SVEVO - LEZIONE

 Ettore Schmitz nasce nel 1861 a Trieste. Suo padre, ebreo, ha un’attività commerciale che nel 1880 fallisce, costringendo il giovane Ettore a impiegarsi presso la filiale triestina della Banca Union di Vienna, dove rimane fino al 1899 in qualità di corrispondente in francese e in tedesco. Dall’80 si dedica alla letteratura, scrivendo saggi critici, i primi racconti sono del 1888, nel 1892 pubblica il primo romanzo, Una vita con lo pseudonimo di Italo Svevo. Il secondo romanzo, Senilità è del 1898 e, in assenza di reazioni significative, considerandolo quindi un insuccesso, l’Autore decide di desistere dalla scrittura, per dedicarsi allo studio del violino. Entra nella ditta del suocero Veneziani e intraprende frequenti viaggi all’estero per seguire le attività della ditta. Durante uno di questi, conosce James Joyce, dal quale inizia a prendere lezioni di inglese, nel 1907, ma soprattutto inizia a intrattenere una importante e duratura relazione amicale e letteraria. Fra il 1908  e il ’12 inizia a leggere le lezioni di Freud e traduce L’interpretazione dei sogni in collaborazione col nipote medico Aurelio Finzi.   Tali studi sono sicuramente importanti per spiegare alcune delle caratteristiche del romanzo La coscienza di Zeno, pubblicato nel 1923. Accolto tiepidamente alla sua prima uscita, piace a Joyce, che si occupa del suo lancio in Francia. In Italia è invece Montale a scrivere il celebre Omaggio a Italo Svevo¸ nel 1825, ricco di interessanti e valide intuizioni sul romanzo. Da questo momento l’interesse e la fama di Svevo sono destinati ad accrescersi sempre più, senza però ch’egli possa gioirne a lungo: muore in seguito a un incidente nel 1828

Senza alcun dubbio Svevo è uno dei padri del Novecento. Un ventennio lo separa da Verga, scrivono all’incirca nello stesso periodo e muoiono a poca distanza l’uno dall’altro. Tuttavia c’è fra loro la separazione del secolo. Verga è narratore verista, tutto intriso della temperie alla quale egli stesso ha dato modo di manifestarsi. I lineamenti del verismo sono dettati da lui, con le sue corrispondenze con interlocutori quali Verdura e lo scrittore Capuana, di cui ci sono tracce in lettere o in dichiarazioni di poetica divenute celebri. Verga e la scomparsa del narratore, l’artificio della regressione, la narrazione che si fa da sé. Il vero che si manifesta ovunque, nella descrizione come nella lingua, anche se non si tratta di riprodurre il dialetto ma è questo che si scava un solco nella lingua letteraria. Verga e la campagna siciliana o la costa del mare di Sicilia dove i vinti si abbarbicano alle rocce come ostriche. E il progresso che semina solo danni e non cambia l’essenza dell’anima di quelli che vivono lontani da tutti ma non dalla roba che li rende consapevoli di essere al mondo come nient’altro. Verga che vede vicino perché è stato lontano e che non spera perché i protagonisti dei suoi romanzi hanno i capelli rossi perché sono cattivi e questo impedirebbe anche al più pertinace ottimista di coltivare sogni di qualsiasi genere. Verga i cui progetti narrativi a un certo punto s’arrestano e si trasformano in un album fotografico, che alla fine è meno menzognero di qualsiasi parola perché si limita a fissare in una posa corpi e paesaggi privati del movimento.

Se tutto questo è Verga ed è l’Ottocento, con Svevo si è già da un’altra parte. La partenza è, senza alcun dubbio, verista o naturalista, che dir si voglia. La confusione che, presentando i due movimenti, ho voluto evitare, nel suo caso è anche lecita. Dal verismo mutua lo stile distaccato, l’assenza del narratore onnisciente dedito al giudizio, l’impressionante mimetismo ambientale, che consente di seguire le storie come una cinepresa a mano, che s’infila in ogni buco della serratura. Dal naturalismo l’impietosa attenzione rivolta ai tic, alle storture comportamentali di tutte le classi sociali, alle loro ataviche distorsioni nel modo di rappresentare se stesse agli altri e gli altri a sé. Se l’ottimismo relativo alla possibilità di migliorare le proprie condizioni è un tratto caratterizzante dei naturalisti, però, di questo non si trova traccia nemmeno nel primo Svevo, ed è da qui che possiamo quindi inaugurare il discorso della specificità novecentesca di questo Autore.

Ora però procedo con l’ordine dettato dalla cronologia dei romanzi, che diversi critici, a cominciare da Montale,  suggeriscono, a ragione, di considerare una sorta di trilogia, alla quale ben spetterebbe il titolo di trilogia dell’inetto. Nel primo, Una vita, 1892, che doveva intitolarsi Un inetto, non fosse stato per l’opposizione dell’editore, compare appunto l’inetto Alfonso Nitti. Come scrive acutamente Montale, Svevo si identifica in questo personaggio e, attraverso di lui, si libera di una parte della sua vita. Alfonso, orfano di padre, lascia la madre e il paese natio per impiegarsi presso la banca Maller di Trieste, in qualità di corrispondente (proprio come Svevo).  Personalità ossimorica, al contempo arida e appassionata, umile e orgoglioso, nell’ambiente dei colleghi della banca si sente superiore, ma al contempo isolato. L’inizio della sua fine è segnato dalla relazione con la figlia del padrone della banca, Annetta Maller, figlia unica e viziata, alla quale egli si avvicina anche per via d’una sua segreta ambizione che condivide via via con lei: quella di diventare scrittore. A un certo punto sembra proprio che le ambizioni di Alfonso stiano per coronarsi almeno per quanto riguarda la relazione con Annetta, ma quasi all’improvviso si manifesta in tutta evidenza una caratteristica peculiare e insormontabile del personaggio: l’inettitudine a vivere, nel senso più etimologico del termine.

– Fatti proprio per pescare e per mangiare, – filosofeggiò Macario. – Quanto poco cervello occorre per pigliare pesce! Il corpo è piccolo. Che cosa sarà la testa e che cosa sarà poi il cervello? Quantità da negligersi! Quello ch'è la sventura del pesce che finisce in bocca del gabbiano sono quelle ali, quegli occhi, e lo stomaco, l'appetito formidabile per soddisfare il quale non è nulla quella caduta così dall'alto. Ma il cervello! Che cosa ci ha da fare il cervello col pigliar pesci? E lei che studia, che passa ore intere a tavolino a nutrire un essere inutile! Chi non ha le ali necessarie quando nasce non gli crescono mai più. Chi non sa per natura piombare a tempo debito sulla preda non lo imparerà giammai e inutilmente starà a guardare come fanno gli altri, non li saprà imitare. Si muore precisamente nello stato in cui si nasce, le mani organi per afferrare o anche inabili a tenere. Alfonso fu impressionato da questo discorso. Si sentiva molto misero nell'agitazione che lo aveva colto per cosa di sì piccola importanza. – Ed io ho le ali? – chiese abbozzando un sorriso.– Per fare dei voli poetici sì! – rispose Macario, e arrotondò la mano quantunque nella sua frase non ci fosse alcun sottinteso che abbisognasse di quel cenno per venir compreso.

Alfonso torna nel paese natale per una licenza di quindici giorni. Assiste alla morte della madre e indugia più del necessario. Quando torna a Trieste, tutto è cambiato. Degradato in banca, dimenticato da Annetta che non lo riceve più. Alla fine di suicida. Una vita abortita, una vita che non riesce a manifestarsi se non in illusioni. L’inettitudine come mancanza assoluta di energie. Il suo suicidio non è nemmeno una sconfitta, ma un ritiro prima di aver giocato.

Il secondo inetto, protagonista di Senilità del 1898 è Emilio Brentani, sorta di Alfonso sopravvissuto e giunto a 35 anni senza aver ancora incontrato nessuna Annetta e pieno di velleità letterarie. Vive dello stipendio di un piccolo impiego insieme alla sorella Amalia, poco più giovane e nubile, l’uno la stampella dell’altro.  Irrompe nella sua vita una fanciulla, Angiolina Zarri, che Emilio si prefigge di conquistare, per un’avventura, ma non senza contemporaneamente immaginarsi di poterne diventare il mentore, essendo lei di umili origini. Angiolina, che lui ama chiamare Ange, è un misto di ingenuità e corruzione, è ben più navigata di quanto Emilio ami figurarsi, ma accetta le attenzioni di Emilio, del quale forse si prende anche gioco. Nella vicenda svolge un ruolo importante un amico scultore di Emilio, Balli, che rappresenta l’opposto del primo: sensuale e irruente, avventuroso e creativo, Balli suscita la una passione non corrisposta in Amalia, e si assume anche il compito di rivelare a Emilio quanto si stia ingannando sul conto di Angiolina, che lungi dall’essere la casta fanciulla dedita a un amore platonico come lui vorrebbe, intrattiene svariate relazioni più o meno equivoche. La vicenda culmina nel dramma della morte di Amalia, minata da un etilismo malamente nascosto, e nella rivelazione definitiva del carattere di Angiolina, che comunque  verso la fine della storia si concede fisicamente a Emilio (quasi lo violenta) per poi uscire definitivamente dalla sua vita. L’esito catastrofico è reso ancora più tale dal fatto che Emilio, a distanza di qualche anno da queste ultime vicende, continui a vagheggiare una sua Ange, nella quale ha irrimediabilmente fuso sua sorella e un’Angiolina mai esistita frutto della sua costituzionale incapacità di vivere. L’inetto raggiunge in lui quindi una sua ulteriore espressione. Non più il tipo di chi si ritira dalla vita prima ancora di averla iniziata, ma di chi vorrebbe plasmarla ma non ne ha minimamente la forza. Senilità, alla fine, è un titolo assai appropriato: Emilio è una di quelle persone nate già anziane, minate da una vecchiaia dello spirito, fatta per tarpare (può ben tornare l’immagine) le ali prima che si sia potuto spiccare il volo. Nemmeno suicidarsi potrebbe Emilio, se non altro perché non ne avrebbe le forze. O, meglio, perché non è così fondo il pozzo della sua disperazione. Si può forse iniziare a intravvedere nel personaggio quello che diverrà il punto di forza dell’ultimo della genealogia degli inetti, Zeno Cosini. L’arte di sottrarsi alla vita senza farsene accorgere, di scansare il gioco e la sfida, per poi comparire all’ultimo dichiarandosi vincitori. Inetti come Zeno finiscono per trionfare su tutti. E Emilio su questa strada lo precede, anche se con minor arte. Infatti deve rifugiarsi nel sogno, deve amare un’Ange che non solo ha smesso di esistere ma che non c’è nemmeno mai stata. Per lui sì, tuttavia, ed è quello che gli resta e che gli basta. 

Arrivo alla Coscienza di Zeno. Con una precisazione. Ho detto la volta scorsa che nella cosiddetta trilogia degli inetti, fin dal primo romanzo, Una vita, è riconoscibile un’impostazione naturalista. Il narratore in entrambi è un narratore esterno ma, occorre precisare, non onnisciente come quello manzoniano. E nemmeno scomparso, come vogliono veristi e naturalisti. Piuttosto, accogliendo un suggerimento di Henry James, è un narratore con prospettiva ristretta. Nel senso che non conosce tutto e non guarda dall’alto i suoi personaggi, ma è piuttosto una voce della coscienza. Questo è ravvisabile soprattutto nel secondo romanzo della cosiddetta trilogia, in Senilità. dove addirittura è possibile cogliere una duplicazione di voci: la voce del conscio, Emilio, e quella dell’inconscio, il narratore. Quest’ultimo, in quanto coscienza, si assume il ruolo di sottolineare le contraddizioni del protagonista. Una sorta di preparazione al salto che avviene nell’ultimo romanzo, in cui la voce del protagonista coincide con quella del narratore, mentre quello che potremmo definire un controcanto è affidato al doppio, e allo stesso tempo antagonista, di Zeno, ossia il suo psicanalista, il dottor S.

Un’ultima precisazione tecnica, prima di procedere con la struttura del romanzo e i suoi contenuti. Svevo utilizza, il discorso indiretto libero, ma non per conferire oggettività e impersonalità alla narrazione (come scrittori realisti dell’Ottocento, da Flaubert a Verga), bensì per creare inattese (o persino difficili da individuare) sovrapposizioni fra narratore e personaggio, utili per esempio a veicolare sottili ironie, che non vengono quindi rese esplicite o annunciate, ma trasmesse per via indiretta. [esempio: Doveva essere povera, molto povera, ma per il momento – lo aveva dichiarato con una certa qual superiorità – non aveva bisogno di lavorare per vivere, Senilità, I cap.: povera, molto povera può ben essere quanto esclamato dal soggetto, che il narratore riporta indirettamente, riproducendo attraverso la ripetizione il parlato, ma poi nell’inciso inserisce con una certa qual superiorità per connotare il personaggio per via di un’osservazione sicuramente  esterna al medesimo]. Nel romanzo che sto per presentare, vista la sua particolare struttura, invece la narrazione è condotta in prima persona, poiché Zeno Cosini, il protagonista, racconta la propria storia. La conseguenza principale è che se il narratore, ancora in Senilità,  poteva smascherare il protagonista (ad esempio in merito ai suoi autoinganni su Ange) nella Coscienza di Zeno, a dispetto del fatto che fin dal titolo sia la coscienza a essere indicata come protagonista, nessuna autorità è presente per assumersi il ruolo di dire la verità. Addirittura, si può sostenere che l’intero romanzo sia costruito in modo da rendere la verità introvabile e da sconfessare in varie maniere l’attendibilità della parola di quelli che si assumono la responsabilità della narrazione, da Zeno al dottor S., lo psicoterapeuta.

Zeno dunque è il narratore interno della propria vita ed è un narratore, non era ancora capitato così evidentemente  nella storia della letteratura, inattendibile. Lo dichiara anche apertamente: dichiara di aver manipolato i suoi ricordi per via della dimenticanza, dissemina la narrazione di vere e proprie incongruenze, compresa la cronologia di eventi che riguardano lui direttamente o altri personaggi, quando non lascia il lettore nella sospensione per quanto concerne la spiegazione di alcuni comportamenti. Ultima complicazione, il fatto che Zeno sia, di nuovo rispetto ai precedenti inetti, un alter ego dell’autore, e presenti in sé molte caratteristiche che Svevo riconosce a se stesso ma che ovviamente nel processo di delineazione del personaggio risultano modificate. Insomma, una falsificazione al quadrato, o una falsificazione che ne alimenta altre. Un altro elemento innovativo presente nel romanzo è rappresentato dalla nozione del tempo. Trascinato nella rovina della fiducia positivista nel dato oggettivo è sicuramente anche il tempo, insieme allo spazio. Spazio e tempo cambiano in relazione al soggetto che agisce, osserva, vive. Non esiste un passato oggettivo dato che ogni qual volta la memoria opera in quella direzione avviene una manipolazione: alcuni eventi, dettagli, scompaiono, altri restano in rilievo o ne acquistano uno che non avevano mai avuto. la coscienza quindi, implicata in questa operazione, risulta essere la responsabile dell’incertezza ed è sempre lei a filtrare il tempo e a esprimerlo quindi come una dimensione soggettiva. A questo proposito, non si può non ricordare che Svevo scrive negli stessi anni in cui Marcel Proust concepisce e inizia a pubblicare la sua Recherche, che però Svevo dichiarò di aver letto solo dopo la stesura della Coscienza di Zeno. Quanto alla psicanalisi, il romanzo ha certo un rapporto diretto con essa,  a cominciare da quello che si può considerare l’artificio narrativo di partenza, di cui fra poco tratterò e dalla titolatura di una delle sezioni. Ciò non toglie che sia stato Svevo a prendere originariamente le distanze da Freud: vi sono due o tre idee nel romanzo che sono addirittura prese di peso dal Freud. L’uomo che per non assistere al funerale di colui che diceva suo amico e ch’era in realtà suo nemico si  sbaglia di funerale è un’idea freudiana scrive, ma poi la psicanalisi io la conobbi nel 1910. Un mio amico nevrotico corse a Vienna per intraprenderla. L’avviso dato a me fu l’unico buon effetto della sua cura. Si fece psicoanalizzare per due anni e ritornò dalla cura distrutto: abulico come prima, ma con la sua abulia aggravata dalla convinzione ch’egli essendo fatto così, non potesse agire altrimenti. E’ lui che mi diede la convinzione che fosse pericoloso spiegare ad un uomo com’era fatto. Bisogna dar credito a Svevo quanto al fatto che non volesse certo scrivere un romanzo sulla psicoanalisi né dimostrarne l’efficacia o inefficacia curativa. Più che altro Svevo si dimostra ben consapevole del fatto che i disturbi psicologici di cui Freud si occupa offrono di per sé cospicuo materiale narrativo. E questo fa il paio col fatto che Freud e la sua scuola, come ben sappiamo da Hoffmann, abbiano nutrito un significativo interesse per la letteratura per così dire psicoanalizzabile, ovvero ad esempio quella che dà luogo alla fertile analisi del perturbante come emozione ineludibile per produrre gli effetti del meraviglioso in una delle sue più efficaci e primigenie espressioni nel primo romanticismo.

Prendo ora in esame la struttura della Coscienza di Zeno. Si tratta di otto capitoli, di lunghezza molto differente. Una Prefazione  e un Preambolo molto brevi e, a seguire, Il fumo, La morte di mio padre, La storia del mio matrimonio, La moglie e l’amante, Storia di un’associazione commerciale Psico-analisi.  L’ordine in cui sono collocati non è cronologico, ma analogico, escludendo solo Prefazione e Preambolo di cui dirò a parte. Il procedimento analogico è, non si tratta di un paradosso, il più adeguato per seguire il tortuoso, imprevedibile modo di procedere della memoria che, abbiamo già rilevato prima, non conosce realtà ma solo proiezione, manipolazione, modificazione, selezione della medesima. Esso è inoltre il metodo utilizzato nella pratica psicoanalitica (questo è un debito freudiano innegabile da Svevo stesso), che accompagna il soggetto in un percorso di recupero dei ricordi proprio per via di analogie, che si riescano a istituire per promuovere appunto una sorta di aggancio di ciò che sia stato rimosso. Per spiegare meglio questa scelta, mi occupo anche dell’artificio narrativo iniziale. Nella Prefazione un primo narratore si presenta come dottor S. lo psicoanalista che ha in cura Zeno [allusioni possibili: S come rovesciamento di Z iniziale di Zeno, oppure come Sigmund, nome di Freud o ancora come Stekel, allievo di Freud, che ebbe contatti con Svevo; ancora se S si leggesse es sarebbe il termine con cui la psicanalisi designa la parte della psiche che ospita le pulsioni più aggressive] il quale scrive di pubblicare per vendetta l’autobiografia di un suo paziente che ha interrotto la cura e di essere disposto a dividere con lui i lauti guadagni che si attende da tale pubblicazione a patto che riprenda la cura. Ma la comunicazione più importante si legge alla fine: se sapesse quante sorprese potrebbero risultargli dal commento delle tante verità e bugie ch’egli ha qui accumulate! Il suo ruolo principale è dunque quello di mettere in dubbio la verità della narrazione. Ma nemmeno la credibilità di questo primo narratore è scontata: intanto ammette di aver proposto al suo paziente una procedura poco ortodossa, ossia la scrittura di un’autobiografia, poi parla di vendetta, quindi di aperto ricatto (dividerà i ricavati solo a patto che riprenda la terapia). Insomma un narratore disonesto, sprovvisto di deontologia e dunque non certo adatto a svolgere il ruolo di garante d’una qualche verità. Quanto al Preambolo è una sorta di esercizio di regressione, che consente al narratore interno Zeno di manifestare il suo scetticismo nei riguardi del metodo psicoanalitico come l’ha inteso dal dottor S. : si dispone a cercare di far riemergere ricordi ma, nell’ordine, o s’addormenta profondamente e non sogna nemmeno, o cade preda di memorie confuse e inutili, in cui gli viene alla mente un bambino che però non è lui stesso ma un nipote nato di recente. Insomma, un fallimento.

Metto un po’ d’ordine nella narrazione. Zeno Cosini, di Trieste come i suoi predecessori nella trilogia, perde la madre da ragazzo e vive col padre che lo considera un totale incapace, com’egli infatti sembra industriarsi a dimostrare di essere: passa da una facoltà all’altra, si ripromette di smettere di fumare e non riesce (una sezione s’intitola proprio Il fumo perché è un primo motivo, forse uno specchietto per le allodole, in verità, per cui Zeno si affida a uno psicanalista). Un acme del suo fallimento sembra ravvisabile nel periodo in cui il padre, ammalatosi, viene assistito da Zeno e un giorno, in una stranissima scena di fraintendimento gestuale, mentre sembra volersi districare da un abbraccio del figlio mentre lui si trova a letto, lo colpisce al volto con uno schiaffo e muore. Si tratta forse di una concatenazione involontaria e casuale, ma per Zeno si trasforma in un evento simbolico, che a lungo lo perseguita generandogli sensi di colpa. Frequentando la Borsa di Trieste Zeno conosce Giovanni Malfenti, abile affarista e padre di quattro ragazze, che si chiamano tutte con la a: Augusta, Ada, Alberta e Anna. Le prime tre sono in età da marito. Zeno, che inizia a frequentare la loro casa, è attratto da Ada, che gli preferisce il brillante Guido Speier, con cui entra subito in competizione; perse le speranze con Ada, che in effetti poi sposerà Guido, si dichiara ad Alberta, che lo rifiuta. Alla fine sposerà quella che gli era parsa la meno desiderabile delle sorelle, Augusta, che si rivelerà però un’ottima compagna di vita, fedele, sensibile e, soprattutto, estremamente adattabile. Anzi, il matrimonio di Augusta e Zeno risulta, alla prova dei fatti, un matrimonio felice, mentre quello di Ada e Guido ha poi un esito catastrofico, così come la vita vita medesima di Guido, che per sfuggire a un accumulo di debiti decide di simulare il suicidio. Assume però una dose eccessiva di Veronal e muore davvero, complice anche una maldestra (o malintenzionata) informazione datagli da Zeno sulla sostanza in questione. Già da questi dettagli è possibile intendere come Zeno, nella genealogia di inetti che stiamo finendo di ricostruire, rappresenti una sorta di forma evoluta del soggetto in questione. La sua, infatti, è una sorta di inettitudine corretta, un’inettitudine che approda al successo, che lo rende non uno sconfitto, suicida come nel caso di Alfonso Nitti ovvero sopravvissuto in un’eterna senilità come in quello di Emilio Brentani, ma un vincente. Soccorre, a questo proposito, la similitudine trovata dal critico De Benedetti, tra i primi ad analizzare molto approfonditamente i personaggi e la visione del mondo di Svevo. De Benedetti associa Zeno a un bambino di pochi mesi che, posto su un tappeto e circondato da giocattoli, si sforza di prenderne uno troppo lontano dalla sua portata, ma mentre brancola per arrivare ad afferrarlo viene distratto da un altro giocattolo, più vicino che gli resta in mano come per caso e diventa quello con cui s’intrattiene e gioca contento dimenticandosi dell’altro. Zeno sarebbe quel bambino che ottiene ciò che non crede di volere ma che è invece del tutto adatto a lui e in grado di renderlo realizzato. A riprova di questo si può portare la lunga parte conclusiva del romanzo. In essa Zeno si trova a vivere, apparentemente in modo maldestro, un periodo particolarmente difficile della storia: la I guerra mondiale. Proprio in questo momento tragico per tutti, la sua vita, che non era riuscita a raddrizzarsi in precedenza, lasciandolo ad esempio in balìa di malattie psicosomatiche, del vizio del fumo, per cui si era rivolto allo psicanalista che l’aveva spinto a scrivere la propria autobiografia, subisce un improvviso cambiamento positivo, per cominciare negli affari: inizia a comprare beni svariati, a investire e il suo patrimonio si accresce a dismisura. In concomitanza con il successo economico avviene la sua guarigione. Trattandosi di malattie psicosomatiche è improprio parlare di guarigione, ma è così che si sente e dichiara di essere Zeno: completamente guarito, anche senza la terapia del dottor S. che infatti decide di abbandonare. Insomma, le ultime pagine del romanzo sono scritte da uno Zeno che si proclama un uomo sano, proprio nel momento in cui nel resto del mondo infuriano guerra, desolazione e distruzione. Ma l’ultimo colpo di scena della narrazione si legge proprio nella pagina finale. In un soprassalto di profetismo, lo pseudo inetto Zeno prevede la fine del mondo: un’apocalisse che culminerà in una potente deflagrazione che porrà fine alla terra e a tutti gli esseri che la abitano:

Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quali innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po’ più ammalato, ruberà tale esplosivo e s’arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie.

Senza più parassiti e malattie, suonano le ultime parole della vita scritta da Zeno. Come se l’ossessione ipocondriaca ricomparisse nell’ultima piega della narrazione, a dimostrare anch’essa quanta poca verità sia contenuta nelle parole di questo eccezionale mentitore e manipolatore. E se il vero sfugge, sfugge il cuore della narrazione, sfugge la memoria a restare è invece, celebrando una specie di trionfo, è lo pseudo inetto capace di sopravvivere a tutte le vicissitudini, ricavandone motivi di forza e di rinnovamento. Zeno sopravvive a tutti i suoi antagonisti, al padre a Guido, riesce a procurarsi varie soddisfazioni (una moglie che lo circonda di premure, lo accudisce ed è sempre pronta a comprenderlo, oltre a garantirgli la continuità di una famiglia, un’amante giovane con la quale si concede il lusso di un rapporto extraconiugale gestito senza compromettere la famiglia legale, attività commerciali condotte a buon fine in un periodo di miseria e difficoltà diffuse). Alla fine, anche la salute è trionfalmente conquistata. O, per meglio dire, alla fine si capisce che in un gioco di capovolgimenti al quale conviene abbandonarsi leggendo questo pluristratificato romanzo, l’unico soggetto che sia stato sempre adatto al gioco della vita è proprio questo impostore seriale e camaleontico che racconta a tutti di avere una coscienza alla quale persino si permette di affidare il compito di raccontare tutta la propria storia. Ossia, naturalmente, un cumulo di bugie.

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