POESIA BAROCCA - COMMENTI VOSTRI CORRETTI

Filippo G. e Andrea S.

Galileo Galilei fu un filosofo della natura e fisico italiano, nato a Pisa nel 1564. Diede un sostanziale contributo alla teoria copernicana, e quindi alla rivoluzione scientifica, fornendo prove della neonata teoria eliocentrica conseguite attraverso l'utilizzo del cannocchiale, strumento olandese. Fu il primo, infatti, a puntarlo verso il cielo e questo gli permise di fare scoperte strabilianti. Trascrisse le sue osservazioni nel Sidereus Nuncius, ma poi, pressato dall'inchiesta ecclesiastica e dal processo intentatogli, abiurò. A lui dobbiamo anche il ricorso a quello che si definisce, con lui, come metodo scientifico moderno, variamente praticato e esplicitato in vari scritti, come Il Saggiatore. Galilei ha un posto rilevante anche nella storia della letteratura, in quanto è stato tra i primi a scrivere di scienza in volgare, oltre che per le sue opere d’argomento letterario come Considerazioni sulla Gerusalemme liberata. Morì ad Arcetri nel 1642, luogo dove fu confinato dopo la sua abiura dall’autorità ecclesiastica, interessata a esercitare un controllo sui suoi studi. 

Scrittore raffinato e ingegnoso, si cimenta anche in produzioni poetiche, in linea con l'estetica barocca, soprattutto per quanto concerne trovate contenutistiche e espressive sorprendenti. In linea con questa inclinazione, nonché con una predilezione per enigmi e indovinelli, il sonetto sotto riportato. Esso è un enigma esortativo realizzato dal fisico per spingere Antonio Malatesti, il destinatario, a scrivere una seconda raccolta di indovinelli dopo la pubblicazione nel 1640 della sua prima opera di questo genere, La Sfinge, enimmi, da cui Galilei era rimasto affascinato. 


L'enigma

Mostro son io più strano e più difforme

che l’Arpia, la Sirena e la Chimera;

né in terra, in aria, in acqua è alcuna fiera

ch’abbia di membra così varie forme.

 

Parte a parte non ho che sia conforme:

più che l’una sia bianca e l’altra nera;

spesso di cacciator dietro ho una schiera,

che dei mie pie’ van rintracciando l’orme.

 

Nelle tenebre oscure è il mio soggiorno

ché, se da l’ombre al chiaro lume passo,

tosto l’alma da me sen fugge, come

 

sen fugge il sonno all’apparir del giorno,

e le mie membra disunite lasso,

e l’esser perdo con la vita e ‘l nome.


Il sonetto, scritto in volgare, è composto canonicamente da quattro strofe, due quartine a rima incrociata (ABBA), e due terzine in rima incatenata (ABC, ABC). La soluzione all’enigma è l'enigma stesso, ovvero un essere mostruoso e difforme di cui molti cercano di rintracciare la vera essenza, partendo dalle sue orme, e che una volta risolto perde l'esser [...] con la vita e 'l nome.

Nella prima strofa l’autore paragona il proprio soggetto alla creatura più mostruosa che possa esistere, formato com'è da parti svariate che, come viene detto nella seconda strofa, sono addirittura in contrasto tra di loro. Avviene, quindi, una personificazione dell’enigma. Inoltre, nel tempo, innumerevoli pensatori si sono dedicati a cercarne la soluzione a partire dalle sue orme, ovvero gli indovinelli stessi. Nella terza strofa, afferma che l’enigma sta originariamente nell’ombra (celato), ma quando esce dal suo nascondiglio, cioè quando viene risolto, e ne viene estratta la soluzione, la sua essenza (l’alma) fugge dal corpo, composto di inganni, come viene detto nella quarta strofa, e perde la vita e il nome. Smette, quindi, di esistere come enigma.

Il sonetto è scritto in prima persona: è l’enigma a descriversi e parla direttamente con il lettore per tutta l’opera in forma dunque di allocuzione.

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Virginia, Federico

Galileo Galilei è un fisico e filosofo della natura che nasce a Pisa nel 1564. Intraprende gli studi nella città natale, dove poi diventa insegnante dell’università. Successivamente si reca a Padova, città più libera, dal punto di vista delle ricerche in ambito scientifico che potevano entrare in conflitto con la teologia,  nella quale si sente più tranquillo nel compiere i suoi studi e le sue indagini. Galileo Galilei viene ricordato soprattutto per un’importante intuizione che porta al superamento del sistema aristotelico-tolemaico. Infatti, è tra i primi non solo a utilizzare una innovazione tecnologica, ossia  il cannocchiale, per scrutare il cielo, ma anche a ricavare da tale osservazione più ravvicinata dati che consentono di supportare la teoria secondo cui la Terra non è al centro dell’universo, scardinando così un paradigma mantenutosi per centinaia d'anni e ancora ampiamente sostenuto.

Durante la sua vita, Galileo si cimenta nella composizione di varie opere provviste di notevole valore letterario, compresi alcuni sonetti, nei quali risuonano sia la sensibilità sia l'estetica barocca. Uno di questi è l’Enigma, dedicato al poeta suo contemporaneo Antonio Malatesti, al quale si deve una raccolta di componimenti in forma di indovinello pubblicata nel 1640, ovvero La Sfinge, enimmi. Successivamente è lo stesso poeta a pubblicare altre 100 poesie enigmistiche, tra le quali è presente anche il sonetto di Galileo.

L'enigma

Mostro son io più strano e più difforme

che l’Arpia, la Sirena e la Chimera;

né in terra, in aria, in acqua è alcuna fiera

ch’abbia di membra così varie forme.

Parte a parte non ho che sia conforme:

più che l’una sia bianca e l’altra nera;

spesso di cacciator dietro ho una schiera,

che dei mie pie’ van rintracciando l’orme.

Nelle tenebre oscure è il mio soggiorno

ché, se da l’ombre al chiaro lume passo,

tosto l’alma da me sen fugge, come

sen fugge il sonno all’apparir del giorno,

e le mie membra disunite lasso,

e l’esser perdo con la vita e ‘l nome.

L’Enimma di Galilei è un indovinello scritto sotto forma di sonetto, che prevede, canonicamente, la presenza di due quartine e due terzine, strutturate secondo schema ritmico ABBA ABBA CDE CDE.  I versi  rappresentano  la messa in discussione dell’identità stessa del sonetto, il quale si chiede chi sia il mostro più strano e difforme, se questo non è rappresentato dall’Arpia, dalla Sirena o dalla Chimera, che nel componimento poetico vengono personificate.

La risposta all’enigma, che ha come conditio sine qua non che nel suo testo non sia contenuta la soluzione, è l’enigma stesso. La soluzione è allusa, attraverso l’allegoria dei cacciatori, che sono coloro che cercano di risolvere l’indovinello, i quali seguono le orme, ovvero gli indizi. A questo si aggiunge il fatto che sia anche presente in forma esplicita nel titolo.

L’intero sonetto è quindi un’allegoria, il cui contenuto è la ricostruzione del procedimento utilizzato per risolvere l’enigma: l’indovinello è il mostro che inseguiamo come cacciatori nel tentativo di risolverlo, ma una volta catturato esso perde la sua essenza e anche il suo nome, perché non è più un enigma. Ed ecco che alla fine del sonetto l’indovinello è sciolto, proprio come fugge il sonno all’apparir del giorno.

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Francesco, Sara

G.B. Marino, Bella schiava

Il poeta italiano Gian Battista Marino, nato nel 1569 e morto nel 1625 a Napoli, è noto soprattutto per il suo stile barocco. In quanto riconosciuto precocemente come talento poetico, Marino trascorre gran parte della sua vita al servizio di nobili e sovrani europei, viaggiando tra Italia, Francia e Spagna. Proprio al servizio della corte francese di Maria de’ Medici, il poeta raggiunge la sua massima notorietà, diventando uno dei poeti più ammirati del suo tempo. Le sue poesie sono caratterizzate, in armonia con il periodo in cui opera,  da una ricerca permanente del bell'effetto (fonico e contenutistico), conseguibile attraverso uno stile ricercato, caratterizzato da un sapiente ricorso alle figure retoriche, da quelle più comuni alle ardite:   enjambements, metonimie, ossimori e antitesi, che servono a creare immagini suggestive e a intensificare l'impatto emotivo, sorprendente,  del testo. Nonostante il notevole successo ottenuto durante la sua vita, la poesia di Marino fu in seguito criticata poiché troppo ricercata, al punto da diventare astrusa,  e soprattutto accusata di scarsa sostanzialità.

Nera sì, ma se’ bella, o di Natura

fra le belle d’Amor leggiadro mostro.

Fosca è l’alba appo te, perde e s’oscura

presso l’ebeno tuo l’avorio e l’ostro.


Or quando, or dove il mondo antico o il nostro

vide sì viva mai, sentì sì pura,

o luce uscir di tenebroso inchiostro,

 o di spento carbon nascere arsura?


Servo di chi m’è serva, ecco ch’avolto

 porto di bruno laccio il core intorno,

che per candida man non fia mai sciolto.


 Là ’ve più ardi, o sol, sol per tuo scorno

un sole è nato, un sol che nel bel volto

 porta la notte, ed ha negli occhi il giorno.

La sua poesia intitolata Bella schiava,  scritta nel XVII secolo, è incentrata sulla figura di una schiava che viene descritta, attraverso due ossimori (Nera sì, ma se bella e leggiadro mostro) e un enjambement tra il primo e il secondo verso, come una bellezza straordinaria. In questi versi iniziali Marino sembra voler  ironizzare sul fatto di essersi innamorato di una donna come lei, anche se in realtà, procedendo con la lettura,  più che innamorato, sembra quasi molesto nei suoi confronti. Nel terzo e nel quarto verso (enjambements), attraverso una metonimia e un’antitesi, l’autore elogia sul filo del paradosso il colore della pelle della ragazza, dicendo che, in confronto a lei, è l’alba a essere fosca e l’avorio e la porpora sono incolori rispetto all'ebano della sua pelle. Dal quinto all’ottavo verso  il paradosso e le associazioni insolite diventano dominanti, in armonia con l'estetica barocca:  nel verso 8, infatti, attraverso un polisindeto con parallelismo, fa riferimento al fatto che il carbone spento, simbolo del corpo nero della donna, produce una passione più forte di quello acceso; con un’antitesi in disposizione chiastica, associa poi  all’idea di luminosità  che proviene dall'oscurità,  quella di arsura, cioè una sete molto forte  associata a un tizzo ormai spento. 

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Lisa, Filippo M., Carlotta

Giambattista Marino è uno de poeti italiani principali della poesia barocca, anzi, da alcuni ne è considerato l'iniziatore. Nasce a Napoli il 14 ottobre 1569. Il padre cerca di indirizzarlo agli studi di diritto, ma molto precocemente egli decide di  dedicarsi esclusivamente alla poesia. Viaggiatore inesausto, incline a mettersi in situazioni pericolose e illegali, si sposta tra le varie città italiane e, grazie alla fama di letterato che via via si conquista, viene accolto in varie corti, fra cui quella piemontese del duca Carlo Emanuele, dalla quale poi si trasferisce in Francia, invitato da  Maria de’ Medici e Luigi XIII. Durante la sua permanenza a Parigi Marino è considerato il maggiore letterato vivente, e questa sua fama gli consente di dedicarsi solamente alla scrittura, al perfezionamento e alla pubblicazione delle sue opere. Torna a Napoli dopo 8 anni, acclamato per tutto il  successo ottenuto. Muore il 25 marzo 1625.

G.B. Marino, Bella schiava

Nera sì, ma se’ bella, o di Natura

fra le belle d’Amor leggiadro mostro.

Fosca è l’alba appo te, perde e s’oscura

presso l’ebeno tuo l’avorio e l’ostro.

Or quando, or dove il mondo antico o il nostro

vide sì viva mai, sentì sì pura,

o luce uscir di tenebroso inchiostro,

o di spento carbon nascere arsura?

Servo di chi m’è serva, ecco ch’avolto

porto di bruno laccio il core intorno,

che per candida man non fia mai sciolto.

Là ’ve più ardi, o sol, sol per tuo scorno

un sole è nato, un sol che nel bel volto

porta la notte, ed ha negli occhi il giorno.

Sono le antitesi a fare la parte principale nell'inno in forma di sonetto che Marino  scrive per omaggiare la sua schiava. La continua comparazione tra il colore scuro della sua pelle e la luminosità attraverso la quale si manifesta la sua bellezza fuori dall'ordinario. Sul filo del paradosso il poeta scrive che rispetto al colore ebano della sua carnagione, l’alba è tenebrosa, e l’avorio e la porpora perdono la loro lucentezza (Fosca è l’alba appo te, perde e s’oscura presso l’ebeno tuo l’avorio e l’ostro). La descrizione diventa poi apertamente iperbolica: la schiava fa addirittura concorrenza alla bellezza e allo splendore del Sole.

Eppure, in mezzo a tutti questi omaggi che lo scrittore dedica alla donna, traspare un non detto:  ovvero che lui è il padrone e lei è la schiava. Per quanto ci si possa provare con parole raffinate, la realtà è impossibile da celare. Probabilmente i sentimenti tra tra la serva ed il suo padrone non erano ricambiati, quindi l’affetto evocato è plausibile  nasconda dietro di sé delle molestie o attenzioni non volute, da parte dell’uomo nei confronti della bella ragazza.

___________________________________________________________________________________Lorenzo, Jacopo

G.B. Marino, Bella schiava 

Nella letteratura italiana il barocco non si esprime con lo stesso fervore registrato in altri campi, come quello architettonico, poiché si registra una scarsità di produzioni ed un unico autore di spicco: il napoletano Gian Battista Marino. Il poeta riscuote una certa fama già durante la sua esistenza portando alla nascita del marinismo come principale espressione della poesia barocca italiana. Compone un poema, L’Adone, diverse opere pastorali e una serie di raccolte liriche (tra cui il sonetto Bella Schiava) che vengono raggruppate nella raccolta intitolata La Lira.

Questo permette di riconoscere dei caratteri peculiari dell’autore come l’ispirazione ai modelli precedenti per quanto riguarda la materia di base delle opere. Infatti in età giovanile si dedica all’imitazione della poesia classica latina, quindi di autori come Virgilio e Ovidio, ma anche di Tasso, riuscendo però a produrre qualcosa di originale che si distacca dai modelli riprendendone esclusivamente elementi e protagonisti. In questo modo Marino si inserisce perfettamente in quella corrente scaturita dal manierismo e consistente nell’operare alla maniera di un autore precedente pervenendo però ad un risultato completamente differente

Nera sì, ma se’ bella, o di Natura

fra le belle d’Amor leggiadro mostro.

Fosca è l’alba appo te, perde e s’oscura

presso l’ebeno tuo l’avorio e l’ostro.

Or quando, or dove il mondo antico o il nostro

vide sì viva mai, sentì sì pura,

o luce uscir di tenebroso inchiostro,

 o di spento carbon nascere arsura?

Servo di chi m’è serva, ecco ch’avolto

 porto di bruno laccio il core intorno,

che per candida man non fia mai sciolto.

 Là ’ve più ardi, o sol, sol per tuo scorno

un sole è nato, un sol che nel bel volto

 porta la notte, ed ha negli occhi il giorno.

L’espressione personale di Marino, che gli permette di stagliarsi al di sopra del modello classico, consiste nella trattazione della tematica amorosa in maniera innovativa, col fine di rendere protagonista l’articolato artificio espressivo. Riesce nella sfida di sovvertire la tradizione elegiaca, volta ad omaggiare la donna amata, trattando la bellezza di una schiava nera.

Fin dal primo verso si nota l’ispirazione nello specifico a Tasso, che nelle Rime d’Amore aveva scritto “Bruna sei tu, ma bella”. La descrizione della bellezza è condotta attraverso numerose figure retoriche che contribuiscono a dare vita a stramberie e giochi di parole, fin dai primi versi, dove i periodi si prolungano frequentemente nel verso successivo formando degli enjambements (vv. 1-2; vv. 3-4; vv. 5-6; vv. 9-10; vv. 13-14). Gli accostamenti strambi e inaspettati tipici dello stile barocco sono presenti nel testo di frequente sotto forma di ossimori, come quando nel secondo verso la donna viene caratterizzata come leggiadro mostro.

Attraverso l’utilizzo di due polisindeti con parallelismo, Marino tenta di rendere l’idea di questa bellezza praticamente inedita per la letteratura, alludendo al colore della pelle della ragazza e affermando come, prima di allora, non avesse mai visto un tal calore provenire dal carbone spento o una luce del genere fuoriuscire dall’inchiostro scuro.  

Il poeta arriva a definirsi servo di quella che dovrebbe essere la sua serva e la conclusione del componimento consente di portare avanti una similitudine della donna col sole, per quanto apparentemente opposti. Infatti nei versi 12-13 sono inseriti diversi termini che condividono la medesima radice e danno forma la figura retorica del bisticcio (sol, come apostrofe di sole, sol, con richiamo alla solitudine, sole) dando mostra delle doti compositive dell’autore. 

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Alberto, Tommaso

Gian Battista Marino nasce a Napoli il 18 ottobre 1569. Inizialmente il padre Gianfrancesco, lo indirizza alla giurisprudenza, me presto il figlio manifesta insofferenza nei riguardi di questa disciplina, attratto piuttosto dalla letteratura e dalla poesia. Incline alla sregolatezza, viene cacciato di casa dal padre, ma questo non gli impedisce di dedicare il suo eclettico ingegno alla composizione poetica, ottenendo subito un grande successo e , soprattutto, la protezione di prestigiosi mecenati. Incarcerato più volte con accuse di immoralità, fugge a Roma dopo essere evaso di prigione ed entra in contatto con alcuni circoli letterari. Compie viaggi a Venezia, Torino e Parigi. Infine muore nella sua città natale nel marzo del 1625. 

Viene considerato il fondatore e principale esponente della poesia barocca italiana, colui che porta a compimento un processo di mutamento culturale e stilistico che ha come modello le rime di Tasso. Coltiva, inoltre, l’imitazione dei classici latini di Virgilio e Ovidio. Nella sua cospicua produzione, le opere più importanti sono L’Adone e La Lira. Quest'ultima è una raccolta di varie liriche. 

TESTO

COMMENTO

Porta intorno madonna lacci a lacci

aggiungendo ed oro ad oro,

d’aurea prigion l’aurea sua chioma avolta. 


Alma libera e sciolta 

fra quel doppio tesoro ove n’andrai, 

che non sii presa alfine,

s’ella ha rete nel crine e rete è il crine

Questo componimento è un madrigale appartenente alla Lira intitolato Rete d'oro in testa della sua donna. L’autore si serve di una metafora attraverso la quale i capelli biondi di una donna, avvolti in una reticella d’oro, catturano il cuore del poeta. Nel secondo verso troviamo una anafora della parola oro in cui avviene una sovrapposizione del materiale della reticella con la definizione, secondo metafora, dei capelli della donna. Questo raddoppiamento precede il tema del doppio tesoro presente al verso 5. Infine, al verso 7, è presente un ulteriore ripetizione del termine crine. L'arditezza del componimento, quella che permette di ricondurlo all'alveo dell'ingenium tanto apprezzato dagli autori barocchi, consiste principalmente in queste riprese variate dei termini, che non sono quindi ripetizioni ma approfondimenti di significati riposti. Anche l'ambiguità trova così modo di manifestarsi, nonché il gioco dell'apparenza che non corrisponde alla realtà e della realtà che si occulta in modo da non essere subito evidente.

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