attrazione irresistibile che il poeta (malato d'amore per tutta la vita, forse, e magari le cronache cristiane che miravano subdolamente a infamarlo avevano pur colto qualcosa di lui) provava per questa componente travolgente dell'esistenza di tutti. Amore e bellezza (anche questa si può avere la tentazione di scriverla con la maiuscola) incarnate nella creatura bellissima che i muthoi originari immaginarono sorgere dalle acque del mare (quello greco, s'intende) e che negli ispirati esametri di Lucrezio è onorata con svariati epiteti, genetrix, voluptas, alma per cominciare, la cui etimologia può rappresentare un nostro interessante punto di partenza. Genetrix da gigno, che significa genero fa subito riferimento alla nascita, e certo non si può trascurare anche l'omaggio, forse un'excusatio per aver scelto un argomento così antiromano, alla stirpe romana, quegli Aeneadum, discendenti di Enea, già figlio di Venere oltre che del mortale Anchise. Più che tale omaggio, che ammettiamo, conta però l'enfatizzazione della funzione generatrice, una maternità estesa a tutti gli esseri, di cui lei, la creatura bellissima, è fonte d'ispirazione in quanto voluptas, voce etimologicamente imparentata con vis, volo, ma anche con opto (desidero, scelgo). Nell'intreccio semantico si riconosce un pensiero, nonché una proficua immaginazione: potenza (vis), volontà (volo) e desiderio (opto) uniti a dare luogo a un principio del piacere (voluptas) che la cosmogonia greco-romana comprende fra l'altro fra le sue divinità (Voluptas sarebbe nata da Amore e Psiche, come racconta Apuleio nelle sue Metamorfosi nel II secolo d. C.). Qui però voluptas è Venere, che è anche alma, da alo che significa nutro, con riferimento proprio alla funzione di nutrice, attraverso un prodotto del proprio stesso corpo, il latte. La concatenazione di aggettivi e di verbi che segue a questa già potente evocazione del principio vitalistico non fa che consolidare l'impianto dell'inno: concelebras, tu riempi di vita, popoli, unione di cum e di celeber, aggettivo che indica affollamento di elementi, ravvicinati dal cum. A diventare affollati per via del principio vitalistico in azione, col suo portato di vis e di desiderium, sono il mare, le terre, popolati e sovrappopolati di esseri, un mondo che ribolle e pullulla, ma si dipinge anche mentre leggiamo questi versi e meditiamo su ogni singolo termine prescelto dal poeta della leggerezza.  CB (modello)


TESTO LATINO
TRADUZIONE CB
Aeneadum genetrix, hominum divumque voluptas,
alma Venus, caeli subter labentia signa
quae mare navigerum, quae terras frugiferentis
concelebras, per te quoniam genus omne animantum
concipitur visitque exortum lumina solis: 5
te, dea, te fugiunt venti, te nubila caeli
adventumque tuum, tibi suavis daedala tellus
summittit flores, tibi rident aequora ponti
placatumque nitet diffuso lumine caelum.
Nam simul ac species patefactast verna diei 10
et reserata viget genitabilis aura favoni,
aeriae primum volucris te, diva, tuumque
significant initum perculsae corda tua vi.
inde ferae pecudes persultant pabula laeta 15
et rapidos tranant amnis: ita capta lepore
te sequitur cupide quo quamque inducere pergis.
denique per maria ac montis fluviosque rapacis
frondiferasque domos avium camposque virentis
omnibus incutiens blandum per pectora amorem
efficis ut cupide generatim saecla propagent. 20
Quae quoniam rerum naturam sola gubernas
nec sine te quicquam dias in luminis oras
exoritur neque fit laetum neque amabile quicquam,
te sociam studeo scribendis versibus esse,
quos ego de rerum natura pangere conor 25
Memmiadae nostro, quem tu, dea, tempore in omni
omnibus ornatum voluisti excellere rebus.
Quo magis aeternum da dictis, diva, leporem,
effice ut interea fera moenera militiai
per maria ac terras omnis sopita quiescant; 30
nam tu sola potes tranquilla pace iuvare
mortalis, quoniam belli fera moenera Mavors
armipotens regit, in gremium qui saepe tuum se
reiicit aeterno devictus vulnere amoris,
atque ita suspiciens tereti cervice reposta 35
pascit amore avidos inhians in te, dea, visus
eque tuo pendet resupini spiritus ore.
Hunc tu, diva, tuo recubantem corpore sancto
circum fusa super, suavis ex ore loquellas
funde petens placidam Romanis, incluta, pacem; 40
nam neque nos agere hoc patriai tempore iniquo
possumus aequo animo nec Memmi clara propago
talibus in rebus communi desse saluti.
 [...]
     Humana ante oculos foede cum vita iaceret               
in terris oppressa gravi sub religione,
quae caput a caeli regionibus ostendebat
horribili super aspectu mortalibus instans,               65
primum Graius homo mortalis tollere contra
est oculos ausus primusque obsistere contra;
quem neque fama deum nec fulmina nec minitanti
murmure compressit caelum, sed eo magis acrem
inritat animi virtutem, effringere ut arta               70
naturae primus portarum claustra cupiret.
Ergo vivida vis animi pervicit et extra
processit longe flammantia moenia mundi
atque omne immensum peragravit mente animoque,
unde refert nobis victor quid possit oriri,               75
quid nequeat,  finita potestas denique cuique
qua nam sit ratione atque alte terminus haerens.
Quare religio pedibus subiecta vicissim
obteritur, nos exaequat victoria caelo.
     Illud in his rebus vereor, ne forte rearis               80
impia te rationis inire elementa viamque
indugredi sceleris.  Quod contra saepius illa
religio peperit scelerosa atque impia facta.
Aulide quo pacto Triviai virginis aram
Iphianassai turparunt sanguine foede               85
ductores Danaum delecti, prima virorum.
Cui simul infula virgineos circum data comptus
ex utraque pari malarum parte profusast,
et maestum simul ante aras adstare parentem
sensit et hunc propter ferrum celare ministros               90
aspectuque suo lacrimas effundere civis,
muta metu terram genibus summissa petebat.
Nec miserae prodesse in tali tempore quibat,
quod patrio princeps donarat nomine regem;
nam sublata virum manibus tremibundaque ad aras               95
deductast, non ut sollemni more sacrorum
perfecto posset claro comitari Hymenaeo,
sed casta inceste nubendi tempore in ipso
hostia concideret mactatu maesta parentis,
exitus ut classi felix faustusque daretur.               100
Tantum religio potuit suadere malorum.

Madre degli Eneadi, principio del piacere per esseri umani e divini, Venere nutrice che,  sotto le stelle in moto nei cieli, riempi di vita il mare solcato di navi, riempi di vita le terre feconde, poiché sei tu a determinare il concepimento di ogni essere animato, ed è grazie a te che le creature vedono la luce del sole: ti fuggono i venti, fuggono te e il tuo arrivo le nubi del cielo, per te la terra fa germogliare i dolci fiori, per te sorridono le acque del mare e il cielo, rasserenato, risplende di luce diffusa. Infatti non appena si disvela l’aspetto primaverile del giorno e, libero, prende vigore il soffio del favonio fecondatore, per primi gli uccelli del cielo annunciano te, o dea, e il tuo avvento, colpiti al cuore dalla tua forza. Poi gli animali di terra, selvaggi e domestici, balzano lieti per i pascoli e attraversano a nuoto torrenti rapinosi: similmente tutti, preda del tuo fascino, ti seguono ovunque li voglia sospingere.  E infine, per mari e monti, fiumi vorticosi, frondose dimore di uccelli, campi verdeggianti, insinuando nei petti un dolce sentire, fai in modo che le stirpi, figlie del desiderio, si perpetuino specie per specie. E poiché tu sola governi la natura delle cose,  senza di te niente di bello giunge alle spiagge della luce e non accade niente di piacevole e rallegrante,  ti chiedo di assistermi nella composizione di questi versi che io tento di dedicare alla natura delle cose per il nostro discendente di Memmio che  tu, o dea, hai voluto eccellesse in ogni tempo adorno di tutte le virtù. Conferisci, o dea, grazia eterna alle mie parole, fai in modo che nel frattempo le crudeli operazioni militari, sedate, cessino ovunque, per mare e per terra; infatti solo tu puoi gratificare i mortali con una rasserenante pace, visto che a governare le feroci  imprese guerresche è il bellicoso Marte, che spesso si abbandona sul tuo seno, ferito d’amore eterno, e così reclinato nutre d’amore i suoi sguardi avidi rivolti a te, e le sue labbra pendono dalle tue. Tu, o dea, abbracciandolo  con le tue sacre membra mentre giace sotto di te, parlagli dolcemente chiedendo  benigna pace per i Romani: infatti io non posso dedicarmi  serenamente a questo poema in un momento difficile per la patria e nemmeno l’illustre progenie di Memmio può sottrarsi ai doveri militari in simili circostanze.  [...]
In un tempo in cui la vita umana giaceva a terra, con un effetto sgradevole,  piegata sotto il giogo opprimente della superstizione, che incombeva sui mortali  dalle regioni celesti  con aspetto orribile, per la prima volta un mortale, un Greco, osò sollevarle gli occhi in viso e, per primo, opporle resistenza; non lo frenarono le dicerie sugli dei, e nemmeno i fulmini e i tuoni del cielo, che tanto più ne stimolano l’ingegno al punto da indurlo, per primo, a disserrare gli stretti catenacci delle porte della natura.  Dunque la sua potente forza d’animo ebbe la meglio, egli avanzò lungo le mura fiammeggianti del mondo e penetrò con la profondità del pensiero tutto ciò che esiste, per riferirci, vittorioso, che cosa possa nascere, cosa non possa, per quale legge ogni cosa abbia un fine determinato  e un limite profondamente infisso. E così la superstizione, posta a sua volta sotto i piedi, viene calpestata, e la vittoria ci innalza al cielo.
Ho paura che dalle mie parole si possa pensare che ti voglia introdurre ai principî di una filosofia empia, additare una via delittuosa. Viceversa, si è verificato più spesso che la superstizione dettasse atti scellerati e empi.
Fu questo il caso in Aulide: comandanti scelti dei Danai, fior fiore di eroi, profanarono l’altare di Diana col sangue di Ifianasse. Non appena la benda ricadde da due lati sulle sue chiome virginee, ed ella percepì la mestizia del padre accanto a lei davanti all’altare, che per lui i sacerdoti nascondevano la spada e i concittadini piangevano a vederla, muta per il terrore, si prostrava alle sue ginocchia. Ma non poteva giovarle, poveretta, in una simile circostanza, essere stata la prima a chiamarlo padre; infatti, venne sollevata da mani maschili e fu portata all’altare, non perché, compiuto il rito matrimoniale, ottenesse l’accompagnamento dello splendido Imeneo, ma perché, turpemente casta, nel momento deputato per le nozze, venga immolata, triste vittima, dal padre,  perché sia concessa una fausta partenza alla flotta. A un simile abominio poté indurre la superstizione.

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