MACHIAVELLI - LETTERA AL VETTORI - lezione di venerdì 27

Lettera a Francesco Vettori

(Lettere, 11)

È il testo integrale della  lettera scritta il 10 dicembre 1513 da Machiavelli all'amico Francesco Vettori (ambasciatore a Roma presso Leone X), mentre si trovava nel suo forzato ritiro all'Albergaccio, dopo il presunto coinvolgimento nella congiura anti-medicea di quello stesso anno.  La lettera contiene, nella parte conclusiva, l'annuncio dell'avvenuta composizione del Principe, denominato De principatibus,  un "opuscolo", così si esprime l'autore,  concernente le tecniche di governo, attraverso il quale  Machiavelli sperava di recuperare  il favore dei Medici e, soprattutto,  un  incarico di governo: l'opera avrebbe dimostrato loro la sua competenza negli affari di Stato, maturata durante il quindicennio di servizio alla Repubblica.








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MAGNIFICO ORATORI FLORENTINO FRANCISCO VECTORI APUD SUMMUM PONTIFICEM ET BENEFACTORI SUO. ROMAE. [1]

Magnifico ambasciatore. Tarde non furon mai grazie divine. [2] Dico questo, perché mi pareva haver perduta no, ma smarrita la grazia vostra, sendo stato voi assai tempo senza scrivermi; ed ero dubbio donde potessi nascere la cagione. [3] E di tutte quelle mi venivono nella mente tenevo poco conto, salvo che di quella quando io dubitavo non vi havessi ritirato da scrivermi, perché vi fussi suto scritto che io non fussi buon massaio [4] delle vostre lettere; e io sapevo che, da Filippo e Pagolo [5] in fuora, altri per mio conto non le haveva viste. Honne rihauto per l'ultima vostra de' 23 del passato, dove io resto contentissimo vedere quanto ordinatamente e quietamente voi esercitate cotesto ufizio publico [6]; e io vi conforto a seguire così, perché chi lascia i sua comodi per li comodi d'altri, e’ perde e’ sua, e di quelli non li è saputo grado. [7] E poiché la fortuna vuol fare ogni cosa, ella si vuole lasciarla fare, stare quieto e non le dare briga, e aspettar tempo che la lasci fare qualche cosa agl’huomini; e all’hora starà bene a voi durare più fatica, vegliar più le cose, e a me partirmi di villa [8] e dire: eccomi. Non posso pertanto, volendo rendere pari grazie, dirvi in questa mia lettera altro che qual sia la vita mia; e se voi giudicate che sia a barattarla con la vostra, io sarò contento mutarla. Io mi sto in villa; e poi che seguirono quelli miei ultimi casi [9], non sono stato, ad accozzarli tutti, venti dí a Firenze. Ho insino a qui uccellato a' tordi di mia mano. Levavomi innanzi dí, impaniavo, andavone oltre con un fascio di gabbie addosso, che parevo el Geta quando e' tornava dal porto con i libri di Amphitrione [10]; pigliavo el meno dua, el più sei tordi. E cosí stetti tutto settembre. Di poi questo badalucco [11], ancoraché dispettoso e strano, è mancato con mio dispiacere: e quale la vita mia vi dirò. Io mi lievo la mattina con el sole, e vòmmene in un mio bosco che io fo tagliare, dove sto dua ore a rivedere l'opere del giorno passato, e a passar tempo con quegli tagliatori, che hanno sempre qualche sciagura alle mani o fra loro o co' vicini. E circa questo bosco io vi harei a dire mille belle cose che mi sono intervenute, e con Frosino da Panzano e con altri che voleano di queste legne. E Frosino in spezie mandò per certe cataste senza dirmi nulla; e al pagamento, mi voleva rattenere dieci lire, che dice aveva havere da me quattro anni sono, che mi vinse a cricca [12] in casa Antonio Guicciardini. Io cominciai a fare el diavolo, volevo accusare el vetturale [13], che vi era ito per esse, per ladro. Tandem Giovanni Machiavelli vi entrò di mezzo, e ci pose d'accordo. Batista Guicciardini, Filippo Ginori, Tommaso del Bene e certi altri cittadini, quando quella tramontana soffiava, ognuno me ne prese una catasta. Io promessi a tutti; e manda'ne una a Tommaso, la quale tornò a Firenze per metà, perché a rizzarla vi era lui, la moglie, la fante, i figlioli, che pareva el Gaburra [14] quando el giovedí con quelli suoi garzoni bastona un bue. Dimodoché, veduto in chi era guadagno, ho detto agli altri che io non ho più legne; e tutti ne hanno fatto capo grosso [15], e in specie Batista, che connumera questa tra le altre sciagure di Prato.
Partitomi del bosco, io me ne vo ad una fonte, e di quivi in un mio uccellare. [16] Ho un libro sotto, o Dante o Petrarca, o uno di questi poeti minori, come Tibullo, Ovidio e simili: leggo quelle loro amorose passioni, e quelli loro amori ricordomi de' mia: gòdomi un pezzo in questo pensiero. Transferiscomi poi in sulla strada, nell'hosteria; parlo con quelli che passono, dimando delle nuove de' paesi loro; intendo varie cose, e noto varii gusti e diverse fantasie d'huomini. Viene in questo mentre l'hora del desinare, dove con la mia brigata mi mangio di quelli cibi che questa povera villa e paululo patrimonio comporta. [17] Mangiato che ho, ritorno nell'hosteria: quivi è l'hoste, per l'ordinario, un beccaio, un mugnaio, dua fornaciai. Con questi io m'ingaglioffo per tutto dí giuocando a cricca, a trich-trach [18], e poi dove nascono mille contese e infiniti dispetti di parole iniuriose; e il più delle volte si combatte un quattrino, e siamo sentiti non di manco gridare da San Casciano. Cosí, rinvolto in tra questi pidocchi, traggo el cervello di muffa, e sfogo questa malignità di questa mia sorta, sendo contento mi calpesti per questa via, per vedere se la se ne vergognassi.
Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nel mio scrittoio [19]; e in sull'uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e ch’io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro humanità mi rispondono; e non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi transferisco in loro.
E perché Dante dice [20] che non fa scienza sanza lo ritenere lo havere inteso - io ho notato quello di che per la loro conversazione ho fatto capitale, e composto uno opuscolo [21] De principatibus; dove io mi profondo quanto io posso nelle cogitazioni di questo subietto, disputando che cosa è principato, di quale spezie sono, come e' si acquistono, come e' si mantengono, perché e' si perdono. E se vi piacque mai alcuno mio ghiribizzo, questo non vi doverrebbe dispiacere; e a un principe, e massime a un principe nuovo, doverrebbe essere accetto: però io lo indirizzo alla Magnificentia di Giuliano. [22] Filippo Casavecchia l'ha visto; vi potrà ragguagliare in parte e della cosa in sé e de' ragionamenti ho hauto seco, ancora che tutta volta io l'ingrasso e ripulisco. [23]
Voi vorresti, magnifico ambasciatore, che io lasciassi questa vita, e venissi a godere con voi la vostra. Io lo farò in ogni modo; ma quello che mi tenta hora è certe mie faccende, che fra sei settimane l'harò fatte. Quello che mi fa star dubbio è, che sono costí quelli Soderini, e quali sarei forzato, venendo costí, visitarli e parlar loro. Dubiterei che alla tornata mia io non credessi scavalcare a casa, e scavalcassi nel Bargiello [24]; perché, ancora che questo stato habbia grandissimi fondamenti e gran securità, tamen egli è nuovo, e per questo sospettoso; né manca di saccenti, che per parere, come Pagolo Bertini, metterebbono altri a scotto, e lascierebbono el pensiero a me. [25] Pregovi mi solviate questa paura, e poi verrò in fra el tempo detto a trovarvi a ogni modo.
Io ho ragionato con Filippo di questo mio opuscolo, se gli era ben darlo o non lo dare; e, sendo ben darlo, se gli era bene che io lo portassi, o che io ve lo mandassi. Il non lo dare mi faceva dubitare che da Giuliano e' non fussi, non che altro, letto; e che questo Ardinghelli [26] si facessi onore di questa ultima mia fatica. El darlo mi faceva la necessità che mi caccia, perché io mi logoro, e lungo tempo non posso stare cosí che io non diventi per povertà contennendo. [27] Appresso al desiderio harei che questi signori Medici mi cominciassino adoperare, se dovessino cominciare a farmi voltolare un sasso [28]; perché, se poi io non me gli guadagnassi, io mi dorrei di me; e per questa cosa, quando la fussi letta, si vedrebbe che quindici anni, che io sono stato a studio all'arte dello stato [29], non gli ho né dormiti né giuocati; e doverrebbe ciascheduno haver caro servirsi di uno che alle spese di altri fussi pieno di esperienza. E della fede mia non si doverrebbe dubitare, perché, havendo sempre observato la fede, io non debbo imparare hora a romperla; e chi è stato fedele e buono quarantatré anni, che io ho, non debbe poter mutare natura; e della fede e bontà mia ne è testimonio la povertà mia. Desidererei adunque che voi ancora mi scrivessi quello che sopra questa materia vi paia. E a voi mi raccomando. Sis felix[30]

Die 10 Decembris 1513.
NICCOLÒ MACHIAVEGLI in Firenze

[1] Al magnifico oratore fiorentino Francesco Vettori, ambasciatore presso il sommo pontefice e mio benefattore. A Roma. [2] La grazia di un dio non giunge mai tardi. [3] Mi chiedevo quale potesse esserne la ragione.
[4]
 Custode discreto. [5] Filippo Casavecchia, comune amico, e Paolo Vettori, fratello di Francesco. [6] Si riferisce all'incarico diplomatico. [7] Chi lascia i propri comodi per quelli altrui, perde i propri senza ottenere riconoscenza. [8] Dalla campagna.
[9] Allude all'arresto e al confino.

[10] Allude a un novella del XV sec., Geta e Birria, derivata dall'Amphitruo di Plauto.
[11] Passatempo.




[12] Si tratta di un gioco d'azzardo con le carte. [13] Il conduttore del carro, il carrettiere.


[14] 
Un macellaio. [15] Se ne sono lagnati.


[16] In una mia uccelliera.




[17] E un piccolo patrimonio consente.
[18] Un gioco con pedine e dadi.




[19] Nel mio studio.






[20] Cfr. Par., V.41-42.
[21] Un libriccino (si tratta del Principe, qui indicato col titolo latino).

[22] Giuliano de' Medici, primo dedicatario del trattato.
[23] Anche se di continuo lo arricchisco e lo correggo.

[24] Avrei paura, una volta rientrato, di finire subito in carcere (Pier Soderini era stato Gonfaloniere della Repubblica).
[25] Metterebbero gli altri nei guai e toccherebbe a me uscirne.


[26] Piero Ardighelli, segretario di Leone X e nemico di Machiavelli.
[27] Disprezzabile.

[28] Metafora per indicare un incarico di poco conto.
[29] Allusione al servizio alla Repubblica (1498-1512).


[30] Sii felice (formula latina del linguaggio epistolare).


Interpretazione complessiva

  • La prima parte della lettera contiene la descrizione, pervasa di ironia e autoironia, di  una giornata tipo di Machiavelli all'Albergaccio, il podere di S. Casciano in cui era stato confinato dopo l'arresto nel febbraio 1513 e dove conduceva una vita impegnata in affari di ordinaria amministrazione. Egli paragona questa esistenza comune e umile sia all'incarico diplomatico del Vettori, ambasciatore a Roma presso il papa sia, implicitamente, alla sua vita passata: racconta  di alzarsi presto la mattina e di seguire il taglio della legna in un bosco di sua proprietà, dove assiste agli alterchi dei boscaioli e litiga con gli acquirenti che vogliono truffarlo sul prezzo; legge Dante e Petrarca per svagarsi e poi, il pomeriggio, trascorre il tempo all'osteria giocando d'azzardo con altri avventori del paese, per trarre "el cervello di muffa" e scordare la malignità della sorte che gli è toccata (in questo passaggio si rende  evidente l'insofferenza per l'esilio forzato e l'allontanamento dagli incarichi pubblici decretato dai Medici ai suoi danni). L'inizio della lettera è colloquiale,  Machiavelli si rallegra per aver ricevuto una missiva dall'amico Francesco, temendo che non gli scrivesse più perché pensava che lui avesse mostrato le sue lettere a qualcuno, cosa da evitare dato il carattere confidenziale delle conversazioni; l'autore cita a proposito Filippo Casavecchia, uomo politico fiorentino amico di entrambi (anche più avanti, parlando del Principe) e Paolo Vettori, fratello di Francesco, come i soli cui abbia mostrato le lettere del suo corrispondente.
  • La seconda parte della lettera descrive anzitutto le sue occupazioni all'Albergaccio una volta arrivata la sera, quando entra nel suo scrittoio (studio) dopo essersi tolto i vestiti di ogni giorno, metaforicamente sporchi di fango, e indossando panni reali e curiali, con i quali entra nelle antique corti delli antiqui huomini attraverso la lettura delle opere degli storiografi del passato: è evidente lo stacco anche stilistico rispetto alle righe precedenti, e particolarmente efficace è l'immagine dell'autore sente profondamente di dialogare con gli scrittori dell'antichità classica, attività alla quale si dedica senza provare la minima noia e scordando le miserie del presente (tutto mi transferisco in loro). Machiavelli annuncia poi la composizione di un opuscolo intitolato De principatibus (Sui principati, titolo latino del Principe) in cui spiega che cosa è principato, di quale spezie sono, come e' si acquistono, come e' si mantengono, perché e' si perdono, che ha scritto nella speranza di dimostrare ai Medici la sua competenza negli affari di Stato e di ottenere un qualche incarico politico. Si tratta della prima testimonianza a noi giunta della scrittura dell'opera (l'autore probabilmente l'aveva prodotta nei mesi precedenti). Machiavelli inoltre manifesta l'intenzione di dedicare il Principe a Giuliano de' Medici, che sarebbe morto nel 1516 costringendolo a indirizzare il libro a Lorenzo di Piero de' Medici, e si dice dubbioso se presentarlo subito ai signori di Firenze oppure no, temendo maldicenze da parte dei suoi nemici personali come Piero Ardighelli, che potrebbe addirittura appropriarsi della paternità dell'opera per screditarlo. Alla fine si dice deciso a farsi avanti a causa dell'estrema povertà in cui si trova a causa dell'esilio, che lo ha reso contennendo (latinismo per disprezzabile), e rimarca il declino del suo tenore di vita rispetto agli anni precedenti, quando aveva ricoperto i più alti incarichi presso la Repubblica. Il Principe fu stampato postumo solo nel 1532 e con un titolo che probabilmente non è d'autore, mentre nella lettera Machiavelli afferma di essere ancora impegnato in correzioni del testo (che quindi non era quello definitivo) e lo definisce "opuscolo" e "ghiribizzo", alludendo in maniera ironica alle sue ridotte dimensioni e, forse, al poco tempo speso nello scriverlo.
  • Lo scopo principale di Machiavelli nel comporre il Principe era accreditarsi presso i Medici e ottenere da loro un incarico pubblico, anche modesto (foss'anche voltolare un sasso), dimostrando loro di avere un'alta competenza negli affari di Stato e un'esperienza accumulata nei quindici anni trascorsi al servizio della Repubblica, anni che lui afferma di non avere dormiti né giuocati: nella sua prospettiva, mettersi al servizio della Repubblica o dei Medici non è molto differente, così come è evidente la sua smania di tornare alla politica attiva, sfuggendo alla vita misera e ritirata cui il confino a S. Casciano lo costringeva (prima aveva detto di sentirsi rinvolto in tra... pidocchi). Dichiara con una certa solennità di avere appreso a mantenere la fedeltà allo Stato e di non essere cambiato all'età di 43 anni, cosa che sarebbe dimostrata proprio dall'estrema povertà in cui è ridotto e dal fatto che non ha commesso tradimenti o malefatte di sorta. L'atteggiamento di Machiavelli è quello dell'uomo di Stato che è ansioso di dimostrare la propria capacità al mondo e che agogna la vita pubblica più di qualunque altra, dunque in modo diametralmente opposto ad Ariosto, che nelle Satire e in altri scritti scriveva di preferire al servizio degli Este una vita tranquilla e modesta, nell'intimità della propria casa.

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