SENECA - RISPOSTE QUESTIONARIO - QUALCHE SAGGIO

 Seneca

Spagnolo di Cordova,  nasce nel 4 a.C.: suo padre, Seneca il Vecchio, era un famoso retore. La sua formazione a Roma è in effetti inizialmente retorica, in vista della carriera politica, quindi filosofica (i suoi maestri sono stoici e stoico-pitagorici). Inizia nel 31 attività forense e carriera politica, ma, forse per il successo ottenuto come retore, è inviso a Caligola (37-41), che solo per intervento di altri non lo condanna a morte. Anche l’imperatore Claudio (41-54) lo perseguita, come appartenente a una fazione creatasi intorno alla famiglia di Germanico per eliminare l’imperatore, e lo condanna all’esilio in Corsica, dove resta fino al 49, quando la moglie di Claudio, Agrippina, ottiene che possa ritornare a Roma e gli affida anche l’incarico di istitutore di suo figlio Nerone. Da questo momento, assieme al prefetto del pretorio Afranio Burro, Seneca affianca il prossimo imperatore Nerone (54-68), finché questi non inizierà a commettere atti inaccettabili (il periodo di buongoverno si fa durare fino al 59, anno del matricidio da parte dell’imperatore). Nel 62, dopo la morte di Burro, Seneca, che ha perso ogni influenza su Nerone (soggiogato da Poppea, la sua amante, e da un nuovo prefetto, Tigellino), si ritira a vita privata, ma viene comunque raggiunto da una condanna a morte di Nerone  per aver partecipato alla congiura dei Pisoni. Anche il suicidio di Seneca è stato reso celebre dalla narrazione di Tacito negli Annales

Di Seneca possediamo una parte cospicua della vastissima produzione, che spazia da argomenti filosofici a tragedie. Subito dopo la morte, alcune delle opere filosofiche sono state raccolte sotto la titolatura di Dialogi, in dodici libri (tranne il De ira in tre libri, gli altri sono composti di uno solo): il titolo non implica fossero in forma dialogica, ma va intesa come omaggio a Platone. Sono brevi trattati, su questioni etiche e psicologiche (De providentia, De constantia sapientis, De ira, De Consolatione (ad Marciam), De vita beata, De otio, De tranquillitate animi, De brevitate vitae, De consolatione (II, ad Polybium)), De consolatione (III, ad Helviam matrem). Altre opere filosofiche sono De beneficiis (sette libri), De clementia (tre, ma a noi è pervenuto solo il primo e l’inizio  del secondo). A questi si aggiungono i 20 libri delle 124 Epistulae morales ad Lucilium (dovevano essere di più), trattazioni scientifiche,  le Naturales quaestiones (in sette libri). Infine scrisse anche nove tragedie  di argomento greco, quindi cothurnatae, fra cui Medea e Fedra,  e il Ludus de morte Claudii ovvero Apokolokyntosys, una satira menippea sull’apoteosi dell’imperatore. Ancora molte, pare, le opere perdute.

La ricerca filosofica di Seneca, come si può intendere anche solo dai titoli delle sue opere, spazia in molte direzioni, ma è possibile operare un raggruppamento concettuale, riducendo a due i temi affrontati dal pensatore. Li presento in forma di domanda: Come può essere felice l’essere umano? Si possono  conciliare potere e bene comune? Iniziamo dalla felicità, a proposito della quale apprendiamo dall’etimologia che sia pienezza. Da intendere, già filosoficamente, come riconoscimento e adesione alla propria essenza. Un approdo difficile, riservato a pochi, al quale la filosofia stoica (cui, ma senza rigorismi, Seneca si ispira) indica si possa pervenire a un certo punto della vita orientata alla saggezza, spogliandosi delle passioni che inquinano l’anima e disponendosi all’apathèia, una forma di equilibrio, in cui il saggio basta a se stesso. Si tratta, evidentemente, anche così ridotta, di una strada percorribile da pochi, disposti a e capaci di vivere in solitudine, senza le distrazioni della vita sociale alla quale pare siamo destinati, se non dalla natura, dalla cultura. Nell’insieme delle opere di Seneca, però, la questione della felicità è un filo rosso che sembra essere messo a disposizione se non di chiunque, certo di chi legge e studia. I  Dialogi, a parte le tre Consolationes, sono tutti percorsi da questa tematica, che è decisamente al centro del De vita beata (datazione probabile, 58).  Le considerazioni di Seneca prendono l’avvio da una necessità sentita come basilare: contrastare la tirannide del pensiero unico (come diremmo noi), ovvero il controllo che il volgo (vulgus) esercita sui singoli, che diffidano di sé e si affidano agli altri acriticamente. Con il volgo Seneca intende fare riferimento a chiunque, appartenente a qualunque gradino della scala sociale, ricchi e teste coronate comprese, rappresenti una voce comune, la voce della maggioranza che procede secondo categorie grossolane e uniformanti. Stabilito questo principio basilare, che peraltro non si accompagna al riconoscimento di alcun primato intellettuale a categorie definite (spesso, precisa, chi parla di bene e di virtù è, nella migliore delle ipotesi, un ricercatore  di entrambi, non un saggio che  li possiede), argomenta su ciò che può essere ritenuto bene per gli esseri umani: il bene coincide con ciò che si riesce a essere secondo natura, in piena accettazione di vantaggi e svantaggi. Accertato esistano condizioni esistenziali più piacevoli di altre, si esorta a non diventarne schiavi, consapevoli di fattori incontrollabili e casuali che possono intervenire a mutare la sorte, mettendo alla prova anche in modo violento come si riesca ad adattarsi e a accettare quello accade come evento naturale (in questo consiste l’indifferenza rispetto alla sorte, e la capacità di essere liberi che ne è il corollario). Seneca non condanna i piaceri in quanto tali, ma la loro indispensabilità per alcuni: il piacere non è di per sé un bene, così come non lo sono le ricchezze, dato che gli uni e le altre possono essere provati e detenute da persone che la morale definisce malvagie. Nel De providentia (64), affronta in maniera definitiva il problema, cui si è appena fatto riferimento, della sorte cui ciascun essere umano appare destinato, con particolare riguardo alla risoluzione di un interrogativo inquietante e in grado di mettere in crisi il concetto stesso di provvidenza: perché anche le persone oneste e virtuose soffrono o, addirittura, in certi casi sembrano appunto destinate a soffrire di più dei malvagi? La risposta del filosofo riconduce per cominciare alla concezione stoica della ratio, secondo cui un deus garantisce l’ordine cosmico, ossia la consequenzialità degli eventi, il senso ultimo della vita universale e dei singoli, sicché comunque il male sofferto dai buoni e dagli onesti è giustificato dalla necessità di mettere alla prova e confermare la virtù, consolidandola e rendendo i soggetti in questione i veri felices; poi però esprime anche  l’idea che non sia importante ciò che si sopporta, ma come lo si sopporta. Le avversità rappresentano quindi un modo messo  a disposizione dalla natura e da Dio per provare la propria virtù e capacità: gli esempi che il filosofo fornisce per sostenere la sua tesi sono interessanti in quanto, di là dall’effetto dimostrativo che vogliono conseguire rispetto alla tesi di fondo, servono anche a mettere in discussione il concetto di bene (e di  piaceri) stabilito dal pensiero comune. 

È forse infelice Fabrizio, perché zappa il suo podere tutto il tempo in cui è libero dagli impegni politici? Perché fa guerra contro Pirro così come contro le ricchezze? Perché mangia a cena presso il fuoco quelle stesse radici ed erbe che nel ripulire il campo ha raccolto, lui vecchio trionfatore? Allora? Sarebbe più fortunato se ammassasse nel suo ventre pesci di lidi lontani e selvaggina esotica, se rinfrancasse l’inerzia del suo stomaco disgustato con molluschi dell’Adriatico e del Tirreno, se contornasse con gran quantità di frutti animali di grossa taglia, catturati con grandi perdite di cacciatori? [si tratta di Fabrizio Luscino (Caio), console nel 282 e nel 278 a.C., considerato un esempio tipico della semplicità e dell'onestà degli antichi Romani. Inviato a negoziare con Pirro dopo la battaglia di Eraclea (280), non si lasciò corrompere né dalle offerte né dalle minacce del re, che lo ammirava e desiderava accattivarselo. Secondo una tradizione, più tardi, da nemico leale, avvertì Pirro che il suo medico gli aveva proposto di avvelenarlo. Nei due consolati sconfisse Sanniti, Bruzi e Lucani e come censore, nel 277, fu di un estremo rigore. Morì povero, tanto che il senato sposò sua figlia a spese dello Stato, e venne seppellito, contro le usanze e le leggi vigenti, entro le mura della città.] De providentia, III, 4-14

Non si tratta dunque di piegarsi alla volontà di un dio dispotico, ma di accogliere la vita e ciò che essa riserva, comprese quelle che appaiono come prove feroci, dato che la virtù, conclude il filosofo, è abituata a praticare le vette, ed è la che possiamo trovarla [per alta virtus it]. Il tema dell’imperturbabilità del  saggio, in particolare stoico, di fronte a ingiurie e avversità, è anche al centro del De constantia sapientis (41). La fermezza del saggio consiste soprattutto nella forza di non farsi travolgere dalle offese (iniuriae) che gli si arrecano, lasciando che tutta la laidezza morale sia retaggio di chi pensa e compie azioni malvagie. Così il sapiente si colloca di là dalle offese dirette contro lui, non perché non le avverta, ma perché sa attribuire loro il valore che hanno, diversamente da chi dipende completamente dall’opinione altrui o dalle proprie passioni (uomo libero, dalla doxa come dalla fortuna, fu Socrate). Riconducibile al tema centrale, in quanto tratta della necessità di dominare una passione per poter vivere bene, è anche il De ira (41).  Dopo aver tracciato una sorta di fenomenologia dell’ira e confutato le teorie che la ritengono uno strumento utile all’attuazione del bene (Aristotele, che ne suggerisce un ricorso moderato),  sostiene che a livello sociale è certo necessario punire, ma secondo legge, non secondo ira, e mirando al riscatto di chi ha commesso un errore. L’ira infatti non è mai nobile, ma solo espressione di disordine o pessimo controllo delle proprie emozioni (di qui la sua frequenza nei bambini piccoli, nei vecchi e nei nevrastenici): distrugge le regole su cui si costruisce una comunità ordinata. Quando ripercorre la genesi dell’ira, nel secondo libro, la riconosce identica a quella di altre passioni: prima nasce involontariamente, poi diventa riflesso cosciente e infine, sottratta al controllo della ragione, si manifesta come sorta di pazzia (furor). A favorire l’ira, oltre alla disposizione naturale, possono essere il lavoro eccessivo e la stanchezza conseguente, le veglie prolungate, bevande eccitanti, certi tipi di divertimento. Il terzo libro è interamente occupato da una trattazione del tema a livello sociale, dato che l’ira mina le fondamenta della società, alimentando odi e divisioni, soprattutto quando sia retaggio di chi è al potere: in effetti, tramandano le cronache, sia Caligola sia Claudio sarebbero stati degli iracondi.

Per quanto riguarda la seconda domanda, inerente al potere e al bene comune, è necessario ricondurre il tema alla biografia di Seneca, con la quale è fortemente intrecciato. Dopo il periodo di esilio in Corsica, durante il quale il filosofo ha continuato  a scrivere e a occuparsi della vita politica romana, nel 49, su pressione di Agrippina, viene richiamato a Roma e  gli è affidata l’istruzione di Lucio Domizio Enobarbo, all’epoca dodicenne (nato nel 37 da Agrippina e Gneo Domizio Enobarbo, poi adottato da Claudio, marito di Agrippina e ultimo imperatore della dinastia Giulio-Claudia). Nel De clementia, il trattato che dedica al neo imperatore, arrivato al potere a soli diciassette anni, Seneca prende realisticamente atto del fatto che il principato, nonostante la finzione augustea di una restaurazione del res publica, è una monarchia assoluta. Di conseguenza, la virtù politica per eccellenza è la clemenza, non più la giustizia come ritenevano Platone e Cicerone: la clemenza è infatti una virtù che implica un rapporto di dipendenza; il punto di riferimento, in una monarchia assoluta, non sono le leggi ma il sovrano, la cui volontà è assoluta e può essere limitata solo da se stessa (quindi dalla pratica della clemenza). Tale virtù, entrando ora nello specifico, consiste nella moderazione e nell’indulgenza, nel saper garantire allo stato stabilità, nel trattare i sudditi come un pater tratta i figli, consapevole di aver su di loro diritto di vita e di morte, ma per nulla desideroso di abusarne: anche le punizioni sono adottate col solo scopo di migliorare i sottoposti, i quali sono così indotti  a essere devoti e fedeli al loro sovrano. Seneca vuole dimostrare che la monarchia, peraltro ritenuta, nell’ambito della dottrina stoica, la forma ideale di governo, può produrre la felicità (da intendersi come  bene comune), a patto che il sovrano sia saggio. Non esita quindi a presentare Nerone, il suo pupillo, come tale, più che altro esprimendo degli auspici che, purtroppo, saranno ampiamente smentiti dalla realtà dei fatti. Nel discorso della corona di Nerone, comunque, interamente scritto da Seneca, risuonavano principî che, almeno inizialmente, entrambi cercarono di rendere applicativi: ad esempio la collaborazione con il senato, dal momento che Seneca pensava fosse auspicabile modellare la monarchia nel senso di un potere diarchico, che agisse di conserva per il bene pubblico, eliminando corruzione e malversazioni, agendo programmaticamente in modo da distribuire benessere fra la popolazione, soprattutto fra i meno abbienti. Sotto questo profilo è evidente che Seneca si mosse subito in maniera autonoma rispetto ad Agrippina, dando spazio nello stesso tempo ai motivi che avrebbero generato il suo allontanamento dalla corte e poi la sua condanna a morte. Nerone, però, nei primi anni mostrò di allinearsi alle intenzioni del suo mentore. Seneca, ad esempio, potè combattere strenuamente la corruzione della classe dirigente romana, intenta a utilizzare il denaro pubblico per sostenere il clientelismo (piaga già repubblicana), cercando di agevolare l’accesso alla politica di giovani privi di mezzi economici ma di valore. Analogamente procedette colpendo la classe dei pubblicani, per ridurre la morsa del fiscalismo sul popolo (in quanto la corruzione dello stato è direttamente proporzionale alla pressione fiscale esercitata indistintamente). Alla base di questi provvedimenti si colloca  l’idea teorica che una società prospera e felice richieda una conciliatio hominum, collegata e sostanziata da fiducia nella giustizia. Di qui il richiamo a una clemenza che non va confusa con misericordia o gratuita generosità, ma piuttosto filantropica benevolenza, in grado di suscitare nei sudditi consenso e dedizione. Una visione al contempo illuminata e paternalistica, che attribuisce sempre al sovrano anche una capacità di perfezionarsi moralmente, complice il suo costante affidamento alla filosofia. Qui l’impianto teorico diviene manifestamente inapplicabile o almeno risulta totalmente contraddetto dai fatti: Seneca non riuscì a frenare gli istinti dell’imperatore, il quale governò sotto il suo consiglio per un quinquennio circa, ma successivamente, si macchiò della serie di delitti di cui si è detto.

Proprio all’opposto di questa seria riflessione, corredata di prova pratica, su come si possa esercitare il potere assoluto senza eccessi, temperandolo con la filosofia e rendendolo, sostanzialmente, illuminato, si colloca il poemetto satirico intitolato Apokolokyntosis,  risvolto scherzoso di un impegno programmatico serio. È la pars destruens di quel progetto di società nuova che Seneca aveva suggerito al giovane imperatore nel discorso della corona: istituire lo Stato di diritto, favorendo un’amministrazione rigorosa, non demagogica, e misure atte a scoraggiare dilazioni e ruberie; ricercare la giustizia nei rapporti sociali ed economici; apprestare una legislazione finalmente umana nei confronti delle classi più diseredate e, in particolare, degli schiavi.  In questa irridente satira, una volta morto Claudio sale all’Olimpo, come vuole la tradizionale apoteosi,  dove suscita la curiosità e lo sconcerto delle divinità per tutti i suoi difetti, tanto da essere definito quasi homo: è balbuziente  (tanto che nemmeno da morto riesce a pronunciare correttamente il proprio nome e a farsi identificare), zoppo e stupido, come dimostra il fatto che tenga  la testa sempre ciondoloni. Di fronte a Ercole, reduce dalle dodici fatiche, che viene ad accoglierlo,  Claudio cita un verso dell’Odissea per vantare le proprie origini troiane attraverso la gens Claudia, ma commette il goffo errore di citare le parole di Ulisse, causa principale della sventura della città troiana. Il confronto con il grande eroe del mito riduce insomma Claudio ad una nullità: di lui vengono anzi messa in luce l’origine provinciale, la  politica di eliminazione fisica dei nemici (in particolare, i membri del Senato) attraverso l’uso politico della giustizia. Segue quindi la proposta dell’imperatore Augusto, che già siede tra le divinità, di mandare Claudio agli Inferi poiché  in vita si è macchiato di numerosi omicidi, che egli enumera nel dettaglio. Il dio Mercurio lo scorta dunque nell’Ade e durante il tragitto Claudio può assistere al proprio funerale  e ascoltare le voci di chi si lamenta per la fine dei giochi pubblici frequentemente indetti dal defunto. Arrivato agli Inferi, incontra le anime di coloro che ha fatto uccidere ed è poi messo a giudizio di fronte ad Eaco, ritenuto un giudice profondamente giusto ed equilibrato. Il processo diventa però una sorta di contrappasso per l’imperatore, che in vita emetteva le proprie condanne senza lasciar spazio alla difesa: così avviene negli Inferi per lui. Claudio viene condannato a giocare a dadi  con un barattolino forato. A strapparlo dalla pena è l’imperatore Caligola, anch’egli condannato laggiù, che reclama Claudio come proprio schiavo. Come ultima umiliazione, l’imperatore è affidato in custodia al suo ex liberto Menandro.

Anche il Seneca dedito alla tragedia continua pur sempre a occuparsi di cosa possa accadere alle passioni quando non si lascino controllare dalla ragione. Per darne esemplificazione concentro l’attenzione sulla tragedia che meglio di tutte riesce a esemplificare il conflitto fra furor e logos, ossia Fedra. Il personaggio appartiene al mito:  figlia di Minosse e di Pasifae, sorella di Arianna, sposa Teseo che l’ha portata con sé nella fuga da Creta. Secondo l’elaborazione del mito fatta da Euripide in due tragedie (un Ippolito velato, non giunto, e l’Ippolito coronato) Fedra è presa da folle amore per il figliastro Ippolito, casto seguace di Artemide e, da lui respinta, si uccide, non prima di aver accusato Ippolito di aver tentato di sedurla, provocandone così la morte per volontà del padre Teseo. Anche Ovidio, nelle sue Heroides, dedica al mito l’epistola IV, una lettera senza risposta scritta da Fedra all’amato. Poi, nel 1677, Racine scrive la sua celebre versione tragica e D’Annunzio nel 1909 la propria interpretazione, resa opera musicale da Ildebrando Pizzetti nel 1915.  In tempi recenti, nel 1996, la drammaturga inglese Sarah Kane ha realizzato  l'opera Phaedra's Love (L'amore di Fedra). 

Le dramatis personae ovvero personaggi del dramma, sono sei: Ippolito, Fedra, la Nutrice, il Coro, Teseo e un Nunzio. La tragedia si apre con un canto monodico di Ippolito, che appare sin dall’inizio isolato in una sorta di impenetrabile solitaria autonomia: egli si professa seguace di Diana, sovrana del regno più segreto della terra, saettatrice infallibile della fiera che si abbevera al gelido Arasse [l’Aras, fiume dell’Armenia] e di quella che danza sulla crosta ghiacciata dell’Istro [il Danubio nel suo corso inferiore]. La tua mano raggiunge i leoni di Libia e le cerve di Creta, o trafigge, più lieve, le gazzelle in corsa. A te offrono il petto le tigri maculate, a te offrono il dorso i bisonti villosi e gli uri selvaggi dalle larghe corna. Ha paura del tuo arco, Diana, tutta la fauna che vive nelle solitudine, quella ben nota agli Arabi nei boschi ricchi di aromi, o dai Garamanti [popolazione nomade dell’Africa settentrionale][…] Se il tuo fedele ti è accetto e porta con sé la tua benedizione, le reti tengono avvinte le fiere, le zampe non strappano i lacci, la preda fa gemere il carro; allora il muso dei cani è tutto rosso di sangue e la schiera campagnola torna alle sue capanne in un lungo trionfo. Eccoti, o dea; latrano i cani, segno del tuo favore. Mi chiamano i boschi.

Segue un monologo di Fedra, che invoca la sua patria, Creta, che l’ha data ostaggio di un nemico, un focolare odioso, con un marito che la fugge, Teseo. Ella evoca la nuova impresa del marito infedele, che si è recato negli inferi con Piritoo per rapire Proserpina (il primo sarà incatenato da Plutone, mentre Teseo viene liberato da Ercole), adulteri e letti illegittimi, ecco cosa cerca sin nel fondo dell'universo il padre di Ippolito [per lei non è più uno sposo]. Ma sull’anima triste mi pesa un altro più grande dolore. Non mi porta sollievo né la notte né il sonno: il mio male si alimenta, e cresce e brucia come il fuoco che trabocca dal cratere dell’Etna. […] Vorrei scovare e inseguire di corsa le fiere e scagliare i rudi giavellotti con la mano delicata. Dove corri, mio cuore? Che delirio ti fa amare le selve? La riconosco, la fatale passione di mia madre infelice: il nostro amore si fa peccato nei boschi. Madre, ho pietà di te: preda di una furiosa passione, sei giunta ad amare il capo feroce di bestie selvagge: era un bruto, il tuo amante, insofferente del giogo, re di un branco brado…Ma era capace di amore. Quale dio, quale Dedalo, avrà rimedio per il mio rovente dolore? […]Per le figlie di Minosse non ci sono amori normali, tutti hanno qualcosa di empio. . La nutrice replica con un richiamo alla moralità, che risulta intrisa di morale stoica: La moralità è prima di tutto la volontà di seguire la via del bene, poi la coscienza del limite della propria colpa. Dove ti precipiti, infelice? Perché aggravare l’infamia della tua famiglia e superare tua madre? Un amore empio è peggiore di un amore mostruoso: questo puoi imputarlo al destino, quello a te stessa. La nutrice chiede a Fedra di soffocare quello che definisce un amore maledetto, di non volere amplessi inauditi, allude alla prole indistinta che sarebbe il frutto della condivisione del letto con un padre e un figlio, Teseo e Ippolito. La passione ha vinto e mi domina, replica Fedra, un dio possente è padrone di tutto il mio essere. La Nutrice replica ancora che l’amore come divinità possente è invenzione di una voglia immorale e viziosa, che per essere più libera ha dato alla passione il nome pretestuoso di dio. E ancora, imputa alla ricchezza e all’agio l’abbandonarsi più facilmente ai deliri amorosi: l’amore onesto abita in modeste dimore, la classe media ha sentimenti sani mentre ricchi e regnanti vogliono avere più del lecito, vogliono, avendo già troppo, l’impossibile. Fedra dice di contare sulla comprensione del re dei morti, ma poi si persuade ad ascoltare la nutrice, dicendo di volersi dare la morte prima di aver commesso empietà. Allora la nutrice si impietosisce e decide di sondare l’animo di Ippolito. Il coro (di donne cretesi) evoca immagini di Cupido che imperversa su tutte le creature con le sue frecce, facendo divampare incendi nei cuori di tutti, giovani e vecchi, dei e armenti; Amore è il dio dal regno più vasto di tutti, dalla terra, al cielo, agli abissi marini, non risparmia nemmeno i mostri del mare, ed è in grado di sostituire l’odio. La nutrice spiega che Fedra è consumata dall’amore, una fiamma silenziosa che arde al suo interno e si palesa nel volto, negli occhi, nei gesti scomposti e smarriti. Il coro consiglia a Fedra di cercare di placare Diana. La nutrice si reca da Ippolito, che si è recato nei boschi all’altare di Diana, e gli parla dell’ardore della giovinezza, che non dovrebbe lasciar languire dedicandosi unicamente alle cacce e alle corse. Alla sua perorazione, con la quale condanna quello che definisce uno sterile celibato, Ippolito replica dicendo che chi ha mantenuto la sua purezza nei boschi non arde di folle cupidigia, non smania per una popolarità infida ai buoni, non è avvelenato dalla gelosia né illuso dal fragile favore dei potenti, […] è libero da speranza e da timore […]la sua proprietà non ha confini: si aggira senza danno di alcuno per l’aperta campagna, sotto il cielo aperto …vuole l’aria e la luce, e la sua vita ha testimonio il cielo. Così si viveva, penso, mescolati agli dei nell’età più antica. […]Ruppero questo accordo l’empia frenesia di guadagno, l’ira impaziente e le brame che non danno mai pace al cuore …allora si cominciò a combattere … e poi il dio della morte inventò sempre più efficaci forme per dare la morte … e si moltiplicarono le empietà, dei fratelli contro i fratelli, dei figli contro i padri, delle madri e delle matrigne: [il discorso diviene misogino] il primo dei mali è la donna, è lei la maestra di delitti, per i suoi adulteri vanno in fumo le città, tanti popoli si fanno guerra, tante genti sono sepolte sotto le rovine dei loro regni. Basti Medea come esempio. Poi sopraggiunge Fedra e chiede di parlare a Ippolito, voi tutti celesti siate testimoni che io non voglio ciò che voglio […] lieve è il dolore che parla, il grande è muto. Siccome Ippolito la chiama madre, lei ricusa il termine, offrendogli piuttosto quello di sorella, oppure schiava. Se vuoi che io attraversi le nevi profonde, con gioia porrò il piede su picchi ghiacciati, se vuoi che io attraversi il fuoco e i plotoni nemici, senza indugio offrirò il petto alla punta delle spade. Questo scettro è tuo, fa di me la tua schiava: a te il comandare, a me l'obbedire.  

Infine Fedra gli dichiara il suo amore in una forma indiretta, parlando di com’era suo padre da giovane, nel labirinto, quando di lui si innamorò sua sorella Arianna. Ippolito si sdegna, vuole ucciderla, ma poi decide di non contaminarsi col suo sangue immondo e la nutrice suggerisce a quel punto di volgere su di lui ogni accusa e ogni colpa. Torna Teseo, e Fedra gli dice di essere stata violentata da Ippolito, che ha lasciato lì la sua spada, fuggendo nei boschi. Teseo si ripromette quindi di uccidere Ippolito, e invoca il padre Poseidone perché esaudisca l’ultimo dei tre desideri che gli erano stati concessi: che evochi un mostro marino che uccida Ippolito. Il  Coro si rammarica della lontananza dei Celesti dagli uomini: perché non ti curi di aiutare i buoni e di punire i malvagi?Le cose umane sono in balia del Caso che sparge i suoi doni con mano cieca, favorendo i peggiori; l’innocenza è vinta dall’arbitrio, la falsità regna nei palazzi regali. Il popolo gode di affidare il potere a mani indegne, e la stessa persona è segno di amore e di odio. Il merito tristemente riceve non il premio, ma il castigo della sua virtù: agli onesti è compagna la miseria, e l’adulterio trionfa grazie ai suoi vizi: o moralità, nome vano, falsa apparenza!

Un messo viene a raccontare come sia morto Ippolito: dalle acque del mare improvvisamente tempestose è emerso un toro mostruoso, contro il quale coraggiosamente Ippolito si è mosso, ma è caduto travolto dal suo stesso carro  e poi è trascinato e fatto a pezzi che sono ancora sparsi per il terreno, mentre i suoi stessi cani li vanno cercando. Fedra allora confessa a Teseo la sua colpa e la sua menzogna e si trafigge con la spada rimasta lì di Ippolito.

Teseo ordina di raccogliere pietosamente le membra del figlio, e che Fedra sia invece gettata in una fossa, e che tutto il peso della terra gravi su sul suo empio capo (l’opposto di quanto scrive Marziale, a distanza di qualche decennio, nell’epigramma per Erotion, figlia di suoi schiavi, flebilis in terra sit lapis iste tua, che la terra ti sia lieve. Si può forse sintetizzare, a conclusione del dramma, che Seneca abbia colto e metaforizzato un sentimento moderno, direi novecentesco. Il sentore di come l’inferno sia, per cominciare,  nella mente. La tragedia antica, già con Sofocle nel V secolo a.C., rappresenta spesso uno scontro metafisico perfettamente interiorizzato: Edipo lotta con se stesso, con una propria rappresentazione di sé, arbitro della propria vita, semidivino, mentre essa risulta sconfitta dalla forza del destino. Così evidente che sia una lotta impari tra sé e sé, che si conclude, benché provvisoriamente, con un’autopunizione. Non sono gli dei ad accecarlo, ma egli stesso si condanna alla fatale mutilazione. Nella tragedia senecana, distante ben più dei cinque secoli computabili secondo datazione da quella sofoclea dedicata a Edipo, per gli abissi temporali che possono scavare gli eventi di là dal mero calcolo cronologico, si può anche più sostenere questa tesi, dal momento che l’inferno non è prodotto di una mente, ma di più menti. Nessun personaggio del dramma, infatti, ne è esente, per quanto sia possibile sostenere che ciascuno di loro si faccia portatore di una voce di fondo. Sì, Fedra è pura passione, la nutrice è il logos nella sua espressione media, così anche il coro, mentre Teseo è nuovamente passione e Ippolito castità e virtus. Eppure ciascuno di questi personaggi, coro compreso, ospita in sé anche il suo opposto, la voce contraddittoria che dibatte, che alimenta un dilaniante conflitto interiore. La nutrice, ad esempio, comprende e perdona Fedra, si spinge a operare per aiutarla a realizzare l’empio e scellerato disegno, eppure condanna anche l’atroce passione, stigmatizza il furor che non dà tregua; d’altronde Fedra sa bene quello che non dovrebbe fare, sancisce per se stessa una morte che sarebbe una salvezza dall’empio destino, ma poi non sa esimersi dal dare voce al proprio desiderio e dà corso a tutto quanto il dramma travolgente che la porta a condannare a morte atroce colui che ama. Per poi dichiararsi, nell’atto di dare la morte a se stessa, sempre innamorata di Ippolito: se non fu possibile unire i nostri cuori, sarà almeno possibile unire le nostre morti. Ippolito è più complesso da ricondurre a questo paradigma: in lui la virtus sembra integerrima, la sua vocazione alla castità lo rende personaggio tutto d’un pezzo, non fosse per quel canto monodico iniziale, tutto pervaso dello stesso furor  che anima Fedra: si tratta però d’un furor orientato esclusivamente alla dimensione naturale, alla vita nella foresta, a contatto con le specie selvagge, gli unici oggetti di voluttà che Ippolito sappia concepire. La morte cui egli va incontro è in perfetta consonanza con questo cuore oscuro e selvaggio che gli appartiene, e il suo inferno personale assume la forma del gigantesco toro che emerge dal mare, lo bracca e promuove lo smembramento del suo corpo bellissimo, sprecato quindi per quanto riguarda la dimensione amorosa, immolato sull’altare di una dea (Diana), che non riconosce uno status all’amore. Dunque quello della Fedra senecana è un campo di battaglia dove si scontrano amore e incesto, passione e ragione, fragilità e grandezza d’animo. E mentre anime e menti precipitano nell’abisso mostruoso dell’io, Seneca, nei cori, alza gli occhi al cielo per chiedere agli dei le ragioni di tanti sacrilegi, di tanti misfatti: e com’è terribilmente umana Fedra quando chiama  a testimoni gli dei del fatto che ciò che vuole, lei non lo vuole, come accade a chi sa che il logos pretende da alcuni esseri umani qualcosa che essi non sono in grado, o non vogliono, dargli. 

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DAI QUESTIONARI

Spiega il titolo Dialogi assegnato a un certo numero di opere filosofiche di Seneca e precisa in che senso vada inteso, rispetto ai modelli dialogici di Platone e Cicerone.

Una parte dei testi filosofici di Seneca, costituita da dieci opere, per un totale di dodici libri, è intitolata Dialogi. Questo nome, che l’autore forse dà loro, deriva dal fatto che si tratti di testi scritti in prima persona e avendo come unico interlocutore colui a cui l’opera è destinata. È possibile definirli piuttosto dei monologhi, poiché l’illusione del dialogo viene prodotta  secondo la tecnica dell’occupatio, cioè attraverso la creazione, da parte dell’autore, di commenti o obiezioni da parte dell’interlocutore, a cui poi egli risponde. I dialoghi di Seneca sono differenti rispetto a quelli di Cicerone, in quanto negli  scritti di quest'ultimo la discussione è drammatizzata, ricorrendo anche a un’ambientazione storica, e avviene tra due o più personaggi, che esprimono opinioni diverse sull'argomento in questione. (Sara)



La padronanza di sé o, alla greca, autàrkeia e la libertà interiore sono collegate, nella riflessione di Seneca: in quali testi in particolare e con quali esiti esistenziali (rispetto a sé e nel rapporto con gli altri).

Nel 49 Seneca scrive il dialogo intitolato De brevitate vitae, nel quale sostiene che gli uomini non hanno il diritto di lamentarsi per la brevità della vita, poiché la maggior parte di loro la spreca, occupando il proprio tempo con frivolezze, invece che alla ricerca della verità e della saggezza. Egli chiama questi uomini gli occupati, cioè indaffarati, che si privano della possibilità di assicurarsi l’autàrkeia, cioè l’autosufficienza, la libertà da ogni condizionamento esteriore, che assicura pace e serenità. Questo tema viene affrontato anche in altre due opere: il De vita beata, nel quale egli sostiene che la felicità consista nella vita secondo natura, per l’uomo identificabile nella ragione, ma ne parla anche nelle Epistulae ad Lucilium, dove afferma che attraverso la meditatio, cioè un’analisi di sé e dei propri comportamenti, è possibile giungere all’autarkeia e alla libertà interiore, grazie alle quali è possibile compiere buone azioni nei confronti del prossimo.(Sara)

Scrivi una presentazione generale delle Epistulae ad Lucilium che introduca il passo dedicato alla schiavitù (p. 105), che devi analizzare/commentare inserendo almeno tre citazioni testuali (latino/italiano).

Le Epistulae morales ad Lucilium sono una raccolta di lettere che Seneca indirizza a Lucilio Iuniore, poco dopo il suo ritiro dall’attività politica. Il filosofo si pone, nei confronti del suo amico, come un maestro e un consigliere, che ha l’obiettivo di aiutarlo a raggiungere la sapienza tramite un processo autoeducativo. Le Epistulae sono probabilmente il suo scritto filosofico più importante, in quanto egli esprime in esse la sua visione complessiva, variamente articolata, della vita e dell’uomo. È, inoltre, evidente, per considerazioni di carattere stilistico,  che tali lettere non siano destinate solo al suo amico e a sé stesso, ma soprattutto ai posteri, dunque siano state composte per essere pubblicate. La principale differenza tra le Epistulae e le sue altre opere filosofiche è che le prime fanno riferimento ad avvenimenti quotidiani, sottoposti a una disamina in funzione morale: le sue storie personali diventano, quindi, spunti di riflessione, da cui trarre diversi insegnamenti. Uno dei temi trattati in questa sua opera è quello degli schiavi: egli sostiene che, dal punto di vista del diritto naturale, gli uomini liberi sono uguali agli schiavi, inoltre, nonostante l’apparente libertà giuridica, ognuno di noi è, in realtà, schiavo delle proprie passioni, poiché dipendente da esse. Seneca elenca una serie di umilianti incarichi ai quali gli schiavi non si possono sottrarre, a causa dei crudelia (maltrattamenti crudeli) e inhumana (disumani) dei loro padroni. Essi vengono trattati ne tamquam hominibus quidem sed tamquam iumentis (quasi non fossero uomini, ma bestie), perciò provano un forte risentimento verso i loro padroni. Successivamente Seneca procede col descrivere alcuni dei diversi compiti da loro svolti: alius sputa deterget (uno deterge gli sputi), uno reliquias temulentorum [...] colligit (raccoglie gli avanzi dei convitati), alius pretiosas aves scindit (uno scalca volatili costosi), Alius vini minister (un altro addetto al vino), Alius cui convivarum censura permissa est (un altro che ha il compito di giudicare i convitati), infine Adice obsonatores (ci sono poi quelli che si occupano delle provviste). Nel corso dell’opera inserisce un tema significativo: quello dell'uguaglianza tra uomo libero e schiavo, in quanto ci invita a pensare che istum quem servum tuum vocas ex isdem seminibus ortum eodem frui caelo, aeque spirare, aeque vivere, aeque mori! (costui, che tu chiami tuo schiavo, è nato dallo stesso seme, gode dello stesso cielo, respira, vive, muore come te!). La schiavitù è determinata dalla sorte, dunque, visto che non si può mai sapere cosa ci riserva il futuro, Seneca dice sic cum inferiore vivas quemadmodum tecum superiorem velis vivere (comportati con il tuo inferiore come vorresti che il tuo superiore agisse con te). (Sara)

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DAI SAGGI

VITA NEMINEM TENET, LA VITA NON TRATTIENE NESSUNO (Ettore)

Seneca (4 a.C. – 65 d.C.), originario della Spagna,   fu un filosofo, politico, nonché autore teatrale,  che svolse  il ruolo di istitutore  e poi consigliere diretto del princeps Nerone, che assunse il potere prima dei diciotto anni, nel 54 d. C., necessitando quindi di essere inizialmente soggetto a tutela  nelle decisioni più importanti relative alla gestione dell’impero. 

Il filosofo, nel pieno della sua maturità, quando assume il delicato incarico di assistere il giovanissimo imperatore insieme alla madre Agrippina e al prefetto del pretorio Afranio Burro, coltiva, sia pure con buona dose di realismo politico, il sogno platonico di portare la filosofia al potere. L'epilogo è notoriamente molto deludente: nel 62, posto di fronte a un crescendo di autoritarismo e dispotismo dell'imperatore, macchiatosi di multipli delitti (matricidio compreso), si ritira a vita privata per dedicarsi alle sue opere e alla vita contemplativa. Pochi anni dopo, nel 65, a concludere ancor più tragicamente il suo tentativo,  viene accusato di una congiura ordita contro l’imperatore da un gruppo di senatori capeggiati da Pisone, e si dispone filosoficamente al suicidio. 

A Tacito, della cui fonte storica (Annales) ci serviamo per la ricostruzione delle ultime ore di Seneca, non è nota la motivazione reale dell’ordine di suicidio pervenuto a  Seneca. Lo storico peraltro si assegna il compito di rendere soprattutto chiara la sua visione stoica, ovvero quanto di stoico abbia questo suicidio. Seneca, in base alla ricostruzione di Tacito, chiama a sé gli amici nel momento cruciale per lasciare loro l’insegnamento più importante: la propria morte. Anche la moglie Paolina è visibilmente addolorata e non riesce a trattenere le lacrime, ma il marito la esorta a contenerle, in virtù di quello che le aveva insegnato. Poi Seneca, con gesto deciso, si recide le vene del braccio, quindi quelle delle ginocchia e, per favorire una più rapida fuoriuscita del sangue, si immerge in una vasca riempita di acqua calda. Il ricorso a un potente  veleno, finalizzato a rendere più breve l’agonia risulta vano, e la fine per il filosofo, peraltro anziano e debilitato, giunge solo lentamente nei vapori caldi del bagno. . 

La descrizione tacitiana della morte di  Seneca è profondamente ispirata dal modello delle morti filosofiche, prima fra tutte quella di Socrate, che a seguito del processo svoltosi nella democratica Atene nel 399 a.C., fu condannato alla pena di morte per corruzione della gioventù,  che il filosofo affrontò con serenità e coraggio. Socrate, bevendo la cicuta, non solo accettò la condanna a morte, ma  lasciò come  messaggio  fondamentale, documentato poi in particolare da Platone,  che non esiste vita al di fuori della propria polis, cioè della società a cui si appartiene. Allo stesso modo, Seneca riteneva che non vi fosse alcuna ragione di avere paura della morte, in quanto ogni percorso deve avere un inizio e una fine, e l'assunzione di consapevolezza di questa condizione deve essere il presupposto iniziale per affrontare non solo la morte, ma anche la vita. Più precisamente, Seneca delinea il suo pensiero circa l’utilizzo che andrebbe fatto della vita nel suo trattato De brevitate vitae, in cui spiega  perché gli uomini hanno torto a lamentarsi costantemente della brevità del tempo assegnato loro dalla natura. A conforto della sua tesi, aggiunge che per chi riesce a farne buon uso, occupando forze ed energie alla ricerca della virtù, coincidente con la conoscenza, la ricerca della saggezza e della contemplazione, la vita è ben più lunga di quanto la maggioranza degli uomini creda. Coloro che non sanno impiegare correttamente il loro tempo, sono chiamati occupati, e trovano il tempo per tutto tranne che per vivere. Seneca li contrappone al saggio, che invece conosce il retto uso del tempo. Nel De vita beata, Seneca si distingue nettamente dalla dottrina epicurea, in quanto essa identifica il sommo bene con la voluptas, mentre secondo la dottrina stoica la felicità si raggiunge attraverso il controllo delle passioni e, dunque, l'esercizio della ragione. Di conseguenza, tutti gli affectus (paure, desideri, speranze, passioni) sono considerati ostacoli al raggiungimento della felicità.

La questione di come ci si debba porre in modo saggio di fronte alla morte viene affrontata da Seneca in diversi luoghi testuali. La paura della morte, ragiona il filosofo nelle Epistulae ad Lucilium, non è legittima in quanto è frutto di inconsapevolezza della condizione primaria imposta all’uomo: fin dal primo giorno di vita, facciamo esperienza della morte. La morte, quindi, non va temuta nel futuro, anzi, è opportuno avere la consapevolezza che stia alle nostre spalle, in quanto solamente le cose che sono passate sono davvero finite e immodificabili: il concetto è racchiuso nella sententia che suona cotidie morimur

Seneca quindi risponde a tutti coloro che ritengono di non avere tempo a sufficienza per vivere, ricordando loro che non è la quantità di tempo che si vive che conta, ma piuttosto la qualità e la capacità di dedicare il giusto valore agli impieghi veramente utili: la ricerca intellettuale e il progresso morale. Attraverso la meditatio, accompagnata possibilmente da pochi ma scelti amici, l’uomo riesce ad analizzare i propri comportamenti e giungere ad una maggiore padronanza di se stesso, garantendosi la libertà interiore. La scelta delle persone di cui circondarsi nella vita è per Seneca un aspetto molto importante: occorre infatti allontanare la folla e fare una rigida selezione delle compagnie, con cui affrontare dialoghi continui. Talvolta è anche necessario un colloquio spirituale con grandi filosofi del passato (aspetto che affascinerà Machiavelli che lo riprodurrà nella Lettera a Francesco Vettori, quando la sera, esausto dalla giornata, descrive il ritiro nel suo studio per  dialogare coi grandi maestri).

A dimostrazione dell'importanza d'intrattenere un dialogo permanente (con interlocutori veri o fittizi), con se stessi, la struttura stessa delle Epistulae è eloquente: il giovane amico Lucilio è una sorta di allievo al quale indirizzare ammonimenti e con cui approfondire, possibilmente attraverso esempi, argomenti esistenziali: l’otium, l’amicizia e la preparazione alla morte.

Dato che ogni esistenza termina con quest'ultima, liberarsi dalla paura di essa è certamente essenziale e può favorire il conseguimento della virtù, che risiede infatti in coloro che sono pronti a morire in qualsiasi momento, poiché hanno raggiunto la perfetta libertà da ogni condizionamento esteriore, conquistando l’autàrkeia. Il solo modo per raggiungere questo stato di autosufficienza è dedicarsi alla sapientia per tutto il tempo concesso. Il sapiens, sapendo che il tempo è fuggevole, vive pienamente il presente. La formula vivi subito (dal De brevitate vitae), può essere definita come il carpe diem dello stoico. Occorre però fare un distinguo tra il punto di vista epicureo e quello stoico: il carpe diem oraziano infatti è di matrice epicurea, e invita a valorizzare le passioni e ogni istante della propria esistenza cogliendo i piaceri fuggitivi che offre il presente, senza interrogarsi e preoccuparsi del futuro, vista appunto la brevità della vita e sfruttando i vantaggi della gioventù. All’opposto, il concetto stoico di vivere disciplinati, senza distrazioni e perdite di tempo è strettamente affiancato all’imperativo di seguire una condotta saggia. Di conseguenza, il secondo sconsiglia di indugiare sui piaceri dell’esistenza e suggerisce di vivere per la moralità dell’anima. Un superamento di questi due pensieri opposti tra loro, passione e disciplina (che corrisponderebbero nella dialettica hegeliana a tesi e antitesi), lo compie, appunto, Hegel (1770-1831),  primo teorico dell’idealismo tedesco. Egli, infatti, definisce come sintesi per risolvere la questione, il compromesso tra la visione stoica e quella epicurea: nella ragione attiva umana spiega che non si deve seguire solamente l’imperativo categorico, né abbandonarsi ai piaceri della carne; trova nel superamento, una tesi che ingloba la sua antitesi, producendone una sintesi migliore: una via di mezzo che porta al conseguimento di virtù. 

Seneca non promuove, come potrebbe suggerire l'etica politica stoica,  né critica il suicidio, e non fornisce una regola generale su cosa fare della propria vita. Ribadisce tuttavia all’amico Lucilio come il diritto di scegliere la morte possa essere  inteso come garanzia di autonomia: la decisione della quantità di tempo in cui restare in vita è personale e il vero sapiente saprà vivere tutto il tempo che deve, non tutto quello che può. Se, ad esempio, nella prospettiva di vita si presentassero tante disgrazie, il saggio deve sapere darle l’addio alla vita, come spiega nell’epistola 70 delle Epistulae ad Lucilium.   Per questo motivo, è stolto chi si lamenta della vita, in quanto essa non trattiene nessuno (neminem tenet):

“Non è opportuno, lo sai, conservare la vita in ogni caso; essa infatti non è di per sé un bene; lo è, invece, vivere come si deve. Pertanto il saggio vivrà quanto a lungo gli compete, non quanto più può; osserverà dove gli toccherà di vivere, con chi, in che modo e quale sarà la sua attività. Si preoccupa sempre della qualità, e non della quantità della vita: se gli capitano molte cose spiacevoli, e tali da turbare la tranquillità del suo animo, egli si mette senz’altro in libertà. E non lo fa soltanto in casi di estrema necessità, ma appena la Fortuna cominciare a diventare sospetta, considera attentamente sotto ogni punto di vista se non sia quello il momento di porre fine all’esistenza” 


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OTIUM E SECESSUS IN SENECA – Lorenzo

Quello dell’otium è un concetto elaborato interamente dalla civiltà romana, e il termine in sé ha un’etimologia incerta. Si può riscontrare qualche somiglianza con il vocabolo greco scholé, che indica il tempo libero, ma esclude tutta la serie di adempimenti politici e sociali che i cittadini romani dovevano assolvere anche in fase di otium.

Mentre in italiano l’ozio ha assunto una sfumatura negativa, nel mondo romano consisteva nel tempo rimanente al cittadino una volta che questi aveva espletato le sue funzioni relative ai negotia (gli affari commerciali e la politica) e alla militia (l’attività militare). Le traduzioni (e le varianti) si sono moltiplicate, sempre  in relazione al contesto in cui compare il termine: ad esempio può essere presente con il significato più generale di “tempo libero”, di “vita privata”, o persino di “pace” nel momento in cui se ne tratta in opposizione all’attività militare. 

Sono presenti riferimenti all’otium in tutta la letteratura latina e, nello specifico, lo stesso Seneca ne fa uno dei suoi capisaldi presentandolo tra gli elementi essenziali di una sorta di terapia che può consentire all’uomo di vivere meglio.

Nel De tranquillitate animi, uno dei dialoghi composti da Seneca, l’otium occupa un posto di rilievo:  l’autore ragiona infatti su atteggiamenti e comportamenti che possano concorrere a rendere l'animo e l'esistenza sereni. Innanzitutto è fondamentale raggiungere il giusto equilibrio tra solitudine e vita sociale, alternando di conseguenza momenti di attività e di riposo. Per descrivere la necessità dell’otium Seneca utilizza una  similitudine che associa i campi fertili alla mente umana: come una numquam intermissa fecunditas (una produttività  ininterrotta) finisce per rendere meno fertili i terreni, così animorum impetus adsiduus labor franget (una fatica continua indebolirà gli slanci degli animi).

Si può rintracciare un ulteriore esempio a sostegno di questo indirizzo comportamentale nel De brevitate vitae, scritto nel periodo in cui Seneca rientra dall’esilio, che è dedicato a contraddire gli uomini che sostengono la brevità della vita, in quanto vita, si uti scias, longa est (la vita, se sai farne buon uso, è lunga 2, 1). Molto semplicemente siamo portati a pensare di avere poco tempo a disposizione perché sprechiamo gran parte della nostra vita in occupazioni frivole e vane. Il dialogo è indirizzato all’amico Paolino con l’obiettivo di liberarlo dal timore della morte, incitandolo a spendere al meglio i suoi anni ritirandosi dalla vita politica. Vengono a questo proposito citati numerosi esempi di uomini chiamati da Seneca occupati (indaffarati): si contrappongono alla figura del saggio che conosce invece la modalità corretta di vivere il proprio tempo, dedicandosi alla ricerca della verità e della saggezza, evitando di porsi come obiettivi personali elementi e circostanze che sono invece da lui indipendenti.

Tale categoria viene descritta nel capitolo XII, insieme alle occupazioni che la caratterizzano, e comprende non solo coloro che non hanno tempo libero, ma anche quanti, benché liberi da impegni, non sanno usare il proprio otium. Si tratta di quelli che persino in villā aut in lecto suo, in mediā solitudine, quamvis ab omnibus recesserint, sibi ipsi molesti sunt: quorum non otiosa vita dicenda est sed desidiosa occupatio (nella villa o nel proprio letto, in mezzo alla solitudine, benché si siano allontanati da tutti, sono fastidiosi a se stessi: la loro è da definire non una vita libera da impegni, ma un affaccendarsi inconcludente).

Nel capitolo conclusivo (XX) è presente un passaggio decisamente interessante nel quale viene descritto l’uso improprio che fanno della vita le persone perennemente indaffarate, al punto di arrivare a morire senza mai aver vissuto davvero. È possibile quindi rintracciare il metro di misura che secondo Seneca determina quanto una persona abbia vissuto. Infatti, guardando con occhio critico  ai comportamenti  occupatorum (degli affaccendati) afferma come Hi si volent scire quam brevis ipsorum vita sit, cogitent ex quota parte sua sit (questi, se vorranno sapere quanto breve sia la loro vita, considerino di quanta parte sia loro). Questo perché reputa misera la vita degli affaccendati, ma addirittura miserrima (infelicissima) quella di coloro che si affaticano in faccende non proprie e ad alienum ambulant gradum (camminano al passo d’altri).

Rivolgendosi pur sempre a Paolino,  a un certo punto,  tenta di distoglierlo dalla brama di celebrità e potere, in quanto si tratta di onori vitae damno parantur (che si ottengono a spese della vita). Siccome a Roma si era soliti nominare gli anni col nome dei consoli vigenti, Seneca sostiene che questi ut unus ab illis numeretur annus, omnis annos suos conterent (Affinché un solo anno venga conteggiato da loro, logoreranno tutti i propri anni).

Nel descrivere, poi,  quanto sia turpe una morte affaccendata viene proposto l’esempio di Turannio, che all’età di 90 anni, dopo essere stato esentato dal suo incarico politico, componi se in lecto et velut exanimem a circumstante familiā plangi iussit (ordinò di essere composto nel letto e di essere pianto come morto dalla famiglia disposta intorno a lui), come a voler significare che senza il suo lavoro terminasse anche la sua vita. Ecco che difficilius homines a se otium impetrant quam a lege (gli uomini ottengono più difficilmente l'inattività da se stessi che dalla legge), in quanto quest’ultima prescrive ai soldati il ritiro a 50 anni e a 60 per i senatori.

In conclusione, è presente il concetto con il quale si potrebbe intitolare questa sezione. Infatti emerge l’idea per cui un vecchio incapace di otium, che pertanto spreca anni della propria vita, sarebbe come un bambino. Seneca afferma come istorum funera, tamquam minimum vixerint, ad faces et cereos ducenda sunt, ovvero che i funerali di questi personaggi sarebbero da celebrarsi alla luce delle fiaccole e dei ceri. Questo perché all’epoca le esequie dei bambini e dei poveri venivano celebrate di notte, quindi la trovata dell’autore consiste nell’associare le vite sprecate delle persone indaffarate a quelle di un bambino che ha vissuto appena pochi anni, proprio per evidenziare come, in fase di bilancio finale, questi non abbiano veramente vissuto una vita ricca di senso.

Lo stesso Seneca riesce finalmente a fare una breve esperienza di quella vita contemplativa che tanto spesso ha sognato e decantato nei suoi scritti, quando, nel 62, si ritira dalla vita politica con l’atto che denomina secessus. Dedica questo periodo alla riflessione, alla lettura, allo studio e alla composizione di opere tra cui le Epistulae ad Lucilium e il De Otio.

Di conseguenza è possibile riconoscere in Seneca un’oscillazione tra due aspirazioni opposte: la visione stoica che gli imporrebbe di iuvare, ovvero di essere coinvolto dalla vita politica e sociale  e  concorrervi attivamente, e la vita contemplativa, oziosa appunto nel senso latino,  totalmente separata dal mondo. Le numerose occasioni che ha avuto per rilevare come  la prima opzione comporti numerosi pericoli, tra cui l’iperattività, la perdita di tempo ed il contagio dei vizi, lo  fanno, non solo occasionalmente, indirizzare al secessus, alla  vita ritirata che preserva la virtù ma non prevede lo iuvare nei confronti della società.

Quindi, il termine che Seneca stesso associa all’atto del suo ritiro dalla vita politica e sociale è significativo per comprendere che stile di vita conduca negli ultimi anni:  non si tratta di un semplice periodo di otium, ma di un distacco dal resto della società, che non lo vede più partecipare in prima persona al miglioramento di quest’ultima. Tuttavia tale separazione non è completa e si verifica esclusivamente per quanto riguarda la partecipazione fisica. Infatti si può riconoscere come Seneca continui a favorire il progresso dell’umanità e la liberazione di quest’ultima da paure e preoccupazioni attraverso gli scritti che non smette di produrre. Ne sono la dimostrazione le Epistulae ad Lucilium, scritte proprio durante i suoi ultimi anni di vita, e dedicate non solo all’amico, ma anche esplicitamente ai posteri (posterorum negotium ago: lavoro per i posteri). Si tratta infatti di una raccolta di epistole letterarie che seguono i progressi di Lucilio Iuniore esortato da Seneca a ritirarsi dal suo compito di procuratore per dedicarsi allo studio e alla pratica della sapientia.

Risulta interessante notare quali sensi connotativi si  possono attribuire al termine otium, tanto da arrivare a riconoscere un otium positivo ed uno negativo. Lo stesso Seneca in alcuni casi fa uso del vocabolo in tal senso , quando afferma che nessuna delle sue giornate si conclude nell’ozio (inteso qui come perdita di tempo), e quindi fa riferimento alla possibilità che l’uomo si abbandoni alla pigrizia con la scusa di dedicarvisi. Di conseguenza suggerisce di perseguire l’otium buono, quello che prevede una componente contemplativa ma ha come risultato un giovare a sé e all’umanità, senza però farne ostentazione.

In conclusione, grazie anche alla distinzione tra le due tipologie di otium, Seneca riesce a delineare una prospettiva di vita che concilia quest’ultimo con il secessus e permette di avvicinarsi alla sapienza, quella in cui risiedono la vera gioia e i  valori essenziali dell’essere umano. Tale conciliazione è presente anche nel De tranquillitate animi, dove supera l’opposizione tra otium e negotium. In questo caso si occupa di confutare lo stoico Atenodoro, che riteneva il ritiro a vita privata l’unica soluzione per sfuggire a una vita politica in cui ormai dominano corruzione e ambizione. Seneca sostiene che anche nel caso in cui ci si senta costretti al ritiro dalla vita pubblica sia necessario farlo sensim relato gradu (arretrando a poco a poco) e continuando a combattere precisis manibus (con le mani tagliate) e quindi a iuvare alios (giovare con mezzi diversi, come la parola). Questo è proprio ciò che fa Seneca stesso quando, oltre a dedicarsi alla contemplazione, non smette di giovare anche dopo il secessus, dimostrando come la virtù sia utile anche ex longinquo (da lontano) e latens (di nascosto). Addirittura arriva a sostenere come il saggio riesca ad intervenire in uno spazio ancora più ampio rispetto al politico, poiché grazie all’ideale del cosmopolitismo, che gli deriva dalla filosofia stoica, dimostra come quelli che erano prima gli incarichi del cittadino vengano trasformati ed ampliati in quelli che sono gli incarichi dell’uomo in senso generale.

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Seneca tragico: la ratio vede il meglio, ma il furor sceglie il peggio (Virginia)

Il mito di Fedra, il cui nome, phaidra, significa splendente, luminosa è stato rielaborato infinite volte a partire dal tragico Euripide nel V secolo a.C.,  sino alla rappresentazione teatrale della drammaturga Sarah Kane nel 1996. Fedra è un personaggio che fa parte di quella tradizione mitologica secondo la quale le colpe dei padri devono ricadere anche sui figli, portando a una tragica catena di eventi che, talvolta, arriva a travolgere intere generazioni della stessa famiglia. Ella è infatti figlia di Minosse, re di Creta, e di Pasifae, la regina che accoppiandosi con un toro bianco genera il Minotauro. L’insana passione della madre, tanto quanto la storia della sorella Arianna1, compongono un humus familiare di cui Fedra stessa è parte. Perciò le sue origini non vanno dimenticate, la discendenza cretese non è priva di risvolti psicologici, ma carica le sue spalle del peso della ierogamia, l’accoppiamento sacro, il cui culmine è rappresentato dall’uccisione di uno o entrambi gli amanti, talvolta con l’annessione di un figlio divino. 

Nel mondo latino è Seneca ad apprestarsi a raccontare la tragedia Phaedra. Considerata il culmine della sua produzione tragica era probabilmente, come le altre opere, destinata ad essere letta nelle sale di lettura e non recitata in teatro. Lo stile tragico senechiano si fa portatore di un significato pedagogico e morale, proponendo casi paradigmatici dello scontro tra impulsi contrastanti dell’animo umano. Da un lato c’è la ragione, spesso rappresentata da personaggi secondari (nutrici o consiglieri), mentre dall’altra c’è il furor, l’impulso irrazionale, o decisamente l'amore-passione, che travolge l’animo e lo sconvolge. L’interesse riservato a quest’ultimo dal poeta è preponderante in tutte le tragedie, le quali non lesinano particolari  atroci, in netta contrapposizione con la tradizione greca, la quale non rappresentava mai in scena atti sanguinari. 

La Fedra della tragedia di Seneca si presenta la prima volta invocando la patria lontana (O magna Creta), per poi contrapporre alla vastità della sua terra la sensazione di costrizione che le occlude il cuore, in quanto è stata data in sposa a un uomo che considera nemico, hostis, appunto, poiché profugus en coniunx abest praestatque nuptae quam solet Theseus fidem (il coniuge fuggitivo è assente e Teseo offre la fedeltà che vuole). La protagonista della vicenda  introduce subito la scabrosa passione che la travaglia, affermando di essere vittima di un maior dolor (dolore alquanto  grande); così grande da distoglierla da tutte le incombenze domestiche che le spetterebbero. La risposta a questo cruccio Fedra la può trovare solo in se stessa, o meglio, nell’eredità materna, e nella consapevolezza che risiede nella sua coscienza che nulla Minois levi defuncta amore est (nessuna figlia di Minosse ha goduto di un amore normale). Fedra, quindi, riconosce la fatalità che grava sul suo amor, ma, paragonandosi a Pasifae, nota che i sentimenti della madre, in qualche modo, sono stati ricambiati da torvus, impatiens iugi adulter ille, ductor indomiti gregis (quell’amante bruto, insofferente al gioco, guida di un branco indomito), mentre la sua passione è senza speranza.  A questo punto entra in scena la nutrice, espressione   della ragione, che cerca di esortarla a nefanda casto pectore exturbare ocius (scacciare presto dal casto petto le nefandezze). Ma a nulla servono i tentativi della nutrice, poiché Fedra, nella scena che Seneca rende un climax ascendente, dichiara il suo amore a Ippolito, suo figliastro. Il climax è rappresentato da tre livelli: per prima cosa Fedra rifiuta l’appellativo mater che le viene rivolto dal figliastro; poi gli si offre come famulam omne servitium feram (schiava pronta a ogni servizio), evocando implicitamente il tema del servitium amoris, topico della poesia erotica; per poi concludere accennando alla probabile morte di Teseo, che le permetterebbe di sposare legittimamente un altro uomo. Quando Ippolito dichiara di essere disposto a prendere il posto del padre, l’affermazione suona ambigua alle orecchie di Fedra, che procede a una dichiarazione esplicita servendosi della rievocazione della bellezza di Teseo da giovane, nella cui immagine contempla quella del figliastro, resa ancora più affascinante da un’ombra torvae matris (della selvaggia madre), e concludendo con un’apostrofe a sua sorella Arianna, domus sorores una corripuit duas, te genitor, at me gnatus (una sola famiglia ha ammaliato due sorelle: te il padre, me il figlio). La confessione di Fedra la vede inginocchiarsi supplice ai piedi del figliastro, pertanto dopo la confessione diventa supplex e culmina definendo se stessa amans, cioè donna innamorata. 

La reazione di Ippolito alla dichiarazione della matrigna è intrisa di  violenza e disprezzo, e l’idea di uccidere Fedra come sacrificio a Diana, gli pare adeguata per ottenere la purificazione dal male. La donna, però, pare essere contenta di morire per mano del suo amato, così da congiungersi in qualche modo a lui e allo stesso tempo liberarsi dalla passione incestuosa; ma Ippolito, intuendo il sollievo che la morte provocherebbe a Fedra, la lascia andare. 

La vendetta non tarda ad arrivare, e quando Teseo ritorna dalla sua missione negli inferi, le parole di Fedra, sotto consiglio della nutrice, si fanno menzognere: accusa Ippolito di aver tentato di abusare di lei. Così Teseo, infuriato, invoca la maledizione del figlio, servendosi di un desiderio concessogli dal padre Poseidone, e il giovane muore in maniera orribile. Quando il corpo di Ippolito viene portato alla reggia, fatto a pezzi dalla furia di un mostro marino,  Fedra entra in scena per l’ultima volta con la spada del figliastro ancora in mano e si prodiga nella confessione della verità attraverso un monologo che comprende una triplice anafora del pronome personale me, Me, me, profundi saeve dominator freti, invade et in me monstra caerulei maris emitte (Me, me, o signore crudele del mare profondo, assalta e contro di me scatena i mostri dell’azzurro mare), prendendo quindi su di sé l’intera responsabilità degli avvenimenti, senza cercare attenuanti di nessuna sorta. A fare da contraltare all’assunzione della colpa da parte di Fedra, c’è l’immediata e durissima accusa contro Teseo, al cui ritorno è seguita l’ingiusta morte del figlio. Alla fine di queste atroci accuse, Fedra rivolge a Ippolito la domanda Hippolyte, tales intuor vultus tuos talesque feci? (Ippolito, è così che vedo il tuo volto, come ho fatto?), nella quale risuona tutta la desolazione di chi è costretto ad assistere passivamente a uno spettacolo orrendo con la consapevolezza, però, di averlo causato con il proprio comportamento. Il dialogo con il defunto amato continua ancora, come se Fedra volesse convincersi definitivamente della morte di Ippolito. Alla fine, in preda al furor che la porterà ad affondare la spada nel proprio petto, chiede al figliastro di fermarsi un momento ancora ad ascoltarla, ribadendo et te per undas perque Tartareos lacus, per Styga, per amnes igneos amens sequar (attraverso le onde e le paludi, attraverso lo Stige e il fiume di fuoco io ti seguirò, disperata). Ella, come in vita si era dichiarata disposta a seguire Ippolito attraverso i luoghi impervi della caccia, afferma ora di volerlo seguire anche nella morte, lungo le paludi e i fiumi del Tartaro. Prima di compiere il suicidio, Fedra riconosce di aver concepito la passione incestuosa in uno stato di alterazione della mente prodotto da ipsa demens pectore insano (io stessa pazza nel cuore delirante), sostituendo alla follia una lucida capacità di analisi della situazione che si conclude con il suicidio. 

A questo punto a Teseo non resta che piangere la morte del figlio Ippolito e ordinare che i resti del suo corpo vengano ricomposti. Il re di Atene, in preda allo strazio e impossibilitato a riconoscere suo figlio nei brandelli di carne portati al suo cospetto, conclude la tragedia chiedendo di gettare il corpo di Fedra in una fossa e ricoprire di terra il suo impio capiti (capo maledetto). 

Così si conclude la tragedia Phaedra, al cui centro c’è l’omonima figura femminile. Nella tragedia di Euripide dalla quale probabilmente discende la Phaedra senechiana, Ippolito coronato, viene messo più in rilievo il personaggio di Ippolito, alla cui dolorosa vicenda è dedicata tutta la seconda parte dell’opera, rispetto a Fedra che esce di scena a metà della tragedia. 

Ippolito, secondo la genealogia mitica, è figlio di Teseo e dell’Amazzone Antiope, perciò frutto, come Fedra, di ierogamia, dell’unione tra umano e divino. Giovane di straordinaria bellezza e di castità singolare, si dimostra estremamente devoto ad Artemide e sprezzante e refrattario nei confronti di Afrodite. Per questo motivo la dea dell’amore decide di punirlo instillando nella matrigna Fedra una insana passione per il giovane, che arriverà a trasformare la loro vicenda in tragedia. Ippolito non solo non ama Fedra, ma è completamente estraneo a tutto ciò che riguarda la vita amorosa e la sessualità. La sua è una virtù repressiva, che mette un vincolo alle passioni dell’animo attraverso una esaltata castità. Da qua si evince il binomio classico eros e thanatos (amore e morte) perché Ippolito, così dedito alla caccia e al culto di Artemide, chiude a Fedra, preda di un amore logorante, le porte dell’eros, portando inevitabilmente alla morte.

Pare ovvio, a questo punto, che le colpe delle quali si macchiano i personaggi delle vicende tragiche non siano esclusivamente da attribuire alla loro persona, ma spesso derivino, in svariate forme, da antenati o maledizioni familiari. Eppure, Fedra, paragonata alla madre Pasifae, la quale si è accoppiata con un toro, sembra avere maggiore responsabilità: il monstrum di Pasifae può essere ricondotto al fato, ma il nefas di Fedra si ascrive a una precisa colpa. L’unione con Ippolito potrebbe realmente essere considerato incesto, anzi, forse l’incesto per eccellenza; quello in cui l’identico si somma all’altro identico, il padre al figlio. La coscienza di Fedra, tuttavia, è incline alla ragione, ma le si contrappone la forza del furor che l’ha invasa e la induce a intraprendere la strada peggiore. Fedra, proprio come Medea, la cui ragione non può nulla contro il furor, vede il meglio ma sceglie il peggio

 

1.        Nella mitologia greca, figlia di Minosse re di Creta e di Pasifae. Innamoratasi di Teseo, giunto a Creta con i giovani e le fanciulle, vittime destinate al Minotauro, dà all’eroe un filo per uscire dal labirinto, dopo l’uccisione del mostro. Fugge con Teseo e, dopo una sosta a Delo, giunge nell’isola di Nasso dove Teseo l’abbandona dormiente. Qui, a seconda delle versioni, s’impicca o, posseduta da Dioniso, viene uccisa da Artemide per aver perduto la verginità, o diviene sposa del dio. Come sposa di Dioniso, Arianna ebbe culto specialmente a Nasso, Delo, Rodi.

 

 

 

 


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