RIPASSO ITALIANO MODULO 10 - PIRANDELLO - VITA - IL FU MATTIA PASCAL - UNO, NESSUNO CENTOMILA, SAGGI LA TRAPPOLA - CINEMA

MODULO 10: Pirandello

Dettagli: Luigi Pirandello, passi scelti da Il fu Mattia Pascal, Uno, nessuno e centomila, L’umorismo, da Le maschere nude, I sei personaggi in cerca d’autore, Enrico IV; dalle Novelle per un anno, Il treno ha fischiato, La carriola.

Vol. 3b: pp. 890-896; 907-913; 981-986 (umorismo, treno, metateatro)

VITA DI PIRANDELLO 

Sicché posso dire – come altrove ho già detto – che il mio rapporto con l’opera pirandelliana ha una qualche somiglianza col rapporto col padre: che si sconta dapprima sentendolo come ingiusta e ossessiva autorità e repressione, poi sollevandoci alla ribellione e al rifiuto; e infine liberamente e tranquillamente vagliandolo e accettandolo, più nel riscontro delle somiglianze che in quello, tipicamente adolescenziale, delle diversità.

Così si esprime  Leonardo Sciascia (sì, il memorabile autore della Scomparsa di Majorana), nel discorso commemorativo da lui  pronunciato  il 10 dicembre 1986 a Palermo, nel cinquantenario della morte di Luigi Pirandello.  Poi Sciascia ha scritto due saggi su Pirandello, uno intitolato Pirandello e la Sicilia, l'altro Alfabeto pirandelliano.. In entrambi i casi conta la componente della paternità messa in luce dal breve passaggio riportato, alla quale si associa quella della conterraneità:  per i due scrittori la Sicilia, la cara Sicilia, crocevia di culture,  mondo arcaico,  modo di essere, è condizione dello spirito. La Sicilia di Pirandello, che Sciascia riprende e sente a suo modo,  è  sinonimo di zolfara: senza la zolfara (e le sue tragedie: di morte, dolore e sfruttamento umano) non ci sarebbe stata – annota ancora  Sciascia – l’avventura dello scrivere, del raccontare. 

Diamo inizio alla biografia con questo odore di zolfo che aleggia nell'aria: Pirandello nasce presso Girgenti (poi Agrigento, dall'epoca fascista) nel 1867. La contrada in cui si trova la proprietà di famiglia, il padre dirige miniere di zolfo prese in affitto, è denominata in dialetto cavusu, corruzione del termine greco kaos. Alle origini della vita di Pirandello, come tanto lui quanto Sciascia non mancano di passaggio di notare, vi è dunque oltre allo zolfo anche un principio originario, un'entità che il mito greco rende divina: un disordine dal quale, per successive metamorfosi (non dimentichiamo Ovidio), nasce Tutto e Tutto si ordina, con la compartecipazione di Gea (terra), Eros (amore) e Tartaro (l'oscurità sotterranea).  Procedendo oltre questa suggestione, che avvertiamo operare variamente  nella scrittura di  Pirandello, notiamo che il suo percorso di formazione comprende studi umanistici all'università di Palermo, di Roma e di filosofia e filologia a Bonn. Entrato precocemente nel novero dei giovani scrittori italiani ispirati dal  verismo e naturalismo (il suo primo romanzo risale al 1893 e i primi racconti al 1894), in seguito al dissesto economico familiare, subito per via dell'allagamento della zolfatara in cui il padre aveva investito l'intero patrimonio (compresa la dote della moglie di Luigi), Pirandello, già docente di lingua italiana al Magistero di Roma, deve integrare lo stipendio intensificando l'attività di scrittura. Nel contempo la sua vita familiare si fa difficile: la moglie, incline alle ossessioni, afflitta da patologica gelosia nei suoi riguardi  (La pazzia di mia moglie sono io, scrive Pirandello a un amico) vede peggiorate le condizioni di salute in seguito al tracollo economico. Maria Antonietta Portulano viene infine ricoverata, con la diagnosi di delirio paranoide nel gennaio del 1919 in una casa di cura di Roma, dove muore quarant'anni dopo. Per Pirandello, dunque, la famiglia è fonte di tormenti e sofferenze varie: quale  ultimo dettaglio in merito, durante la I guerra mondiale il figlio primogenito Stefano, partito volontario, viene subito fatto prigioniero dagli austriaci e liberato solo al termine del conflitto, con l'armistizio del novembre 1918. L'instaurazione del regime fascista in Italia trova inizialmente Pirandello disposto a iscriversi al partito (nel 1924, subito dopo l'assassinio del deputato socialista Matteotti) e poi sostanzialmente defilato rispetto al regime, nei confronti del quale non manifesta né approvazione né disapprovazione, limitandosi ad assicurarsi le condizioni necessarie per poter condurre la propria attività drammaturgica presso il Teatro dell'Arte di Roma finanziato dallo Stato. Il primo contatto con il mondo del teatro risale però al 1910, quando  Pirandello ha già pubblicato romanzi (Il fu Mattia Pascal è del 1904), il saggio L'umorismo (1908) e varie novelle della raccolta Novelle per un anno, nella quale confluisce la produzione di una vita. Gli atti unici con cui si presenta sulle scene sono ancora d'impostazione naturalistica, ma tra il 1916 e il 1918 inizia a orientare la sua drammaturgia in una direzione totalmente nuova, che culmina senz'altro con due drammi metateatrali presentati negli anni Venti: I sei personaggi in cerca d'autore (1921) e Enrico IV (1922). Non abbandona comunque mai la narrativa, sia continuando a scrivere novelle, sia pubblicando il romanzo Uno, nessuno e centomila tra il 1925 e il '26.  Pirandello si avvicina anche al mondo del cinema, scrivendo un romanzo a esso dedicato, I quaderni di Serafino Gubbio operatore (1915), e collaborando a sceneggiature e regia del film tratto da Il fu Mattia Pascal, che uscirà dopo la sua morte, avvenuta nel dicembre del 1936, due anni dopo aver ottenuto il premio Nobel per la Letteratura. 

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IL FU MATTIA PASCAL

Il fu Mattia Pascal: pubblicato per la prima volta a puntate sulla “Nuova Antologia”, prende spunto da un  trafiletto di giornale  e, per indicazione fornita dallo stesso Pirandello, dalla Misteriosa storia di Peter Schlemihl di von Chamisso, che narra la storia di un uomo che fa un patto col diavolo e perde la propria ombra per avere la ricchezza. Nel caso di Mattia Pascal, l’ombra perduta è ovviamente rappresentata dall’identità anagrafica, della quale il protagonista pensa di poter fare a meno, anzi,  della quale pensa di potersi vantaggiosamente liberare per sentirsi per così dire un uomo nuovo, per ricominciare a vivere. Ammogliato, dopo rocambolesche vicende, con Romilda Pescatore, Mattia è costretto a convivere nel suo paese natale (dal nome inventato di Miragno, in Liguria)  con una suocera invadente, ed è pure travagliato da  problemi finanziari. Deciso ad abbandonare la famiglia, pronto a imbarcarsi per l’America, si ferma a Montecarlo per giocare al casino e vince una cospicua somma. Decide allora di tornare a casa, ma sul treno gli capita di leggere un trafiletto su un giornale che riporta la notizia della sua morte,  a seguito di suicidio: sua moglie e sua suocera hanno infatti riconosciuto come suo il cadavere di uno sconosciuto trovato annegato nella gora di un mulino sito in un podere di sua proprietà. Dapprima sorpreso, Mattia presto gioisce: è l’occasione propizia per liberarsi della sua fastidiosa vita. Sotto il nome di Adriano Meis, va a vivere a Roma nella pensione di Anselmo Paleari e ricomincia a tessere relazioni. Presto però deve rendersi conto che una rete invadente di costrizioni, obblighi, finzioni, prende a irretirlo, suo malgrado o per sua collaborazione,  senza contare che la mancanza di “ombra”, cioè di visibilità anagrafica, gli rende oggettivamente impossibile procedere a azioni anche comuni e banali, come sposarsi con la figlia di Anselmo Paleari, Adriana, o denunziare chi gli ha rubato una cifra cospicua. Resosi conto di essere forestiero della propria stessa vita, simula il proprio suicidio e ritorna come Mattia Pascal al paese natìo, dove la moglie si è risposata  e ha una bambina e dove egli non può che ritornare, anche lì, come uno straniero. Torna dunque a vivere con  la vecchia zia e  passa il tempo in biblioteca, dove il vecchio don Eligio ha ripreso il posto di bibliotecario ch’era stato di Mattia, ma soprattutto scrive la sua strana storia in una chiesetta sconsacrata, non senza periodicamente recarsi a vedersi morto nel cimitero del paese e rispondere a chi gli chieda chi sia, il fu Mattia Pascal.
Uno dei motivi di fondo del romanzo è  rappresentato dal senso di estraneità alla vita da parte del protagonista: si tratta, inizialmente, di  incompletezza derivante da ragioni sociali (il matrimonio e la famiglia che non soddisfano le aspettative di Mattia), in un secondo tempo, al contrario, dall’assenza di visibilità e riconoscimento sociale, dal suo non avere identità anagrafica riconoscibilità di fronte alla legge e al mondo. La conclusione del romanzo è inevitabilmente pessimista: Mattia Pascal raggiunge una relativa serenità col diventare uno spettatore dell’esistenza, non a caso uno scrittore, dal momento che, secondo una massima condivisa da Pirandello, la vita o la si vive o la si scrive. Mattia Pascal è dunque uno dei primi stranieri del Novecento, e non a caso è anche il personaggio al quale Pirandello dedica la prima edizione del saggio sull’umorismo: diventando spettatore della sua personale tragicommedia, egli può ben provare gli effetti del sentimento del contrario, così come può sperimentare la straniante sensazione di recarsi a omaggiare la propria tomba.
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UNO, NESSUNO E CENTOMILA
Per quanto proponga al termine un capitolo intitolato Non conclude, il romanzo Uno, nessuno e centomila,  pubblicato fra il '25 e il '26, rappresenta  un culmine della riflessione pirandelliana, aperta con Il fu Mattia Pascal, su quella grande pupazzata, commedia o farsa di maschere, che è la vita umana. Il protagonista è Vitangelo Moscarda, detto Gengè, un ventottenne  benestante (ha ereditato dal padre una banca), sposato, ma evidentemente sprovvisto di volontà precisa, simile in questo agli inetti sveviani. Eloquente il suo autoritratto nelle prime pagine: 
Ricco, due fidati amici, Sebastiano Quantorzo e Stefano Firbo, badavano ai miei affari dopo la morte di mio padre; il quale, per quanto ci si fosse adoperato con le buone e con le cattive, non era riuscito a farmi concludere mai nulla; tranne di prender moglie, questo sì, giovanissimo; forse con la speranza che almeno avessi presto un figliuolo che non mi somigliasse punto; e, pover’uomo, neppur questo aveva potuto ottenere da me.
Il primo capitolo del romanzo descrive Moscarda intento a studiare il proprio naso allo specchio, e a  scoprire del tutto casualmente quanto a tutti, a cominciare dalla moglie, è sempre parso evidente, per quanto indegno di rilievo: che penda da un lato, precisamente verso destra. La scoperta è deflagrante e innesca un processo destinato a condurre il protagonista a quella definitiva perdita d'identità che tuttavia sembra proprio costituire l'approdo di una sua ricerca esistenziale. Sempre all'inizio del romanzo, infatti, si legge questa eloquente dichiarazione: Io volevo esser solo in un modo affatto insolito, nuovo. Tutt’al contrario di quel che pensate voi: cioè, senza me e appunto con un estraneo attorno L'obiettivo di Moscarda qui palesato è dunque quello di pervenire a una spersonalizzazione, ch'egli opera per così dire scientificamente, facendo degli esperimenti, che consistono per esempio nel sorprendere gli altri e se stesso con delle manifestazioni del tutto inedite del suo essere. Si tratta di giocare con le maschere, insomma, e contestualmente  di scoprire chi ero io almeno per quelli che mi stavano più vicini, i così detti conoscenti, e di spassarmi a scomporre dispettosamente quell’io che ero per loro.
L'operazione, più complicata del previsto, dura l'intero corso del romanzo, conducendo Moscarda a compiere, in un crescendo, atti volti a cambiare la prospettiva degli altri su di lui e di sé rispetto a sé stesso, che conseguono l'effetto di farlo apparire sempre più disadattato e alienato: la moglie abbandona il tetto coniugale e insieme ad altri amici imbastisce un'operazione legale volta a interdirlo, mentre Vitangelo attua operazioni finanziarie ritenute sconsiderate da tutti e arriva a farsi sparare  da una donna, amica della moglie, in una scena che viene poi fraintesa come acme di un tradimento coniugale da parte sua. Nella non conclusione, poi, Vitangelo si presenta al processo (intentato contro la donna, rea di tentato omicidio)  acconciato proprio come un alienato mentale (è la divisa dell'ospizio che, fondato con i suoi sold e donato alla città, diventa la sua stessa dimora): Anna Rosa doveva essere assolta; ma io credo che in parte la sua assoluzione fu anche dovuta all’ilarità che si diffuse in tutta la sala del tribunale, allorché, chiamato a fare la mia deposizione, mi videro comparire col berretto, gli zoccoli e il camiciotto turchino dell’ospizio. Come il personaggio della novella, poi dramma teatrale, La patente, il protagonista del romanzo si premura di vestirsi da matto per poi condurre l'ultimo discorso da matto che chiude la narrazione: Nessun nome. Nessun ricordo oggi del nome di jeri; del nome d’oggi, domani. Se il nome è la cosa; se un nome è in noi il concetto d’ogni cosa posta fuori di noi; e senza nome non si ha il concetto, e la cosa resta in noi come cieca, non distinta e non definita; ebbene, questo che portai tra gli uomini ciascuno lo incida, epigrafe funeraria, sulla fronte di quella immagine con cui gli apparvi, e la lasci in pace e non ne parli più. Non è altro che questo, epigrafe funeraria, un nome. Conviene ai morti. A chi ha concluso. Io sono vivo e non concludo. La vita non conclude. E non sa di nomi, la vita. Quest’albero, respiro trèmulo di foglie nuove. Sono quest’albero. Albero, nuvola; domani libro o vento: il libro che leggo, il vento che bevo. Tutto fuori, vagabondo. Questo, dunque, l'acme della ricerca di sé che costituisce il filo conduttore della narrazione, con un recupero che risale all'antica Grecia, precisamente al moto apollineo che campeggia sul frontone del tempio di Apollo a Delfi (gnòthi seautòn, conosci te stesso): Vitangelo rinnega anche il fu del suo antecedente narrativo Mattia Pascal, si abbandona al flusso magmatico della vita  e rifiuta di rapprendersi, compiacendo così anche la logica di un altro personaggio, il sulfureo narratore della novella La trappola
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LA TRAPPOLA
SAGGIO 1 (Alessandro Gi.)

Una vita in trappola


Nella vastissima produzione di novelle che ha contraddistinto la produzione letteraria di Luigi Pirandello, La Trappola si colloca tra quelle incluse, successivamente alla prima pubblicazione sul "Corriere della Sera", nella raccolta complessiva Novelle per un anno.

L’autore nasce nel 1867 a Girgenti, Agrigento dal periodo fascista in poi, ma la sua formazione dopo il liceo avviene nelle università di Palermo, Roma e Bonn, dove si laurea in Filologia romanza e avviene la sua principale formazione filosofica. Tornato e stabilitosi a Roma, è travolto da un disastro economico causato dall’allagamento della miniera di zolfo in cui il padre aveva investito tutto il patrimonio, compresa la dote della nuora, la moglie di Pirandello, che per questa ragione sprofonda completamente in uno stato depressivo e paranoico, di cui risente anche lo stesso Pirandello, essendo bersaglio delle sue ossessioni. Proprio da questo evento biografico è possibile che provenga la concezione della vita familiare come trappola, che ha ispirato la stesura di questa novella. 

Fabrizio, il protagonista, si rivolge direttamente al lettore, esponendo le ragioni dei suoi turbamenti e le sue considerazioni sulla natura della vita, facendosi portavoce delle idee pirandelliane. Con tono perentorio, incomincia il suo monologo trattando il tema della realtà fittizia, la realtà immaginaria che gli esseri umani si costruiscono attorno, servendosene come di un filtro. Tale artificio, a detta sua, risulta maggiormente scorgibile in quanto tale nel momento in cui ad illuminare la quotidianità non è più la rassicurante luce del sole, ma l’artificiosa luce della candela. 


Come la mano, trema tutta la vostra realtà. Vi si scopre fittizia e inconsistente. Artificiale come quella luce di candela. E tutti i vostri sensi vigilano tesi con ispasimo, nella paura che sotto a questa realtà, di cui scoprite la vana inconsistenza, un’altra realtà non vi si riveli, oscura, orribile: la vera. Un alito… che cos’è? Che cos’è questo scricchiolio?


E, sospesi nell’orrore di quell’ignota attesa, tra brividi e sudorini, ecco davanti a voi in quella luce vedete nella camera muoversi con aspetto e andatura spettrale le vostre illusioni del giorno. Guardatele bene; hanno le vostre stesse occhiaje enfiate e acquose, e la giallezza della vostra insonnia, e anche i vostri dolori artritici. Sì, il rodio sordo dei tofi alle giunture delle dita.


Viene introdotto così uno dei concetti chiave della visione pirandelliana poi particolarmente approfondita nella produzione teatrale: la frammentazione dell’identità, già oggetto di studio da parte della neonata scienza della psicanalisi. Tale frammentazione altro non è che la somma di numerose maschere, ovvero forme, sovrapposte a limitare l’individuo, che secondo Pirandello sarebbe invece per natura destinato a fluire in un movimento perpetuo. 

L’affezione verso queste forme prende i caratteri di una scelta esistenziale che condiziona l’intera società, rendendola una grande pupazzata in cui le apparentemente insignificanti e vuote maschere assumono un’importanza vitale per salvare i soggetti dal naufragio esistenziale. Questo è quanto sottolinea Fabrizio nel suo monologo:


  Ho fatto sempre ridere i miei amici per le tante… come le chiamate? alterazioni, già, alterazioni de’ miei connotati. Ma avete potuto riderne, perché non vi siete mai affondati a considerare il mio bisogno smanioso di presentarmi a me stesso nello specchio con un aspetto diverso, di illudermi di non esser sempre quell’uno, di vedermi un altro!

Ma sì! Che ho potuto alterare? Sono arrivato, è vero, anche a radermi il capo, per vedermi calvo prima del tempo; e ora mi sono raso i baffi, lasciando la barba; o viceversa; ora mi sono raso baffi e barba; o mi son lasciata crescer questa ora in un modo, ora in un altro, a pizzo, spartita sul mento, a collana…

Ho giocato coi peli.

Gli occhi, il naso, la bocca, gli orecchi, il torso, le gambe, le braccia, le mani, non ho potuto mica alterarli. Truccarmi, come un attore di teatro? Ne ho avuto qualche volta la tentazione. Ma poi ho pensato che, sotto la maschera, il mio corpo rimaneva sempre quello… e invecchiava!

Ho cercato di compensarmi con lo spirito. Ah, con lo spirito ho potuto giocar meglio!

Voi pregiate sopra ogni cosa e non vi stancate mai di lodare la costanza dei sentimenti e la coerenza del carattere. E perché? Ma sempre per la stessa ragione! Perché siete vigliacchi, perché avete paura di voi stessi, cioè di perdere – mutando – la realtà che vi siete data, e di riconoscere, quindi, che essa non era altro che una vostra illusione, che dunque non esiste alcuna realtà, se non quella che ci diamo noi.

Ma che vuol dire, domando io, darsi una realtà, se non fissarsi in un sentimento, rapprendersi, irrigidirsi, incrostarsi in esso? E dunque, arrestare in noi il perpetuo movimento vitale, far di noi tanti piccoli e miseri stagni in attesa di putrefazione, mentre la vita è flusso continuo, incandescente e indistinto.

[...] Ogni forma è la morte. 


L’ultima frase della citazione non può rendere più chiara la contrapposizione tra la vita e le forme e la conseguente posizione di Fabrizio (e quindi di Pirandello) in merito; infatti, Fabrizio ripudia in particolare la procreazione, in quanto pensa che sottragga l’individuo dal suo sereno fluire, condannandolo a un’esistenza di sofferenza,  e facendolo cadere dunque in una trappola dalla quale risulta impossibile liberarsi, se non dopo la dipartita, con il conseguente ritorno al flusso indistinto della vita. 


Siamo tanti morti affaccendati, che c’illudiamo di fabbricarci la vita.

Ci accoppiamo, un morto e una morta, e crediamo di dar la vita, e diamo la morte… Un altro essere in trappola!

– Qua, caro, qua; comincia a morire, caro, comincia a morire… Piangi, eh? Piangi e sguizzi… Avresti voluto scorrere ancora? Sta’ bonino, caro! Che vuoi farci? Preso, co-a-gu-la-to, fissato… Durerà un pezzetto! Sta’ bonino…

Ah, finché siamo piccini, finché il nostro corpo è tenero e cresce e non pesa, non avvertiamo bene d’esser presi in trappola! Ma poi il corpo fa il groppo; cominciamo a sentirne il peso; cominciamo a sentire che non possiamo più muoverci come prima.


In questa macabra considerazione si nasconde in realtà la visione umoristica pirandelliana, caratterizzata principalmente dalla sua differenziazione rispetto al comico: infatti, seguendo le indicazioni lasciate nel saggio L’umorismo, in un primo momento si può avvertire il contrario in queste parole rivolte ipoteticamente ad un bambino (atteggiamento comico), per poi sentire il contrario ragionando sulla veridicità di tali affermazioni e riconoscendone il significato, apprezzando dunque l’umorismo

Nonostante ciò, ad intrappolare il protagonista di questa novella è proprio l’amore per una donna - ch'egli confessa rabbiosamente - la quale lo aiuta a prendersi cura del padre ridotto a uno stato semivegetativo. Ad ammaliare un cuore così freddamente lucido è l’illusione di essere compreso; la donna non riesce ad avere figli con il marito, e di conseguenza Fabrizio pensa che sia esattamente come lui, e che questa sua condizione di presunta sterilità la elevi dal punto di vista esistenziale. Tuttavia, la reale sterilità coinvolge il marito e non la donna, che approfitta di questo momento di debolezza per sedurre Fabrizio ed ottenere l’agognata prole. Ad accompagnare il rimorso e le invettive contro la malvagia donna, che ha approfittato della sua debolezza e lo ha condannato così a perpetuare la fissazione in forme di altri flussi innocenti di vita, sono ulteriori considerazioni volte a rimarcare la propria volontà di ritornare vita, rimpiangendo così la propria nascita e biasimando una madre mai conosciuta, e pensieri come: 

Se ci fosse uno in questa stanza, si alzerebbe e accenderebbe un lume. Io non accendo il lume, perché non ci sono più. Sono come le seggiole di questa stanza, come il tavolino, le tende, l’armadio, il divano, che non hanno bisogno di lume e non sanno e non vedono che io sono qua. Io voglio essere come loro, e non vedermi e dimenticare di esser qua.


A questo punto, chiarita la condizione esistenziale di sofferenza in cui versa Fabrizio, si giunge a comprendere ancor meglio la sua psicologia contorta (che ovviamente smette di apparire tale)  attraverso il riferimento alla figura paterna, doppiamente responsabile dei tormenti del figlio: in prima battuta per averlo messo al mondo, e in seguito per aver creato le circostanze favorevoli perché l’incontro con la malvagia donna avvenisse, ammalandosi. L’attenzione viene portata così sul vecchio moribondo, ormai in quello stato vegetativo da sette anni, e sul da farsi con lui, fino a discutere apertamente di quella che noi abbiamo iniziato a chiamare eutanasia, ovvero di morte come medicina esistenziale non solo per le sofferenze paterne, ma anche per quelle dello stesso figlio, che sembra lasciarsi sedurre dal pensiero, per poi, molto suggestivamente, accompagnare l’ospite-lettore-imputato alla porta, alla ricerca della confortante luce del sole sotto la quale le crepe nella propria maschera sono meno visibili. 


Vieni, vieni; entra qua con me, in quest’altra stanza. Guarda!

Questo è mio padre.

Da sette anni, sta lì. Non è più niente. Due occhi che piangono; una bocca che mangia. Non parla, non ode, non si muove più. Mangia e piange. Mangia imboccato; piange da solo; senza ragione; o forse perché c’è ancora qualche cosa in lui, un ultimo resto che, pur avendo da settantasei anni principiato a morire, non vuole ancora finire.

Non ti sembra atroce restar così, per un punto solo, ancora preso nella trappola, senza potersi liberare?

Egli non può pensare a suo padre che lo fissò settantasei anni addietro per questa morte, la quale tarda così spaventosamente a compirsi. Ma io, io posso pensare a lui; e penso che sono un germe di quest’uomo che non si muove più; che se sono intrappolato in questo tempo e non in un altro, lo debbo a lui!

Piange, vedi? Piange sempre così… e fa piangere anche me! Forse vuol essere liberato. Lo libererò, qualche sera, insieme con me. Ora comincia a far freddo; accenderemo, una di queste sere, un po’ di fuoco… Se ne vuoi profittare…

No, eh? Mi ringrazii? Sì, sì, andiamo fuori, andiamo fuori, amico mio. Vedo che tu hai bisogno di rivedere il sole, per via.

SAGGIO 2 (Martina)


Analisi della novella La trappola di Luigi Pirandello

Si trattava di riscoprire l'uomo o meglio il punto ineffabile e inalterabile a partire dal quale esso comincia a esistere (A. Moravia su Pirandello)


L’artista è come un demiurgo che plasma la materia ed è in grado di manipolarla in maniera multipla. Da tale impulso primigenio gli artisti declinano e coltivano differenti attitudini: ognuno, insomma, si pone in maniera differente dinanzi alla materia da creare. Capita, dunque, che vi siano artisti capaci di sentire potenti stimoli interiori. Questi ultimi conducono a nuove modalità di produzione creativa nonostante, è importante sottolineare, l’artista sia costretto a fare i conti con la realtà. La realtà è, ontologicamente, il regno del finito che si può dunque facilmente contrapporre al regno dell’infinito, o indefinito, che ospita numerose anime chiamate poeti che, grazie alle loro produzioni, riescono a dare vita a queste forme magiche. In tale regno magico (anche nel senso che si sottrae alle regole logiche e razionali secondo cui si muovono la scienza e la filosofia soprattutto occidentali) dell'indefinito gli artisti, spiriti eletti, mettono a frutto i loro stimoli interiori e si dedicano al procedimento creativo il quale, lungo, complesso e diversificato, conserva una caratteristica comune a tutti. Si tratta della duplice capacità trasformatrice la quale si esprime primariamente nell’interiorità del poeta a partire da uno stimolo (esterno o interno) che si combina e si fonde con l’intuizione del poeta. Lo stimolo primigenio, dunque, viene trasformato in un prodotto, quello artistico, che ha caratteristiche inedite e preziose, capaci di essere infatti apprezzate anche a distanza di secoli da nuovi fruitori dell’opera d’arte. 

La seconda manipolazione avviene nel momento in cui il poeta deve tradurre in parole ciò che l’ha ispirato. Il demiurgo deve quindi tornare nella realtà contingente ed esprimere, per mezzo delle parole, la sua inclinazione. Questo significa che, prima di produrre e accingersi a scrivere, il narratore ha già creato qualcosa di incorporeo (astratto, che vive nel pensiero) destinato a rimanere, per un tempo necessario, nella sua interiorità. Tale intervallo temporale si conclude, naturalmente, con l’operazione di scrittura. Si tratta di un fenomeno affascinante, che ha una nobile e antichissima origine: sin dai tempi antichi, naturalmente, si può rintracciare questo impulso alla creazione che spesso, per la sua carica evocatrice, è direttamente connessa all’Uno. Ed è così che nascono i miti (verità degli antichi), i poemi epici, le poesie elegiache, le melodiose ed evocatrici poesie. Si rende a questo punto necessario compiere un volo, uno di quelli che potrebbe ben interessare l’interiorità degli artisti, i quali accolgono piacevolmente l’idea di spiegarne uno, qualora la contingenza imponga delle condizioni che ostacolano il procedimento creativo. 

Si può così giungere agli inizi del Novecento per conoscere un personaggio. Si tratta di Luigi Pirandello, promotore di una trasfigurazione totale della modalità di scrittura e di creazione. Pirandello infatti, immagina, crea e scrive del suo rapporto con la materia che è in procinto di mettere in scena, sia che si tratti di opere narrative sia di drammi. Prima di immergersi nella lettura di una sua novella, La trappola, che riassume i principali temi di fondo delle sue multiple produzioni, risulta per lo meno suggestivo conoscere l’uomo. Per farlo mi avvalgo di una riflessione di Alberto Moravia che scrive di Pirandello a distanza di dieci anni dalla morte dell’autore avvenuta nel 1936. A distanza, dunque, di un tempo necessario per fare in modo che i contributi dell’artista potessero maturare nella anime degli spiriti che ne hanno colto il genio: 


Pirandello ormai fa parte della nostra più alta storia letteraria allo stesso modo di Verga o di Manzoni. Per noi, dunque, sarà soprattutto importante dire perché e in che modo Pirandello sia vivo. La lezione di Pirandello è nello svolgimento dell'arte sua, nel modo con il quale Pirandello divenne Pirandello. Donde viene Pirandello? Viene da Verga e dal naturalismo ottocentesco. Dove arriva? Arriva fino ai giorni nostri e si prolunga nel futuro. Verga fu il punto di partenza di due scrittori profondamente diversi, D'Annunzio e Pirandello. Il primo doveva sviluppare i dati del verismo verghiano nella direzione del suo fatale estetismo e così dalle Novelle della Pescara giungere fino al Notturno; Pirandello, invece, più profondo, più scarno, più sofferto, sebbene per molto tempo infinitamente meno noto, assolse per il teatro il compito che altrove ebbero per il romanzo europeo Joyce e per la pittura Picasso. Per questo mentre D'Annunzio, tutto sommato, resta in un'aria ottocentesca, Pirandello è autore pienamente contemporaneo. Come Joyce, come Picasso, Pirandello ricevette dall'Ottocento un'arte naturalistica scaduta a convenzione inoperante. Come quei due artisti, egli disintegra il naturalismo e al tempo stesso ne sviluppò le premesse fino al punto di capovolgerle. Gli strumenti di cui Pirandello si servì per questa disintegrazione e questo capovolgimento, furono, come è noto, l'umorismo e la dialettica. Tra il riso amaro delle novelle e la patetica logica dei drammi non c'è soluzione di continuità.

Dissolvere e capovolgere il naturalismo significò per Pirandello dissolvere e capovolgere le posizioni umane e morali care a un mondo che egli sentiva perituro. Ed è qui che l'opera di Pirandello si inserisce nel nostro dopoguerra per tanti versi così differente dal suo. Come noi oggi, se non più di noi, Pirandello senti l'insufficienza e l'inadeguatezza del concetto dell'uomo trasmessogli dalla cultura e dalla società borghese dell'Ottocento. Quest'uomo, dopo essere sembrato granitico e imponente, casca a pezzi, si rivela un fantoccio composto di parti eteroclite.  (Alberto Moravia, L’uomo come fine, Bompiani, Milano, 1964).


Mi dedico ora all’analisi della novella nella quale tali istanze vengono declinate artisticamente. 

La novella prende avvio con un’interrogativa che si reitera tre volte:

No, no, come rassegnarmi? E perché? Se avessi qualche dovere verso altri, forse sì. Ma non ne ho! E allora perché? 

Il protagonista della novella, nonché narratore della stessa, sembra essere pronto a formulare un ingente numero di domande che, per quanto si possano diversificare nel contenuto, riguardano la medesima questione che il lettore, tuttavia, non ha per il momento il privilegio di conoscere. 

Si entra così, sin da queste prime righe, in una storia misteriosa, che crea una distanza fra il lettore e lo scrittore, il quale sembra, infatti, essere l’unico a possedere la verità sulla realtà contingente. L'ignaro lettore viene come trascinato dal flusso di pensieri che attraversano la coscienza di questo bizzarro narratore, che si dedica in realtà a interloquire con sé stesso, in un soliloquio che tanto ricorda l’intimo diario agostiniano che reca titolo Le Confessioni. Si tratta di un’opera autobiografica del 398 che Agostino scrive all’incirca alla stessa età in cui Petrarca concepisce il Secretum. Come nelle Confessioni, anche nell'opera di Petrarca si porta a compimento un dialogo interiore, con la differenza, è bene sottolineare, che nel Secretum manca il raggiungimento assoluto della verità e della chiarificazione interiore. L’evocazione del Secretum è suggestiva almeno per una seconda ragione: nell’opera petrarchesca la Verità è un’entità così consistente da venire personificata dall’autore. Accanto a Francesco Petrarca e Sant’Agostino (Augustinus) si trova dunque una terza presenza, la Verità, la quale rimane muta per l’intero corso dell’opera. Il silenzio della Verità è accostabile a questa misteriosa atmosfera che in queste prime righe si può sentire interiormente leggendo la novella di Pirandello. 

Stammi a sentire. Tu non puoi darmi torto. Nessuno, ragionando così in astratto, può darmi torto. Quello che sento io, senti anche tu, e sentono tutti.

Viene fornita un'indicazione importante: il lettore deve apprestarsi a ragionare in astratto, se vuole entrare in comunicazione con il narratore. Come spesso accade, infatti, due interlocutori possono avviare un dialogo senza, tuttavia, capirsi, perché instaurano una comunicazione nella quale non viene concordato un linguaggio. Anche in questo senso è possibile rintracciare un altro eco che concede di tornare indietro nel tempo a un secolo prima della composizione della novella.

Si tratta del Werther di Goethe che instaura un dialogo con Albert. I due tentano di instaurare una comunicazione, ma non si capiscono, perché parlano due linguaggi che appartengono a sfere distinte: Werther utilizza il linguaggio del cuore, Albert sacrifica il sentimento a un uso esclusivo della ragione. I futuro marito di Lotte, infatti, incarna lo spirito borghese e si focalizza in maniera esclusiva sulle mere questioni materiali. Concordata la necessità di fare astrazione è possibile, dunque, predisporre un dialogo tra il narratore e il lettore il quale comincia ad essere trasportato nel flusso di pensieri che, pur non trattando ancora un contenuto precisato, palesano un sostanziale sentimento di rabbia. 

Come l’odore pungente del temporale che, prima della sua venuta, genera negli esseri umani la percezione di un imminente stato di pericolo, allo stesso modo questo progressivo tentativo di coinvolgere il lettore nel tormentoso flusso di pensieri del narratore, genera uno stato di allerta. Quest’ultimo si manifesta come attesa di un imminente capovolgimento.

L’allargamento dalla condizione personale a quella collettiva, si può rintracciare basilarmente dalla lettura di termini come tu, tutti, che in maniera diretta integrano il lettore nella vicenda. Non solo, il narratore si premura persino di creare con il lettore una relazione divisiva (tu non puoi darmi torto) che contrappone il tu (del lettore) all’io (del narratore) decretando, così, una sostanziale separazione  tra i due soggetti. Se vi è una relazione, inoltre, vi sono due soggetti veri, reali, che interloquiscono. Ecco che in tal modo il narratore riesce addirittura a dotarsi autonomamente di esistenza utilizzando la potenza creatrice di cui l’arte è dotata per natura. 

Perché avete tanta paura di svegliarvi la notte? Perché per voi la forza alle ragioni della vita viene dalla luce del giorno. Dalle illusioni della luce.

Dopo l’affermazione, tornano le domande. Il protagonista chiede al lettore la cagione della paura che quest’ultimo prova per la notte e, conseguentemente, la genesi della fiducia nella luce, l’unica che nella contingenza sembra essere apprezzata dall’essere umano. Si tratta di una predisposizione piuttosto bizzarra, a detta del narratore, convinto della sostanziale inutilità della luce la quale, al posto di svelare la realtà delle cose e condurre gli esseri umani in direzione del raggiungimento della verità e della conoscenza assoluta (o addirittura dell’Assoluto), attira tristemente verso un baratro infernale fatto di illusioni. Impossibile a questo punto non sentire interiormente una corrispondenza con l’Ulisse del XXVI canto dantesco che, spinto dal desiderio e quindi dalla volontà di raggiungere la conoscenza assoluta, incita i suoi compagni ad accompagnarlo in un ultimo viaggio finalmente rivelatore. Così facendo, l’Ulisse dantesco ingaggia una sfida diretta a un altrui (Dio) destinata, naturalmente, a avere un triste epilogo (Ulisse infatti, verrà inghiottito  dalle acque in corrispondenza del monte del Purgatorio e precipitato in un vortice che lo conduce, insieme ai suoi compagni, nell’VIII cerchio dove sono stipate le anime dei consiglieri fraudolenti).

Pur di fuggire dal buio l’essere umano utilizza i più disparati mezzi, come la luce di una candela. Con una mano tremante che afferra la candela, capisce ben presto di essere in gabbia, nella paura dunque, che sotto la realtà illuminata da questo mezzo artificioso (la candela) ve ne sia un’altra. Decade così la certezza dell’univocità e assolutezza della realtà, la quale si manifesta invece nelle sue multiformi forme cristallizzate. Ed ecco che l’essere umano tra brividi e sudorini è immerso in un tempo che sembra dilatarsi eternamente e che perde, dunque, di oggettività. Si tratta di un tempo soggettivo, del quale Pirandello è rimasto probabilmente affascinato dalle teorie messe a punto da Albert Einstein nel 1905. Queste ultime, infatti, dimostrano scientificamente l’esistenza di una quarta dimensione, il tempo, invisibile e in parte incomprensibile all’essere umano, che si deve limitare a rassegnarsi felicemente di questo impedimento perché è nella natura della realtà essere, alle volte, inaccessibile e imperscrutabile. Come l’uomo di Platone vissuto in catene in una caverna ed esposto per tutta la vita non già alla realtà tridimensionale, ma solo a quella bidimensionale, allo stesso modo l’essere umano è strutturalmente impossibilitato alla visione di questa quarta dimensione, che pure esiste, dal momento che senza di essa i fenomeni relativistici non potrebbero sussistere. 

Questo clima di incertezza viene dunque accolto positivamente da Pirandello, il cui alter-ego, narratore della novella, tenta in tutti i modi di dimostrare come una felice rassegnazione possa condurre a una vita che non teme di certo il buio, ma che anzi lo accoglie. Al contrario gli altri (noi lettori) siamo spontaneamente predisposti a temere il buio. Eppure gli oggetti di cui quotidianamente si fa utilizzo, rimangono invariati nel buio e non ne sono corrotti: 

Lo specchio di quell’armadio ora riflette la vostra immagine, e non ne serba traccia; non serberà traccia domani di quella d’un altro./ Lo specchio, per sé, non vede. Lo specchio è come la verità.

Come si è detto la novella presenta dei temi che l’autore tratta nella quasi totalità delle sue opere. Il tema del doppio accompagnato dalla differenza che intercorre tra forma e vita è uno di questi. La descrizione degli oggetti nella stanza buia risente, sicuramente, dell’impostazione filosofica ottenuta con l’esperienza di studio in Germania che pone, infatti, lo scrittore in contatto con la cultura tedesca e dunque, con gli autori romantici che influenzarono notevolmente le sue opere e le teorie sull’umorismo

La riflessione si amplia: 

Ti pare ch’io farnetichi? ch’io parli a mezz’aria? Va’ là, che tu m’intendi; e intendi anche più ch’io non dica, perché è molto difficile esprimere questo sentimento oscuro che mi domina e mi sconvolge.


Il narratore è a questo punto dominato da un sentimento che sembra condurlo ad azioni disfunzionali, al limite con la pazzia, per poi soffermarsi, per la prima volta dall’inizio della novella, su una descrizione che riguarda la sua vita. Esprime così il suo disprezzo per ogni forma. Ammette poi di essere stato deriso dagli amici per le sue tante alterazioni e, dunque, per la sua predisposizione ad alterare, seppur temporaneamente, la forma fisica (ho giocato con i peli), per tornare poi alla triste constatazione che  sotto la maschera, il corpo rimane sempre quello… e invecchia! 

Dopo aver giocato con l’aspetto fisico, passa ad un livello più profondo: lo spirito. Accusa dunque la moltitudine (noi lettori) di apprezzare e lodare la costanza e la coerenza dei sentimenti quando, in realtà sotto tale elogio si nasconde una sostanziale vigliaccheria la cui natura consiste nella paura di poter perdere, mutando, la realtà che si è soliti accettare. 

Imporre una realtà equivale a fissarsi in un sentimento, rapprendersi, irrigidirsi e incrostarsi in esso.

Il discorso comincia così a mutare e si allarga, quindi, a una riflessione di tipo esistenziale: la vita è un flusso continuo, incandescente e indistinto. Gli essere umani tentano con ogni strumento di negare questa caratteristica che connota ontologicamente la vita e tentano, invano, di trasformarla in una struttura fissa e rigida. Ecco dunque svelata la contrapposizione tra forma e vita; la prima presuppone un adeguamento e un contenimento di un ente; la seconda invece è ontologicamente un flusso indistinto nel quale, dunque, possono compiersi addirittura delle metamorfosi. Risulta a questo punto suggestivo riprendere l’espressione con cui Calvino riassume il fenomeno metamorfico che si manifesta senza soluzione di continuità     nel poema ovidiano,  ovvero indistinti confini.

Tutto quello che è indistinto (la vita) è, per natura, privo di forme:

 la vita è il vento, la vita è il mare, la vita è il fuoco; non la terra che si incrosta e assume forma.

Arriva dunque il giudizio finale: Ogni forma è la morte. Tutto ciò che si toglie dallo stato di fusione e si rapprendende in questo flusso continuo, incandescente e indistinto, è la morte. Noi tutti siamo esseri presi in trappola, staccati dal flusso che non s’arresta mai, e fissati per la morte.

Risulta chiaro che non appena l’individuo si sottrae (per forze interne o per influenze esterne) al flusso indistinto che è la vita, per rapprendersi in una forma, viene preso in trappola. Anzi, addirittura, manifesta già così la sua ultima destinazione, ovvero la morte. (Noi tutti siamo esseri presi in trappola, staccati dal flusso che non s’arresta mai, e fissati per la morte). L’immagine che il narratore evoca ricorda tanto quella di una statua realizzabile da un artista neoclassico che, infatti, sceglie di immortalare in un’unica forma, magari ossimorica, ciò che decide di consegnare alle generazioni future. Si tratta spesso di un modello di perfezione che racchiude in sé le caratteristiche del bello ideale (è il caso della scultura del Laocoonte che, a detta di Winckelmann rappresenta l’icona del classico).

Un’ulteriore ripresa suggestiva può condurre fino alla Testa di Medusa, raffigurante una creatura, appunto Medusa, che per secoli ha attratto numerose sensibilità artistiche, non ultimo il sommo poeta. Il fenomeno che si verifica in queste righe della novella, infatti, è lo stesso descritto dal Dante nel IX canto dell’Inferno. Nella città di Dite, precisamente sugli spalti della cinta muraria, si trova la temibile creatura, evocata con terrore (Virgilio esorta l’agens a non guardarla per nessuna ragione e, non fidandosi completamente di lui, provvede a coprirgli gli occhi con le sue stesse mani) come colei che è in grado di pietrificare qualunque essere umano col suo sguardo micidiale. Così, proprio come se fosse stato raggiunto da esso,  l’individuo evocato nella novella pirandelliana viene privato della possibilità di partecipare al flusso e quindi è destinato a essere fissato, separato, staccato in una forma: 

ecco, a poco a poco si rallenta; il fuoco si raffredda; la forma si dissecca; finché il movimento non cessa del tutto nella forma irrigidita.

Ed ecco che torna ad essere evocato anche  il sentimento di rabbia che, dalle prime righe, pervade lo spirito di questo ignoto narratore. L’impossibilità di poter scegliere in quale tempo e spazio essere intrappolati genera, infatti, un sentimento di odio. Ed ecco dunque la dura sententia

Siamo tanti morti affaccendati, che c’illudiamo di fabbricarci la vita. Ci accoppiamo, un morto e una morta, e crediamo di dar la vita, e diamo la morte… Un altro essere in trappola!

Nascere è, in definitiva, morire. 


Il sentimento di rabbia che lo divora viene ulteriormente esplicitato: si instaura nel corpo del narratore uno spontaneo movimento di rivolta verso ogni meccanismo che possa irretire in una qualsiasi forma il suo animo. Ed ecco che finalmente il narratore svela il motivo della sua rabbia: le donne e, in particolare, una donna che gli ha teso una trappola infame: una madonnina timida timida che gli faceva visita per prendersi cura di suo padre malato e che era solita lamentarsi con la governante del marito. Quest’ultimo infatti, per un chiaro problema genetico, non era predisposto ad avere figli perché, sostiene il narratore, quando un soggetto comincia progressivamente a fissarsi in una forma vuole avere intorno a sé altri piccoli morti. Scopriamo poi che il nome di questo misterioso narratore e Fabrizio grazie ad un dialogo intrattenuto con la donna che decide di riportare. 

(– Mi figuro, – diceva con gli occhi bassi, arrossendo, – mi figuro che strazio dev’esser per lei, signor Fabrizio, vedere il padre da tanti anni in questo stato!).

Convinto tuttavia, che l’impossibilità di avere figli fosse dovuto ad una mancanza della donna, Fabrizio ritiene che quello che successe dopo sia stato escogitato da quest’ultima al solo scopo di tendergli una trappola. Una sera infatti, al buio della notte, lei entra nella stanza di Fabrizio in punta di piedi e riesce a dare luogo, approfittando della debolezza maschile di fronte a una bella donna (tiene a precisare il narratore)  a un rapporto destinato appunto a renderla gravida. Grazie alla precisione adottata dal narratore, simile a quella dei narratori  naturalisti (da queste righe si può percepire la formazione di Pirandello), il lettore è in grado di mettere l’occhio in tutti i pertugi possibili, sino all’ellisse finale (il discorso termina infatti con i punti di sospensione).

Fabrizio è convinto di essere stato, in ultima analisi, violentato (il narratore sente ancora la risata diabolica della donna), quasi come se il rapporto sessuale si fosse consumato senza che lui si potesse opporre. Lei, ormai da tre mesi,  si trova  in Sardegna con il marito e in attesa del frutto di questo rapporto rubato.

Ecco che appare chiaro come il sentimento di rabbia sia scaturito non già dalla presunta violenza sessuale subita (insostenibile, peraltro, vista la genesi degli eventi), quanto dell’avere dato vita a un piccolo morto. 


La novella si conclude, con  un altro capovolgimento; compaiono, infatti solo  a questo punto alcuni dettagli autobiografici relativi al narratore. Quello che il lettore avrebbe voluto sapere all'inizio, dunque, viene precisato solo alla fine della novella: Fabrizio non ha mai conosciuto la madre. Se l’avesse conosciuta, ammette poi, forse questo sentimento di rabbia non sarebbe nato, ma dacché m’è nato, sono contento di non aver conosciuto mia madre.

E ancora, veniamo a conoscenza del rapporto con il padre che si trova in stato vegetativo. 

Vieni, vieni; entra qua con me, in quest’altra stanza. Guarda! Piange, vedi? Piange sempre così… e fa piangere anche me! Forse vuol essere liberato. Lo libererò, qualche sera, insieme con me. Ora comincia a far freddo; accenderemo, una di queste sere, un po’ di fuoco… Se ne vuoi profittare…

Ed ecco che esprime dunque il desiderio di ottenere finalmente la libertà, la quale consiste nel suicidio (la fine della morte che chiamiamo vita) ed invita l’interlocutore (probabilmente un amico) ad unirsi dinnanzi a un fuoco (luce artificiale) in casa sua. 

Fabrizio sente una risposta provenire dal suo interlocutore:

No, eh? Mi ringrazii? Sì, sì, andiamo fuori, andiamo fuori, amico mio. Vedo che tu hai bisogno di rivedere il sole, per via.

L’amico rifiuta di riunirsi dinanzi al fuoco perché, come tutti gli esseri umani, detesta la luce artificiale (generata infatti dall’uomo, per suo volere) e preferisce al suo posto la luce del sole. Si conclude così, in maniera circolare, un percorso interiore che conduce il narratore a sostenere nuovamente quanto detto nelle prime righe. Impossibile rassegnarsi a una vita così, ovvero, anche più tragicamente, impossibile rassegnarsi alla vita. 


SAGGIO 3 Lorenzo Pe.

FOCUS LA TRAPPOLA PIRANDELLO – Lorenzo Perelli

Nel 1922 Luigi Pirandello decide di accorpare la sua amplissima produzione di novelle in un insieme complessivo di ventiquattro volumi1 sotto la titolatura unica di Novelle per un anno. Tra i numerosi racconti quello intitolato La Trappola, appartenente alla sezione L’uomo solo, consente di fare riferimento a diverse componenti della concezione del mondo pirandelliana e, in qualche passaggio, anche alla sua biografia personale.

La novella non ha un impianto tradizionale, non presenta una trama ordinata, in quanto ci si trova di fronte a un flusso di pensieri all’apparenza delirante di quello che si capirà essere il personaggio autore del soliloquio, Fabrizio. Già una simile notazione potrebbe risultare funzionale a descrivere quanto risalga alla vita di Pirandello, ma i primi passi sono dedicati proprio alla restituzione di una metafora che accosta alla vita il buio della notte, in contrasto con l’uomo che va cercando fonti di luce naturale o artificiale.

Non è un caso nemmeno il fatto che nell’intera raccolta di novelle non risulti riconoscibile un ordine determinato, come a riflettere l’intendimento pirandelliano di un mondo non ordinato e armonico ma disgregato e caratterizzato da una miriade di aspetti precari e frantumati. La vita è movimento, cambiamento, potrebbe essere definita come una potenza magmatica piena per natura di una forza che non può e non deve essere arginata. Come dichiara il protagonista della novella, quasi travolto  dal disprezzo nei confronti delle forme che si possono assumere, tutto ciò che si toglie dallo stato di fusione e si rapprende in questo flusso continuo, incandescente e indistinto, è la morte. Poiché Pirandello si comporta come uno scrittore filosofico2 risulta utile catalogare queste forme dal punto di vista del suo lessico, poiché queste derivano dal fatto che si nasca in un determinato contesto o si pongono inizialmente come delle opzioni, ma man mano che si segue una strada ci si consolida in una forma, che può coincidere col proprio incarico lavorativo o con la propria situazione familiare, caratterizzata e definita una volta per tutte anche a livello sociale.

Si potrebbero giustificare in vista del principio di individuazione, fondamentale ed utile tanto al soggetto quanto agli altri per stare al mondo, ma è inevitabile che i differenti punti di vista contribuiscano alla moltiplicazione delle forme associate al medesimo soggetto, magari anche divergenti dalla visione che ha di sé stesso, portando a delle circoscrizioni che Pirandello, ma in questo caso il suo narratore interno Fabrizio, considerano come delle trappole. Non è un caso che l’autore critichi l’identità individuale, riconoscendo come noi siamo in realtà parte dell’eterno fluire della vita, prima di decidere di cristallizzarci in una personalità che crediamo coerente. Da un lato pensiamo erroneamente di possedere una personalità unitaria, mentre per gli altri siamo tanti individui diversi a seconda dell’osservatore. Si tratta solo di costruzioni fittizie, di maschere che ci imponiamo noi o il nostro contesto sociale sotto cui s’è un fluire indistinto di stati in perenne trasformazione. 

Una simile realizzazione riguarda anche il protagonista di uno dei romanzi di maggior successo di Pirandello, Uno, nessuno e centomila. In questo caso Vitangelo Moscarda scopre casualmente come gli altri si creino di lui un’immagine differente da quella che si è creato di sé stesso, capendo di non essere uno, come aveva creduto fino a tal momento, ma centomila nelle prospettive altrui, e quindi in fondo nessuno. Tuttavia l’eroe protagonista riesce a trasformare la mancanza d’identità in una condizione positiva di liberazione della vita da ogni limitazione mortificante, e si abbandona al fluire della vita.

È possibile quindi rilevare come si consolidi il contrasto tra la forma, dalle caratteristiche intrappolanti e imprigionanti, e la sua necessità nella vita quotidiana. Addirittura l’utilizzo di certe categorie assume una funzione rassicurante, come nei casi in cui, di fronte all’assenza di spiegazioni razionali, si associa la condizione della follia al colpevole di un terribile delitto, o semplicemente a chi non aderisce alla formalizzazione. Sarebbe piuttosto necessario comprendere la vera natura del mondo, che proprio per sua natura non ha un assetto (del tutto) razionale. Se da un lato la mania dell’incasellamento conduce a ottenere rassicurazioni, è necessario applicare un’analisi e uno studio delle situazioni partendo dal presupposto che non siano tutte predisposte. Ad esempio, nella novella intitolata Il treno ha fischiato, il protagonista Belluca rimane vittima delle analisi che vogliono dare un nome (quello di follia), di per se stesso in grado di riconoscere logicità, al suo sfogo nei confronti del proprio capoufficio, senza però analizzare la situazione nella sua genesi e nel suo contesto.

La comprensione di determinate situazioni passa attraverso un’operazione mentale che non pretende di applicare delle categorie determinate e fisse, dato che se si cerca di rendere la vita ordinata nell’intendimento tramite categorizzazioni si finisce per allontanarsi dalla sua percezione profonda. Il soggetto in grado di cogliere l’incoerenza della vita coincide per Pirandello con l’umorista, che ritiene l’umorismo una chiave a disposizione degli autori per uscire dalle trappole che non si manifestano esclusivamente a livello esistenziale nelle nostre vite, ma anche al livello della produzione artistica. Anche l’arte tende all’incasellamento, all’opera di circoscrizione, quando tenta di astrarre e concentrare arrivando ad un’idealità essenziale. Ma l’astrazione corrisponde a un formalismo, rappresenta l’introduzione di un principio di ragionevolezza, coerenza e razionalità da evitare nella richiesta di estremo realismo che Pirandello fa a sé stesso declinando la propria ricerca in vari settori. Nel tentativo di sfuggire al sopravvento delle forme anche nella sua opera letteraria, l’autore siciliano supporta letteratura e filosofia l’una con l’altra, concependo ad esempio il saggio L’umorismo occupandosi della letteratura in chiave filosofica.

L’umorismo viene analizzato da Pirandello come forma stilistica e introdotto tramite l’esempio della sensazione che si prova di fronte ad una vecchia signora imbellettata al punto da risultare ridicola nel suo aspetto. Il contrasto che si manifesta tra la vecchiaia e l’eccesso di trucco, che vuole richiamare la giovinezza, suscita la percezione di un contrario, di un’opposizione che genera riso e comicità. Tuttavia una simile reazione risulta ben distinta dall’umorismo, che subentra nel momento in cui non ci si sofferma all’evidente percezione superficiale, all’avvertimento del contrasto, ma si riflette sulle motivazioni che potrebbero aver portato l’anziana signora a truccarsi così. E allora magari, tramite l’operazione razionale, si può arrivare a pensare che questa sia sposata con un marito molto più giovane al quale desidera piacere, smettendo quindi di ridere. L’umorista non si appaga della percezione ma va più a fondo, poiché percepisce il contrasto tra vita e forma e non procede per incasellamenti comodi e rassicuranti.

La sperimentazione pirandelliana porta anche all’esercitazione pratica di filosofia con la conversione delle novelle in drammi:  alcuni componimenti di Novelle per un anno diventano appunto i soggetti dei drammi di Maschere Nude (non è un caso che Pirandello si possa riconoscere come scrittore di paradossi, di ragionamenti controintuitivi che però svelano qualcosa di completamente nuovo). L’idea di dramma che ha Pirandello, tuttavia, va ben oltre i limiti del teatro naturalista e si addentra nel territorio della metateatralità. Questo perché quello della forma risulta essere un problema tanto esistenziale-filosofico quanto stilistico-formale, le questioni dell’intendimento della vita e dello stile letterario utilizzato sono fortemente interconnesse e la volontà di distacco dalle forme porta Pirandello alla geniale invenzione dei personaggi come enti nuovi. Si instaura un processo circolare a partire ad esempio dalla novella La tragedia del personaggio, dove lo stesso Pirandello è ritratto mentre dà udienza a personaggi suoi o altrui che hanno il desiderio di esistere, e quindi di essere messi in atto tramite la creazione artistica. Ne deriva l’opera teatrale dei Sei personaggi in cerca d’autore che rivendicano il proprio diritto ad esistere senza essere interpretati dagli attori, il tutto di fronte agli occhi degli spettatori.

Le parole di Fabrizio nella Trappola permettono di riconoscerlo come colui che ha capito il giuoco, che avendo preso coscienza del carattere fittizio del meccanismo sociale si isola da esso e osserva gli altri imprigionati dalla trappola con atteggiamento umoristico di irrisione e pietà. Applica quella che Pirandello definisce filosofia del lontano, consistente nella contemplazione distaccata dal punto di vista spaziale o temporale di quei fenomeni che l’abitudine porta a considerare normali. La prospettiva straniata che così si assume consente di cogliere aspetti quali l’inconsistenza o l’assurdità di alcuni fenomeni, e caratterizza anche la condizione di Pirandello come intellettuale che rifiuta l’impegno politico attivo perseguito dai suoi colleghi novecenteschi. Infatti l’iniziale adesione al fascismo è dovuta alla parvenza di una garanzia di ordine legata al conservatorismo politico e dall’apparente affermazione di una genuina energia vitale che avrebbe spazzato via le forme fasulle e soffocanti della vita sociale nell’Italia postunitaria. Tuttavia, in seguito, il suo acuto senso critico gli permette di riconoscere la vuota esteriorità del regime, che procede per pomposi annunci e riti ufficiali che evidenziano la falsità del meccanismo sociale, e distaccarsene con sottile disprezzo. Nel suo pessimismo radicale quindi si riserva un ruolo contemplativo di lucida critica del reale.

A dominare Fabrizio, ma anche più in generale la produzione di Pirandello, sembra esserci un rifiuto delle forme della vita sociale, dei suoi istituti, dei ruoli che impone, che porta alla ricerca di autenticità e spontaneità vitale. L’opera distruttiva si esercita sul campione di società dell’Italia giolittiana e posteriore alla grande guerra, e, nello specifico, la critica riguarda gli ambienti piccolo-borghesi nei romanzi e quelli alto-borghesi nell’ambito teatrale. La trappola della forma si manifesta al meglio nell’istituto della famiglia, che sembra separare l’uomo dall’immediatezza della vita. Il carattere opprimente dell’ambiente familiare viene riconosciuto dall’autore3 e si sviluppa come sentimento nei protagonisti di opere quali Il fu Mattia Pascal, un piccolo borghese che nel terzo romanzo di Pirandello approfitta della diffusione di una notizia riguardante la propria morte per liberarsi dai vincoli familiari e dalla sua misera condizione sociale. Si tratta di un’opera precedente a Uno, nessuno e centomila e pertanto il personaggio principale non sopporta l’esclusione dalla vita comune e tenta di fare ritorno alla sua vita di prima, fallendo e rimanendo, nella conclusione,  a guardar la vita dall’esterno.

Nella novella la resistenza alla cristallizzazione formale si manifesta nell’abitudine di Fabrizio di veder morire il giorno ai vetri d’una finestra lasciandosi avvolgere dalle tenebre, facendo così finta di non esistere e astenendosi dalla ricerca della luce4. È proprio in una di queste occasioni che la sua vicina di casa, una donna sposata che non riesce ad avere un figlio dal proprio marito e si reca da Fabrizio per prestare le cure a suo padre in fin di vita, gli tende la trappola e si serve di lui per provare ad avere un figlio dopo aver finto di non aspettarsi di trovarlo al buio.

Dal racconto dell’episodio segue la descrizione dell’atrocità della condizione paterna, visto l’imprigionamento nella vita che tarda a cessare, ma ne scaturisce un sentimento di avversione nei confronti della maternità più in generale, dato che Fabrizio percepisce di essere un prodotto sofferente di quell’uomo che ora vede soffrire. Ad infastidirlo non sembra tanto il fatto di essere stato sfruttato dalla donna, quanto piuttosto sapere che verrà messo al mondo un altro infelice, stando a quanto dichiara: Ci accoppiamo, un morto e una morta, e crediamo di dar la vita, e diamo la morte…Un altro essere in trappola! Nel passaggio si riconosce il germe dell’odio provato dal protagonista verso il genere femminile, reo di averlo reso colpevole dell’unico delitto che non avrebbe mai voluto commettere: da un lato la cristallizzazione nella forma di padre che ha portato alla messa al mondo di un bambino già condannato alla morte.

Neanche uno come Fabrizio, che sia giunto alla comprensione della trappola, riesce a sfuggirvi, e arriva a comprendere come l’incompatibilità tra i due poli del mondo così com’è e della ricerca di una formalizzazione generi una vita che si configura più come un finire di morire. Nell’ultimo passaggio della novella è presente il riferimento ad un interlocutore (che potrebbe anche identificarsi con il lettore) trattato da Fabrizio come chi non ha raggiunto il suo stesso livello di sensibilità e non vuole capire (o forse preferisce rimanere in un comodo stato di sofferenza favorito dall’utilizzo delle forme). Lo conforta, asseconda il suo desiderio di continuare a vivere ignorando l’effettiva natura del mondo (andiamo fuori, andiamo fuori, amico mio. Vedo che tu hai bisogno di rivedere il sole, per via), come se l’intero discorso (che appare indirizzato proprio a questo interlocutore) non avesse ripercussioni sulla vita effettiva e fosse stato solo una perdita di tempo.


1.   Anche se verranno pubblicati solo 12 volumi durante la sua vita, a cui si aggiunge quello intitolato Una Giornata postumo.

2.   Una simile caratteristica è dovuta anche alla formazione universitaria di Pirandello, parte della quale si è tenuta nell’Università di Bonn. Qua si è laureato nel 1891 in Filologia romanza, ma soprattutto è entrato in contatto con la cultura tedesca e con gli autori romantici che influenzano la sua opera e le sue teorie riguardanti l’umorismo.

3.   Nel 1903 la miniera di zolfo in cui il padre di Pirandello aveva investito il suo intero patrimonio subisce un grave allagamento. Dal terribile avvenimento  consegue, oltre al dissesto economico della famiglia, un peggioramento delle condizioni psichiche già fragili della moglie dell’autore, che sprofonda in uno stato alterato di patologica gelosia. È possibile, ma non assolutamente dimostrato, che il tormento continuo nei confronti di Pirandello gli abbia fornito l’ispirazione per la sua concezione dell’istituto familiare come trappola soffocante.

L’esperienza del declassamento sociale lo spinge ad intensificare la produzione di novelle e romanzi, avvicinandosi anche al mondo dell’industria cinematografica. Nella sua ricerca continua di nuovi metodi espressivi viene a contatto con l’ambiente teatrale e comincia un periodo di produzione drammatica che conosce un grandissimo successo (anche se non immediato) tra gli anni Venti e Trenta del Novecento. La fama denota un miglioramento delle condizioni economiche di Pirandello, tant’è che ha la possibilità di dedicarsi interamente al teatro e, negli ultimi anni, alla risistemazione delle proprie opere. Nel 1934 la sua carriera viene coronata con il premio Nobel per la Letteratura, che consacra la sua fama mondiale.

4.   Facendo sempre riferimento alla metafora dell’uomo che va alla ricerca della luce, non capendo che la vita corrisponde invece al buio della notte.


SAGGIO 4 Virginia


La trappola

Nella novella il protagonista conversa con un interlocutore anonimo, che può ben essere identificato nel lettore, affrontando, prima con una sorta di monologo-dialogo, e poi con il racconto di fatti accaduti proprio a lui, tutti i nuclei tematici della produzione pirandelliana. 

La prima parte vede il protagonista riferirsi con tono incalzante al lettore, o all’umanità in generale, affermando Il bujo, il silenzio, vi atterriscono. E accendete la candela. Ma vi par triste, eh? triste quella luce di candela. Perché non è quella la luce che ci vuole per voi. Il sole! il sole! Chiedete angosciosamente il sole, voialtri! Perché le illusioni non sorgono più spontanee con una luce artificiale, procacciata da voi stessi con mano tremante. I soggetti ai quali si riferisce sembrano mostrare una grande dose di vigliaccheria nel tentativo di rimanere in tutti i modi alla luce del sole, portatrice dell’illusione della vita, senza mai confrontarsi con il buio e il silenzio, nei quali risiede la vera realtà. Già a partire da questi primi capoversi è presente un importantissimo nodo concettuale della scrittura di Pirandello, il quale afferma che ognuno di noi è condannato a essere una forma, ovvero una costruzione fittizia, una maschera, che noi stessi ci imponiamo o che ci impone il contesto sociale, sotto la quale potrebbe persino non c’è esserci  nessuno, ma o più probabilmente meglio, c’è un flusso indistinto di stati in perenne trasformazione. La crisi dell’io, che in realtà permea anche il Novecento in generale, che con l’instaurarsi del capitale monopolistico, l’espansione dell’industria e la creazione dei sistemi burocratici vede annullarsi l’individuo in quanto tale, sradica l’idea tutta ottocentesca dell’essere umano creatore del proprio destino (il self-made man del tipico sogno americano) e dominatore del proprio mondo. I personaggi dei quali parla Pirandello, e ai quali si riferisce il protagonista della novella in analisi, sono profondamente angosciati dalla presa di coscienza di questa inconsistenza dell’io, che suscita in loro senso di smarrimento e dolore. Coloro che si svegliano di notte e subito si affrettano ad accendere una luce con mano tremante sono terrorizzati dalla consapevolezza, che si rivela nel silenzio e nel buio, che noi siamo nessuno, non abbiamo un’identità ma siamo frantumati in stati incoerenti e intrappolati in forme che ci siamo dati noi stessi o che ci hanno dato gli altri. Proprio a causa di queste forme, noi non possiamo essere uno, ma solo tanti individui diversi a seconda di chi ci guarda. I mobili di cui parla il protagonista, infatti, Tengono dentro, per ora, i vostri abiti, vuote spoglie appese, che hanno preso il grinzo, le pieghe dei vostri ginocchi stanchi, dei vostri gomiti aguzzi. Domani terranno appese le spoglie aggrinzite d’un altro. Lo specchio di quell’armadio ora riflette la vostra immagine, e non ne serba traccia; non serberà traccia domani di quella d’un altro. 

Nella seconda parte della novella, il protagonista comincia a parlare di se stesso, affermando ho provato sempre ribrezzo, orrore, di farmi comunque una forma, di rapprendermi, di fissarmi anche momentaneamente in essa, e definendosi un maestro nell’arte dell’alterazione di se stessi e della propria figura. Egli si diverte ad assumere quante più espressioni facciali possibili, che hanno sempre fatto ridere i suoi amici, i quali non erano a conoscenza, però, della sua necessità di vedersi nello specchio sempre con un aspetto diverso. Procede quindi a giocare coi peli e a vestirsi nel modo più svariato; ma solo con lo spirito, afferma, ha potuto giocar meglio. In questi brevi capoversi sono già contenuti due aspetti fondamentali della narrativa di Pirandello. Il primo, rintracciabile nelle risate dei suoi amici nel vedere i connotati del protagonista alterati, è il tema dell’umorismo, uno stile vero e proprio che impronta la scrittura, al quale dedica anche un omonimo saggio, la cui prima stesura risale al 1908. Riguardo all’umorismo, Pirandello si sofferma sul suo tratto caratterizzante, ovvero il sentimento del contrario, del quale lo scrittore propone un esempio: se vedo una vecchia signora tutta imbellettata e con i capelli tinti, avverto che è il contrario di ciò che una vecchia signora dovrebbe essere. Questo è l’avvertimento del contrario, ed è l’essenza del comico, ciò che scaturisce  scatena le risa negli amici del protagonista de La trappola. Ma se la riflessione suggerisce che quella signora si presenti a quel modo solo nell’illusione di poter trattenere l’amore del marito più giovane, allora non possiamo solo ridere; e dal comico, dall’avvertimento del contrario, si passa all’umoristico, cioè al sentimento del contrario. In questo modo l’arte umoristica coglie il carattere contraddittorio della realtà e permette di vederla da diverse prospettive contemporaneamente, associando sempre il tragico al comico e viceversa. 

Nei capoversi sopra proposti è contenuto anche un chiaro riferimento al celebre romanzo di Pirandello Il fu Mattia Pascal, pubblicato nel 1904, e il cui protagonista, che passa da trappola a trappola cambiando identità da Mattia Pascal a Adriano Meis e di nuovo Mattia Pascal, nelle vesti della sua seconda forma, toccandosi la faccia e scoprendola sbarbata, passandosi una mano su quei lunghi capelli, o rassettandosi gli occhiali sul naso, provava una strana impressione: gli pareva quasi di non esser più lui, di non toccare se stesso. Mattia Pascal, emblema (ma è certo riduttivo) del piccolo borghese prigioniero di una trappola sociale, costituita da una famiglia oppressiva e da un lavoro frustrante, quando vede davanti a sé l’occasione, dovuta a un'ingente vincita al casinò e al ritrovamento di un corpo morto che viene identificato con lui dalla famiglia, di evadere dalla sua forma, non ci pensa due volte e si trasforma in Adriano Meis, sperimentando così l’esperienza di essere libero, e quindi anche completamente estraniato, un vero forestiere della vita1. L’errore del protagonista consiste nell’incapacità di rinunciare a qualsiasi forma per conquistare la libertà; e le conseguenze insostenibili dell’assunzione della falsa identità di Adriano Meis lo portano a simulare il suicido e tornare alla sua forma originaria di Mattia Pascal. Ripresentandosi a casa, però, scopre che la moglie si è risposata con il suo migliore amico, Pomino, e ha avuto una figlia da lui. A questo punto  veramente il protagonista non può più avere alcuna identità, e quindi, per necessità, assume l’atteggiamento da estraniato e osservatore distaccato dall’assurda commedia dell’esistere. Tuttavia, non si può concludere che la vicenda sia un processo di formazione alla fine del quale Mattia Pascal assume una completa consapevolezza rispetto al fatto che l’identità sia solo una costruzione illusoria, ma si limita a rendersi conto di non sapere chi sia (il tutto perfettamente riassunto nel fu, applicato come un onorifico nobilitante, al suo nome e cognome). . 

Un successivo eroe, Moscarda, protagonista del romanzo Uno, nessuno, centomila, del 1926,  procede oltre rispetto a Mattia Pascal, e arriva sino a rinunciare deliberatamente all’identità e al nome, che ne è l’insegna. Moscarda, nel momento in cui in lui nasce l’orrore per la prigione delle forme che gli altri gli impongono e scopre in realtà di non essere nessuno, viene assalito da un senso di assoluta solitudine. Non appena si rende conto di tutto ciò, il protagonista si impegna per distruggere tutte le immagini che gli altri si sono costruiti di lui, e per scardinare il meccanismo delle forme decide di affidarsi alla pazzia2, attraverso una serie di gesti imprevedibili e bizzarri. Alla fine della storia il protagonista, per una serie di eventi che coinvolgono tanto l’assetto familiare (la moglie) quanto quello sociale (il paese, gli amici, una supposta amante, l’attività ereditata dal padre(particolari, si ritrova a vivere nell’ospizio di mendicità fondato e edificato  da lui stesso. Di primo acchito sembra quindi una sconfitta, quella di Moscarda, ma in verità nella sua condizione finale riesce a trovare una sorta di guarigione dalle angosce che lo ossessionavano, dimostrandosi un eroe più scaltro e consapevole di Mattia Pascal, il cui punto di arrivo è il punto di partenza di Moscarda. Il protagonista di Uno, nessuno, centomila, riesce quindi a elevarsi rispetto alla trappola della forma e a divenire parte di quel flusso continuo, incandescente, indistinto che è la vita vera, e nella pagina conclusiva del romanzo, significativamente intitolata Non conclude,   afferma Nessun nome. Nessun ricordo del nome di ieri; del nome d’oggi, domani. Se il nome è la cosa; se un nome è in noi il concetto d’ogni cosa posta fuori di noi; e senza nome non si ha il concetto, e la cosa resta in noi come cieca, non distinta e non definita; ebbene, questo che portai tra gli uomini ciascuno lo incida, epigrafe funeraria, sulla fronte di quella immagine con cui gli apparvi, e la lasci in pace e non ne parli più. Non è altro che questo, epigrafe funeraria, un nome. Conviene ai morti. A chi ha concluso. Io sono vivo e non concludo. La vita non conclude. E non sa di nomi, la vita. Quest’albera, respiro tremulo di foglie nuove. Sono quest’albero. Albero, nuvola; domani libero o vento: il libro che leggo, il vento che bevo. Tutto fuori, vagabondo. 

Tornando all’analisi della novella La trappola, possiamo individuare l’acme del pensiero di Pirandello nella frase ogni forma è la morte, con la quale l’autore vuole intendere che le forme sono delle vere e proprie trappole in cui l’individuo si dibatte cercando di liberarsi. Pirandello ha un senso acutissimo della crudeltà, che si cela dietro l’apparenza delle buone maniere, che domina i rapporti sociali, e la società gli sembra un’enorme pupazzata, che impoverisce e irrigidisce l’uomo e lo conduce alla morte anche se egli apparentemente continua a vivere. L’altra trappola è quella socio-economica3: tutti i suoi eroi sono prigionieri di una condizione misera e stentata, di lavori monotoni e frustranti e di un’organizzazione gerarchica ossessiva. La visione dell’autore, in questo caso, è del tutto pessimista, per lui non esiste scampo dalla trappola: è la società stessa ad essere negazione del movimento vitale. 

Il resto della novella sembra proprio un manifesto contro la maternità: secondo il protagonista è un grandissimo atto di egoismo mettere al mondo un essere che nascerà già morto, in quanto sarà per forza soggiogato al sistema delle forme. Pirandello conduce tutta la narrazione della seconda parte della novella sulla base di un paradosso: , crediamo di dar la vita, e diamo la morte afferma il protagonista, che, proseguendo sulla scia di questo accostamento ossimorico continua con un’invettiva contro le donne, che ci rimettono per un momento nello stato di incandescenza, per cavar da noi un altro essere condannato alla morte, trasformando così il nobile atto di dare alla luce, un egoistico dare alla morte

L’ultima parte è dedicata a un terzo personaggio: il padre del protagonista, che da sette anni giace in un letto, intrappolato dalla vita, che però non è proprio tale, che non lo lascia morire. Non è più niente. Due occhi che piangono; una bocca che mangia, afferma il figlio, che in questo modo spiega tutto ciò che voleva intendere dall’inizio: non è possibile amare una vita che si fonde con la morte al punto da essere indistinguibili. Sì, sì, andiamo fuori, andiamo fuori, amico mio. Vedo che tu hai bisogno di rivedere il sole, per via, suonano le ultimissime parole della novella, rivolte a chissà chi, che si conclude con la necessità di cercare, dopo la visione della morte travestita da vita, un po’ di vita vera

  1. Pirandello, con questa espressione, indica colui che ha compreso il gioco della vita, ha preso coscienza del carattere tutto fittizio del meccanismo sociale e si auto esclude da esso. 

  2. L’unica via di salvezza che Pirandello considera è la fuga nell’irrazionale, raggiungibile o attraverso la follia, che è lo strumento di contestazione per eccellenza delle forme fasulle della vita sociale, o l’immaginazione, che trasporta verso un altrove fantastico.

  3. L’atteggiamento dell’autore nei confronti della società è influenzato anche dal fatto che anche lui, come Svevo, ha subito un declassamento sociale. Infatti, nel 1903, un allagamento della miniera di zolfo in cui suo padre aveva investito tutto il suo patrimonio e la dote della nuora, provoca il dissesto economico della famiglia. La moglie di Pirandello ha una crisi e sprofonda irreversibilmente nella follia, che si acuirà ancora di più, costringendo lo scrittore a farla ricoverare, quando il figlio Stefano, partito come volontario per combattere la Prima guerra mondiale, viene fatto prigioniero dagli austriaci e non fa più ritorno.

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IL RAPPORTO DI PIRANDELLO CON IL CINEMA
Il rapporto di Pirandello con il cinema fu certo contrastato. Ad esempio in un’intervista del 1929 al «Corriere della Sera», egli esprime il suo parere negativo all’introduzione del sonoro, ritenendo che avrebbe distrutto “l’illusione di realtà” propria del cinema. «La cinematografia è stata finora su una falsa strada. Ha seguitato a fare letteratura trovandosi in una doppia impossibilità e cioè: 1. nell’impossibilità di sostituire la parola; 2. nell’impossibilità di farne a meno. E con un doppio danno, cioè: 1. un danno per sé, di non trovare una sua propria espressione libera dalla parola espressa o sottintesa; 2. un danno per la letteratura la quale, ridotta a sola visione, privata del suo elemento più caratteristico, che è la parola, viene per forza ad aver diminuiti tutti i suoi valori spirituali i quali, per essere totalmente espressi, hanno bisogno di quel più complesso mezzo espressivo che è loro proprio, cioè appunto la parola. Ora,  dare meccanicamente la parola alla cinematografia è il massimo e il più brutale degli errori perché, invece di creare una maggiore illusione di realtà, ogni illusione viene ad essere irrimediabilmente distrutta con la voce impressa nel film, anche se a perfezione, per le seguenti ragioni: ­ la voce è di un corpo vivo che la emette e nel film non ci sono i corpi degli attori come a teatro ma le loro immagini fotografate in movimento; ­ le immagini non parlano, si vedono soltanto: se parlano danno la sensazione macabra di spettri o di apparizioni in cui la voce viva, in contrasto colla loro qualità d’ombre, diventa non solo innaturale ma spaventosa» (da «Corriere della Sera» Milano, 1929).
Pirandello è stato a lungo combattuto fra un’attrazione verso il cinema e un rifiuto del medesimo come arte minore e sicuramente inferiore al teatro. Già nel 1911, quando la strada dove abita a Roma si trasforma nel set improvvisato de I promessi sposi  sceneggiato da Lucio D’Ambra, Pirandello si dice interessato a un’analoga trasposizione, quella delle Confessioni di un ottuagenario di Ippolito Nievo. Poi però Pirandello opta decisamente in questi anni per il teatro, con una profonda motivazione: ha bisogno della parola-azione, non gli basta più la pagina scritta, necessita dell’azione parlata, come scriverà anni dopo: “è esattamente durante la guerra che ho sperimentato l’impossibilità di applicarmi, con calma e serenità, non dico a lavori di ampio respiro, ma addirittura alla creazione di brevi novelle. Il gusto della forma narrativa era svanito. Non potevo più limitarmi a raccontare, mentre tutto intorno a me era azione. […] Altre cose si agitavano, ribollivano nel mio spirito, che esigevano di essere espresse in una maniera immediata. […] Le cedevo tutte tese verso l’azione e verso la battaglia. Le parole non potevano più restare scritte sulla carta, bisognava che scoppiassero nell’aria, dette o gridate”.
Questo spiega allora chiaramente il passaggio al teatro. Ma per quanto riguarda il confronto con il cinema da cui pure, si è detto, è attratto?
Diamo di nuovo la parola ai Quaderni,  al passo in cui si tratta degli attori del cinematografo, passo che viene di solito sfruttato per dimostrare come Pirandello inequivocabilmente optasse per la superiorità del teatro:
“Qua si sentono come in esilio. In esilio non soltanto dal palcoscenico, ma quasi anche da se stessi. Perché la loro azione viva del loro corpo vivo, là, sulla tela del cinematografo non c’è più: la loro immagine soltanto, colta in un momento, in un gesto, in una espressione, che guizza e scompare. Avvertono confusamente, con senso smanioso, indefinibile di vuoto, anzi, di votamento, che il loro corpo è quasi sottratto, soppresso, privato della sua realtà, del suo respiro, della sua voce, del rumore che esso produce muovendosi, per diventare soltanto un’immagine muta, che tremola per un momento sullo schermo e scompare in silenzio, d’un tratto, come un’ombra inconsistente, gioco d’illusione su uno squallido pezzo di tela”.
Che cosa ci si potrebbe attendere di diverso  dall’autore che ha scritto la rivendicazione del personaggio di fronte agli interpreti umani? Noi siamo più veri di voi, rivendica il Padre nel dramma, perché “Un personaggio, signore, può sempre domandare a un uomo chi è. Perché un personaggio ha veramente una vita sua, segnata di caratteri suoi, per cui è sempre "qualcuno". Mentre un uomo - non dico lei, adesso - un uomo così in genere, può non esser "nessuno".” E ancora, di fronte alle proteste del capocomico in merito alla realtà  che il personaggio ritiene essere superiore per loro rispetto agli attori: Ah, benissimo! E dica per giunta che lei, con codesta commedia che viene a rappresentarmi qua, è più vero e reale di me! Il padre (con la massima serietà) Ma questo senza dubbio, signore! Il capocomico Ah sì? Il padre Credevo che lei lo avesse già compreso fin da principio. Il capocomico Più reale di me? Il padre Se la sua realtà può cangiare dall'oggi al domani... Il capocomico Ma si sa che può cangiare, sfido! Cangia continuamente, come quella di tutti!  Ma la nostra no, signore! Vede? La differenza è questa! Non cangia, non può cangiare, né esser altra, mai, perché già fissata - così - "questa" - per sempre - (è terribile, signore!) realtà immutabile, che dovrebbe dar loro un brivido nell'accostarsi a noi! Il capocomico (con uno scatto, parandoglisi davanti per un'idea che gli sorgerà all'improvviso). Io vorrei sapere però, quando mai s'è visto un personaggio che, uscendo dalla sua parte, si sia messo a perorarla così come fa lei, e a proporla, a spiegarla. Me lo sa dire? Io non l'ho mai visto! Il padre Non l'ha mai visto, signore, perché gli autori nascondono di solito il travaglio della loro creazione. Quando i personaggi son vivi, vivi veramente davanti al loro autore, questo non fa altro che seguirli nelle parole, nei gesti ch'essi appunto gli propongono, e bisogna ch'egli li voglia com'essi si vogliono; e guai se non fa così! Quando un personaggio è nato, acquista subito una tale indipendenza anche dal suo stesso autore, che può esser da tutti immaginato in tant'altre situazioni in cui l'autore non pensò di metterlo, e acquistare anche, a volte, un significato che l'autore non si sognò mai di dargli!”

L’attore cinematografico, dunque, non può che ingaggiare una lotta impari con quello teatrale, che già Pirandello ha messo sotto accusa, portando in scena la drammatizzazione del percorso creativo (questo è dare vita al personaggio).
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