RIPASSO ITALIANO MODULO 12 - PRIMO LEVI - 2 saggi per classe

 MODULO 12: Primo Levi, lavori di gruppo nella settimana del potenziamento dedicati a Storie naturali e I sommersi e i salvati.

Camilla, Martina, Andrea T. V SA 14/01/2024

Dopo di allora, ad ora incerta,

             Quella pena ritorna


Analisi del capitolo La vergogna de I sommersi e i salvati 



L’importanza della testimonianza storica diretta (e dunque trasmessa oralmente) è particolarmente preziosa in quanto permette al fruitore di sentire, forse per l’ultima volta, un racconto che verrà in seguito eternato grazie alla scrittura o video testimonianza. L’intervallo di tempo in cui convivono generazioni diverse permette dunque ai più giovani di avere il privilegio di ascoltare storie personali e quindi uniche, più o meno lontane dalla contingenza che, se non fosse stato per la condivisione diretta, si sarebbero dissolte per l’eternità; inglobate quindi in una narrazione più astratta, che esclude dettagli intimi e personalizzazioni.

In questi termini è possibile spiegare la necessità, per molti sopravvissuti a scontri di natura bellica, di scrivere e riprodurre in molteplici stili narrativi (corrispondenti a determinate necessità del narratore) la propria esperienza. In tal modo lo scrittore si prende cura della propria memoria, combatte contro la deriva del ricordo (che coincide con lo scorrere del tempo), alimenta il repertorio di consultazione storico-letteraria di cui le nuove generazioni necessitano (tanto da un punto di vista formativo, quanto per l’elaborazione critica del passato). Di quest’ultimo effetto, a cui la   testimonianza storica deve condurre, si è occupato a lungo il filosofo Nietzsche.

L’unicità della testimonianza diventa ancor più preziosa nel caso in cui  il narratore abbia assistito a un processo di deumanizzazione, estraniamento e omologazione che, per la sua specificità, esige una narrazione che ripercorra a fondo ogni singolo aspetto del proprio passato, al fine di ricostruire le modalità che hanno condotto l’umanità a compiere orrori. A questa categoria appartiene la testimonianza dei sopravvissuti ai campi di annientamento nazisti quali Primo Levi. 

Vi è poi un'altra condizione che la scrittura è in grado di produrre, ed è anch'essa favorevole a una più profonda comprensione degli eventi occorsi: essa può abbattere le barriere temporali che separano il narratore dal lettore, superando così il confine della semplice e fredda cronaca, e inducendo un'identificazione pur sempre possibile con tutto gli attori degli eventi, in qualunque posizione storica si siano trovati. Uno dei prodigiosi effetti prodotti dalla tecnica narrativa adottata da Primo Levi è certo la  compartecipazione emotiva che si determina tra lettore e narratore. Il primo, se non fosse per la realtà che lo circonda, potrebbe addirittura figurarsi di essere dinanzi al narratore stesso e udire direttamente da lui le parole impresse su carta. E questo avviene anche se la lucidità di Levi si mantiene costantemente nel corso della narrazione, e rappresenta un appello alla ragione del lettore perché non dimentichi quanto sia possibile per tutti, nessuno escluso, superare in qualsiasi momento il confine (sottile) fra comportamenti umani e disumani. Addirittura, Levi rintraccia nella forte carica emotiva suscitata dal ricordo di un passato doloroso un pericolo (per la lucidità del ragionamenteo), a cui il testimone è comunque pronto a sottoporsi, seppur con la consapevolezza di dover adottare una specifica tecnica narrativa. Quest’ultima deve permettere al narratore di combattere contro le insidie della memoria che, in effetti, con lo scorrere del tempo, è soggetta a una progressiva degradazione (La memoria umana è uno strumento meraviglioso ma fallace). Ne I sommersi e i salvati dunque l’autore dichiara: 


Un’apologia è d’obbligo. Questo stesso libro è intriso di memoria: per di più, di una memoria lontana. Attinge dunque ad una fonte sospetta, e deve essere difeso contro se stesso. Ecco: contiene più considerazioni che ricordi, si sofferma più volentieri sullo stato delle cose qual è oggi che non sulla cronaca retroattiva. Inoltre, i dati che contiene sono fortemente sostanziati dall’imponente letteratura che sul tema dell’uomo sommerso (o salvato) si è andata formando, anche con la collaborazione, volontaria o no, dei colpevoli di allora; ed in questo corpus le concordanze sono abbondanti, le discordanze trascurabili. Quanto ai miei ricordi personali, ed ai pochi aneddoti inediti che ho citati e citerò, li ho vagliati tutti con diligenza: il tempo li ha un po’ scoloriti, ma sono in buona consonanza con lo sfondo, e mi sembrano indenni dalle derive che ho descritte. (La memoria dell’offesa)


Così, dunque, si può comprendere lo spirito con cui Levi ha deciso di comporre il saggio I sommersi e i salvati. L’autore manifesta la volontà di comprendere i meccanismi di una logica non sua per poter concepire un giudizio critico e morale che vada oltre alla superficialità delle analisi del periodo in cui Levi scrive (in cui si giunse perfino a negare ogni evidenza). Tale giudizio deve astrarsi in parte dal ricordo, e ragionevolmente pure dal pregiudizio che può conseguirne, del trauma. Nel capitolo che reca titolo La vergogna, Levi tenta dunque di ricostruire, passo dopo passo, le molteplici forme con le quali il sentimento della vergogna si è manifestato nei sopravvissuti ai campi di sterminio. 

Una specificità della narrazione di Levi è quella di sostenere in tutte le sue analisi l’unicità dell’esperienza del singolo individuo. A tale scopo l’autore astrae il più possibile dalla sola esperienza personale e rifugge dalla semplificazione che ha nella dicotomia  (prima tra tutte quella del noi- sopravvissuti e quindi buoni; e loro, i tedeschi) il suo fondamento. L’operazione della semplificazione adottata nella ricostruzione storica ha come principale esito la pretesa di narrare esclusivamente ciò che concerne il vero. A tal proposito Levi sostiene che i rapporti umani in Auschwitz erano molto complessi.  Lo spazio che separa le vittime dai persecutori non è vuoto, non lo è mai; è invece costellato di figure turpi o patetiche (a volte posseggono le due qualità  [vittima e persecutore] ad un tempo). È  uno spazio  che è indispensabile conoscere.

Il ritorno all’umanità ha determinato per molti salvati, un profondo senso di angoscia: 

In quel momento, in cui ci si sentiva di ridiventare uomini, cioè responsabili, ritornavano le pene degli uomini: la pena della famiglia dispersa o perduta; del dolore universale intorno a sé; della propria estenuazione, che appariva non più medicabile, definitiva; della vita da ricominciare in mezzo alle macerie, spesso da soli.

La fase di angoscia vissuta da molti salvati corrisponde a uno stato di perdizione interiore. Il ritorno allo stato umano coincide con la riacquisizione delle propria morale e permette di riguardare il mare periglioso che si è attraversato non più con gli occhi dell'oppresso, ma con quelli di colui che è sopravvissuto all’oppressione e che deve fare ora i conti con il processo di annullamento spirituale che ha subito in Lager. 

Il forte sentimento di vergogna (quella che i tedeschi non conobbero, quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui, e gli rimorde che esista) che si è manifestato con la liberazione è di difficile spiegazione e merita di essere in primo luogo separato da quell’altra vergogna che, forse, hanno provato i prigionieri responsabili di acuire la violenza nell’impero concentrazionario (tra questi coloro che potevano sostituire i numeri di matricola sugli elenchi dei prigionieri destinati al gas).

La vergogna del sopravvissuto è spesso nata dalla consapevolezza di aver operato in Auschwitz un cambiamento del proprio metro di giudizio morale. Il prigioniero viveva in quel presente e il pensiero era indirizzato inevitabilmente al proprio stato menomato (fame, fatica, freddo, sporcizia erano le principali preoccupazioni). Per tale ragione difficilmente si sono verificati suicidi in Lager, perché operare una scelta è un’azione che connota l’essere umano; nel campo di sterminio lo stato di umanità, invece, viene sottratto. Avere la possibilità di esercitare nuovamente il pensiero, rivolgere lo sguardo indietro e, in ultima analisi, riacquistare la libertà è stata per molti un'occasione di dialogo con il proprio demone:  il senso di colpa dell’uomo libero. Tale amarezza nasce dalla consapevolezza di non aver opposto abbastanza resistenza, di non aver sacrificato la propria vita per salvarne molte altre, di aver soppiantato ogni forma di solidarietà a vantaggio dell'egoismo. 

L’insieme dei cambiamenti del codice morale a cui il Lager ha condotto provoca uno stato di smarrimento nel sopravvissuto che, non riconoscendo più se stesso, si disprezza. Un po’ come per il ricordo doloroso, anche nel caso della vergogna il soggetto tenta di trovare un nuovo equilibrio che gli consenta di stare meglio e sentire meno il dolore. In alcuni casi vi è stata la scelta del silenzio (molti testimoni della shoah hanno deciso di non parlarne), in altri quella del suicidio (la matrice è stoica: quando la vita non è più degna di essere vissuta è pur possibile che la soluzione migliore sia sottrarsi a quest’ultima) e infine vi è la scelta di testimoniare e scrivere. Tali soluzioni non è detto che si manifestino in maniera esclusiva in ciascun individuo, a riprova del fatto che parlare dello stato interiore del sopravvissuto sia operazione assai complessa e articolata, non di certo circoscrivibile alla sola divisione categoriale sopra enunciata (Va ricordato che ognuno di noi, sia oggettivamente, sia soggettivamente, ha vissuto il Lager a suo modo). 

Accanto alla vergogna generata dalla mancata solidarietà, o dal mancato tentativo di ribellarsi, ve n’è un’altra, forse ancora più incisiva e opprimente. Si tratta della vergogna di essere sopravvissuti al posto di altri, di aver sottratto indirettamente la vita a qualcun altro. Nelle pagine che Levi scrive a proposito di questo costante sospetto di essere sopravvissuto a spese di un altro prigioniero emerge una considerazione ancora più universale: è forse possibile che ciascuno di noi viva al posto di un altro. 

L’assunzione merita di essere sviscerata nelle sue dirette implicazioni: se il sopravvissuto è vivo a spese di qualcun altro significa che ha agito in maniera diversa dal sommerso, ovvero da colui che ha toccato il fondo e per questo è morto: sono morti i compagni che hanno aiutato a spingere e tirare, sono morti coloro che hanno sempre tentato di confortare gli altri e ancora coloro che hanno esercitato fino all’ultimo la facoltà della memoria, combattendo strenuamente contro la deriva del ricordo in Lager. In ultima istanza si può dire, afferma Levi, che siano morti coloro che hanno visto qualcosa di così terribile da non poter tornare per raccontarlo. I sommersi hanno subito una morte intellettuale mesi prima della loro morte corporale per la loro impossibilità di cedere allo stato animalesco; hanno subito una destituzione violenta della propria identità. Sono anime che hanno speso parte delle loro energie per alimentare il sentimento e che, infine, si sono spente per sfinimento. 

In effetti, nella terminologia adottata da Levi, permane il senso di angoscia di aver sottratto la vita a qualcun altro: se qualcuno si è salvato ci sono state delle condizioni che gli hanno permesso di farlo; in ultima analisi se vi è un salvato, da qualche parte, c’è stato un sommerso che ha permesso ai tedeschi di considerare efficiente il campo della morte. 

Tale sospetto diventa negli scritti di Levi consistenza sempre più rilevante. Al 1984 risale la composizione di una poesia che reca titolo Il Superstite.


“Since then, at an uncertain hour”,

Dopo di allora, ad ora incerta,

Quella pena ritorna,

E se non trova chi lo ascolti

Gli brucia in petto il cuore.

Rivede i visi dei suoi compagni

Lividi nella prima luce,


Grigi di polvere di cemento,

Indistinti per nebbia,

Tinti di morte nei sonni inquieti:

A notte menano le mascelle

Sotto la mora greve dei sogni

Masticando una rapa che non c’è.

“Indietro, via di qui, gente sommersa,

Andate. Non ho soppiantato nessuno,

Non ho usurpato il pane di nessuno,

Nessuno è morto in vece mia. Nessuno.

Ritornate alla vostra nebbia.

Non è mia colpa se vivo e respiro e mangio e bevo e

dormo e vesto panni”.

(Il Superstite, 4 febbraio 1984, Primo Levi)


Nel componimento Levi personifica la colpa che diventa una presenza ricorrente e opprimente. La colpa si manifesta nel poeta che oppone resistenza. Quest’ultima si rivela tuttavia essere vana, dal momento che, se inascoltata, essa comincia a infondere dolore, il quale non può che essere sentito. Si tratta dunque di tornare una volta di più alle memorie del passato, in Auschwitz. Levi rivede i volti dei compagni, pallidi in viso, illuminati da una timida luce, coperti da uno strato di polvere, lo stesso che si trova probabilmente sul suo viso. L’immagine si arricchisce: i volti dei compagni sono morti, privati di qualsiasi connotazione. 

Ne’ I sommersi e i salvati il tema si ripropone in maniera simile, quasi come se fosse un costante e agognante sospetto quello di aver contribuito alla morte di qualcun altro: 


Non lo puoi escludere: ti esamini, passi in rassegna i tuoi ricordi, sperando di ritrovarli tutti, e che nessuno di loro si sia mascherato o travestito; no, non trovi trasgressioni palesi, non hai soppiantato nessuno, non hai picchiato (ma ne avresti avuto la forza?), non hai accettato cariche (ma non ti sono state offerte...), non hai rubato il pane di nessuno; tuttavia non lo puoi escludere.


Tale ritorno che la mente si permette di fare nel salvato è, per la sua forte carica suggestiva, paragonabile all’esperienza onirica che alle volte replica, enfatizzando al massimo grado, un trauma vissuto. A tal proposito è utile ritornare alla filosofia nietzschiana la quale è stata messa profondamente in discussione (così come buona parte della filosofia del Novecento) dopo la seconda guerra mondiale, e proprio per via della inusitata, mai sperimentata prima, dimensione del male  scatenato nell’operazione concentrazionaria. 

Il risentimento, diceva Nietzsche, nasce dall’impossibilità per la volontà di accettare che qualcosa sia accaduto, dalla sua incapacità di riconciliarsi col tempo e col suo così è stato. Tale assunto si poggia sull’idea dell’eterno ritorno: il superuomo (o oltreuomo) dovrebbe, infatti, desiderare che tutto ciò che è accaduto si ripeta altre infinite volte, nonostante il dolore provato. In tal senso il filosofo sostiene che l’eterno ritorno sia la vittoria sul risentimento, in quanto implica una costante rassegnazione dinanzi al passato (che è destinato infatti, a ripetersi). 

Tale assunto è stato profondamente criticato da molti superstiti. Non si può dire lo stesso di Levi il quale, infatti, sostiene: Non si può volere che Auschwitz ritorni in eterno, perché, in verità, esso non ha mai cessato di avvenire, si sta sempre ripetendo.

Oltre al rilievo di tipo storico, l’autore pratica costantemente un ritorno in Auschwitz attraverso l’esperienza onirica la quale (proprio come il filosofo Giorgio Agamben ha sostenuto nell’opera Quel che resta di Auschwitz, 1998) si ripropone costantemente nella vita e nella testimonianza di Primo Levi. Il soggetto che sogna non riconosce più cosa sia vero e cosa sia alterato e rivive l’esperienza traumatica accompagnata da anomalie difficilmente spiegabili. 

Il sogno è dunque motivo ricorrente nella testimonianza di Levi, tanto che spesso l’autore si sofferma sulla descrizione di quest’ultimo (tanto in poesia quanto in prosa):

E’ un sogno entro un altro sogno, vario nei particolari, unico nella sostanza. Sono a tavola con la famiglia, o con amici, o al lavoro, o in una campagna verde: in un ambiente insomma placido e disteso, apparentemente privo di tensione e di pena; eppure provo un’angoscia sottile e profonda, la sensazione definita di una minaccia che incombe. 

E infatti, al procedere del sogno, a poco a poco o brutalmente, ogni volta in modo diverso, tutto cade e si disfa intorno a me, lo scenario, le pareti, le persone, e l’angoscia si fa più intensa e più precisa. Tutto è ora volto in caos: sono solo al centro di un nulla grigio e torbido, ed ecco, io so che cosa questo significa, ed anche so di averlo sempre saputo: sono di nuovo in Lager, e nulla era vero all’infuori del Lager. Il resto era breve vacanza, o inganno dei sensi, sogno: la famiglia, la natura in fiore, la casa. Ora questo sogno interno, il sogno di pace, è finito, e, nel sogno esterno, che prosegue gelido, odo risuonare una voce, ben nota; una sola parola, non imperiosa, anzi breve e sommessa. E’ il comando dell’alba in Auschwitz, una parola straniera, temuta e attesa; alzarsi, “Wstawach””.  (Il risveglio, La tregua, 1963 Primo Levi)


Levi ha fatto ritorno a casa sua dopo trentacinque giorni di viaggio (il 19 ottobre). Vario nei particolari, ma unico nella sostanza, viene a visitarlo, ad intervalli ora fitti, ora radi, un sogno pieno di spavento. Il sogno ora descritto nell’ultimo capitolo de La tregua si svolge entro le mura del suo appartamento a Torino. Sebbene in apparenza possa risultare privo di tensioni (l’ambiente è infatti placido e disteso), l'autore comincia a percepire una sensazione di minaccia imminente che si manifesta sotto  forma di una sottile angoscia destinata a crescere al procedere del sogno. 

L'armonia apparente vacilla sin dai primi versi: si tratta infatti di un sogno entro un altro sogno, immagine che permette  di assumere che la vita è sogno e che nulla sia dunque reale. Il presagio di una crisi imminente si concretizza dopo poco, .quando tutto si sgretola e si determina il caos intorno al narratore. Levi si trova al centro di un nulla grigio e torbido e comincia a capire l'origine dell’angoscia conosciuta poco prima entro le mura domestiche. Le pareti della casa sono ormai crollate brutalmente, strappati una volta di più gli affetti, le persone, (sicché il 'l modo ancor offende, fa risuonare la voce di Francesca nel V canto dell'Inferno) ed ecco che ritorna il Lager. Non vi è il tempo di adeguarsi al primo rovesciamento (avvenuto con la caduta delle pareti di casa) che già se ne compie un altro. A sgretolarsi sono ora i confini tra sogno e realtà, tanto che ciò che Levi era convinto fosse il mondo vero, viene a quel punto percepito come inganno dei sensi, breve vacanza, sogno. L’autore ha  la percezione, anzi la sicurezza, di non aver mai messo piede fuori dal Lager e che ancora il suo ritorno nella terra degli uomini liberi sia stato solo sogno di pace (finito, interno ad un sogno esterno-quello del Lager- in ultima analisi dunque, un sogno imperfetto e fugace). Nel sogno si sente una parola che, a dispetto della catastrofe appena vissuta, non si dimostra imperiosa, bensì breve e sommessa seppur straniera: Wstawać (alzarsi). Questa l’ultima parola de La tregua, nonché prima e ultima connotazione sonora presente nell’esperienza onirica dell’autore. 

Il lettore ha come l’impressione che sia un sogno destinato a rimanere muto poiché non ci sono più le parole di Levi a proseguire con la narrazione di quest'ultimo. 

Nella variante registrata in poesia Alzarsi, la feroce esperienza si rivela sotto forma di certezza profetica:

Sognavamo nelle notti feroci

sogni densi e violenti

sognati con anima e corpo:

tornare, mangiare; raccontare.

Finché suonava breve e sommesso

il comando dell’alba:

“Wstawach”;

e si spezzava in petto il cuore.

Ora abbiamo ritrovato la casa,

il nostro ventre è sazio,

abbiamo finito di raccontare.

E’ tempo. Presto udremo ancora

il comando straniero:

“Wstawach””.


Nel componimento è possibile rintracciare la particolare importanza che Levi conferisce alla testimonianza. A tal proposito è possibile rilevare una contraddizione più che comprensibile nelle considerazioni dell’autore. Testimoniare ha da un lato rappresentato in Levi un’azione doverosa, al fine di rendere il passato consistente e salvaguardarlo dalla deriva del ricordo. Dall’altro, tuttavia, la stessa azione di testimoniare diventa un macigno che il sopravvissuto porta con sé. Quest’ultimo rilievo si può sostanziare dalla lettura delle sue stesse considerazioni rispetto alla testimonianza: 


ma il pensiero che questo mio testimoniare abbia potuto fruttarmi da solo il privilegio di sopravvivere, e di vivere per molti anni senza grossi problemi, mi inquieta, perché non vedo proporzione fra il privilegio e il risultato. 


Questa è forse un’altra sorgente di angoscia, la quale si autoalimenta dalla stessa fonte che dovrebbe, invece, attenuarla (la testimonianza). Il contributo di Agamben sotto questo profilo è piuttosto spietato. Il filosofo definisce puerile l’esame di coscienza a cui Levi si è sottoposto nel corso degli anni e manifesta un’insoddisfazione rispetto al tentativo dell’autore di sviscerare le radici della vergogna del sopravvissuto. Vi sono tuttavia anche considerazioni che legittimano, seppur solo in parte, il mancato supporto a Levi da parte del filosofo Agamben. Lo scetticismo di Agamben rispetto alla testimonianza di Levi proviene, probabilmente, dalla presenza di alcune contraddizioni. Queste ultime tuttavia, come Levi ammette ripetutamente nelle sue opere e nei suoi contributi, fanno parte del Lager stesso: non si può parlare del mondo concentrazionario senza rilevare in esso  innumerevoli anomalie e contraddizioni. Agamben tenta dunque di trovare quella differenziazione dicotomica che Levi dichiara di non voler per nessun motivo al mondo perseguire, proprio per quella unicità e complessità proprie di Auschwitz, l’impero concentrazionario

Vi è infine un’ultima sorgente di vergogna: la vergogna del mondo. Quest’ultima è quella che prova il sopravvissuto nei confronti del genere umano; quella vergogna di appartenere a una specie che non è stata in grado di agire ed è vissuta per tutta la guerra nell’ipocrisia. Non avevano visto i campi di sterminio, ma sapevano della loro esistenza, respiravano il fumo di Auschwitz, utilizzavano quantità enormi di capelli provenienti dai Lager per la produzione tessile, utilizzavano le ceneri provenienti dai crematori per colmare terreni paludosi o ancora per sostituirle alla ghiaia e calpestarle. 

La consapevolezza della bassezza dell’umanità determina, dunque, il sentimento di vergogna. Quest’ultima nasce dalla coscienza di sentirsi parte del medesimo gruppo sociale, di riconoscersi come un  essere umano uguale a tutti gli altri, e di disconoscere dunque la propria stessa specie a cui un tempo si era data così tanta fiducia. Proprio per tale fiducia mal riposta Levi si dimostra insoddisfatto, oppresso  dalla consapevolezza dell’atrocità di cui l’umano è capace e dalla vergogna  dell’indifferenza di chi è rimasto un’isola e ha dimostrato che l’umanità è capace di costruire una mole infinita di dolore; e che il dolore è la sola forza che si crei dal nulla, senza spesa e senza fatica. Basta non vedere, non ascoltare, non fare. 

Non si tratta dunque di provare un senso di vergogna circoscritto all’azione degli assassini che hanno agito con violenza, ma anche esteso a  coloro che non lo hanno fatto, che sono scomparsi e si sono riproposti a guerra finita, spesso con mancata assunzione di colpe: il caso del Dottor T.H., di cui Levi riporta una corrispondenza epistolare tenutasi nel 1962 e nella quale l’interlocutore è evidentemente un nazista non fanatico ma opportunista pentitosi quando era opportuno pentirsi, stupido quanto basta per credere di farmi credere alla sua versione semplificata della storia recente.   Il male, avrà modo di dimostrare Hannah Arendt seguendo, tra l’altro, il processo di Eichmann, sa essere molto distruttivo nella sua assoluta banalità, presente anche in soggetti che si situano ai margini dell’organizzazione sociale o che, addirittura, posti in circostanze differenti da quelle che li hanno resi efficaci strumenti di morte, sarebbero innocui o persino benefici per altri. 

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Alessandro Gi. 5sa

Una vergogna al di là del Bene e del Male


A più di ottant’anni da uno dei punti di svolta che hanno segnato la storia dell’umanità, risulta difficile trattare l’argomento con la dovuta enfasi (quella che si tributa a argomenti di portata morale e civile)  e il dovuto rispetto per tutti coloro che la loro occasione di raccontare come siano andate esattamente le cose non l’hanno avuta, specialmente alla luce degli avvenimenti e dei dibattiti avvenuti negli anni in cui il saggio I sommersi e i salvati è stato scritto, a più di quarant'anni, nel 1986,   dall'eccidio, quando si era arrivati  persino a negare l’intero avvenimento (una piaga che purtroppo trova ancora consensi oggi). Tutto questo viene evidenziato da Primo Levi in questo suo saggio, il cui obiettivo prefissato sembra essere quello di posizionarsi al di là del bene e del male, per poter comprendere una logica non sua ed elaborare tramite un giudizio il più asettico e distaccato possibile, ciò che potrebbe essere definito senza indugi il trauma per eccellenza, l’esperienza dei Lager, e ciò che lo ha reso possibile, l’omertà del popolo tedesco.

Al fine di mettere da parte la visione semplicistica derivata dalla tendenza dell’essere umano a dicotomizzare ogni avvenimento o gruppo di persone anche solo per istinto di sopravvivenza, Levi tiene a ribadire la sua appartenenza alla categoria dei salvati, coloro che si collocano all’interno della zona grigia che si interpone tra i carnefici e le vittime, vittime anche loro, ma che per fortuna o per qualità personali hanno avuto l’occasione di sopravvivere, perché gli altri, i sommersi, sono una minoranza quasi trascurabile dei sopravvissuti, mentre rappresentavano la maggioranza assoluta dei presenti nei campi, la cui memoria in quanto caso generale non potrà mai essere tramandata allo stesso modo da coloro che non hanno potuto far altro che assistere. 

Nel terzo capitolo, intitolato la vergogna, Levi esegue una disamina dei sentimenti, degli scrupoli morali, e delle spirali di pensiero negative che hanno portato al suicidio di numerosi sopravvissuti, paradossalmente provati da lui e da tutti i salvati, legati solamente al fatto di essere sopravvissuti nella loro impotenza. Nel fare tutto ciò, pone l’accento sulla questione del suicidio, raro nei campi di concentramento, giungendo alla triste conclusione, tuttavia terribilmente lucida, che il sistema fosse studiato per trasformarli in animali, essendo questi ultimi geneticamente impossibilitati al suicidio, per via dell'atavico istinto di sopravvivenza, il quale occasionalmente può essere invece aggirato nella specie umana capace in effetti di suicidarsi. 

L’assurdo e morboso meccanismo dei Lager, così minutamente studiato per seminare disperazione come mai visto prima nella storia attraverso meccanismi di violenza gratuita - Quando pioveva, o nevicava, o il freddo era intenso, diventava una tortura, peggiore dello stesso lavoro, alla cui fatica si sommava alla sera; veniva percepito come una cerimonia vuota e rituale, ma tale probabilmente non era. Non era inutile, come del resto, in questa chiave d’interpretazione, non era inutile la fame, né il lavoro estenuante, e neppure (mi si perdoni il cinismo: sto cercando di ragionare con una logica non mia) la morte per gas di adulti e bambini. - è stato in grado di lasciare in eredità ai suoi bersagli, oltre a tutta una serie infinita di problematiche, danni psicologici ed esistenziali notevoli, operando una trasmutazione dei valori attraverso queste dinamiche così disumane e arrivando infine a mutare il loro metro morale:  e su questo Levi tiene ad indugiare. Essendosi tutti macchiati  di qualche furto agli altri, innumerevoli scrupoli a voltarsi indietro verso le acque perigliose sono emersi negli anni, come Levi appunto cerca di riportare, citando, prima fra tutte, la paura di aver soppiantato qualcuno sopravvivendo: 

Hai vergogna perché sei vivo al posto di qualcun altro? Ed in specie di un uomo più generoso, più sensibile, più savio, più utile, più degno di vivere di te? Non lo puoi escludere: ti esamini, passi in rassegna i tuoi ricordi, sperando di ritrovarli tutti, e che nessuno di loro si sia mascherato o travestito; no, non trovi trasgressioni palesi, non hai soppiantato nessuno, non hai picchiato (ma ne avresti avuto la forza?), non hai accettato cariche (ma non ti sono state offerte…), non hai rubato il pane di nessuno; tuttavia non lo puoi escludere. Ѐ solo una supposizione, anzi l’ombra di un sospetto: che ognuno sia il Caino di suo fratello, che ognuno di noi[...] abbia soppiantato il suo prossimo e viva in vece sua. 

Tali scrupoli hanno fatto persino riportare a Levi un episodio dell’agosto del 1944, in cui fu colpevole di non aver condiviso, oltre  che col suo amico Alberto, poca acqua recuperata da un tubo dell’acqua difettoso, come  un altro prigioniero italiano, Daniele, ha modo di rinfacciargli  mesi dopo, al risorgere del codice civile

Cambiare codice morale è sempre costoso: lo sanno tutti gli eretici, gli apostati e i dissidenti. Non siamo più capaci di giudicare il comportamento nostro od altrui, tenuto allora sotto il codice di allora, in base al codice di oggi: ma mi pare giusta la collera che ci invade quando vediamo qualcuno degli 《altri》si sente autorizzato a giudicare noi 《apostati》, o meglio riconvertiti.

Proprio tali scrupoli, nel ritorno alla civiltà, all’umanità, sono adducibili come causa dei numerosi suicidi a posteriori dei salvati, tra cui, senza certezze assolute sulle motivazioni, rientra lo stesso Levi. 

A questo punto del capitolo Levi ricorda un altro dei temi ricorrenti sottoposti ai salvati, seguendo il filo delle domande un po’ ridondanti ed assillanti, del mondo di fuori, quello del ricordo e della testimonianza, ma questa volta manifesta il suo ribrezzo all’idea proposta da un suo amico credente di essere un predestinato. Nonostante, una volta letto l’intero libro, Levi sembri aver trovato nella testimonianza un senso della sua vita, l’idea di una Provvidenza, o peggio, di un destino, un eterno ritorno, lo fa trasalire, innescando una nuova spirale di pensiero simile alla precedente, e ritorna così la paura di aver soppiantato qualcun altro.

L’amico religioso mi aveva detto che ero sopravvissuto affinché portassi testimonianza. L’ho fatto, meglio che ho potuto, e non avrei potuto non farlo; e ancora lo faccio, ogni volta che mi si presenta l’occasione; ma il pensiero che questo mio testimoniare abbia potuto fruttarmi da solo il privilegio di sopravvivere, e di vivere per molti anni senza grossi problemi, mi inquieta, perché non vedo proporzione fra il privilegio e il risultato. Lo ripeto, non siamo noi, i superstiti, i testimoni veri. 

Riferendosi poi all’affermazione di John Donne nessun uomo è un’isola, sottolinea ulteriormente quanto in realtà, a distanza di decenni, questi spettri non siano ancora svaniti, questa volta giudicando lui stesso con il suo nuovo metro di giudizio morale quello vecchio

Non ci era possibile, né abbiamo voluto essere isole; i giusti fra noi, non più né meno che in qualsiasi altro gruppo umano, hanno provato rimorso, vergogna, dolore insomma, per la colpa che altri e non loro avevano commessa, ed in cui si sono sentiti coinvolti, perché sentivano che quanto era avvenuto intorno a loro, ed in loro presenza, e in loro, era irrevocabile. Non avrebbe potuto essere lavato mai più; avrebbe dimostrato che l’uomo, il genere umano, noi insomma, eravamo potenzialmente capaci di costruire una mole infinita di dolore; e che il dolore è la sola forza che si crei dal nulla, senza spesa e senza fatica. Basta non vedere, non ascoltare, non fare.

Con gli ultimi paragrafi del capitolo Levi porta all’estremo il discorso dell’amico credente, arrivando persino ad una concezione quasi nietzscheana della storia, l’eterno ritorno dell'uguale, sostenendo che episodi come la Shoah non siano meri episodi, ma che anzi sia un perpetuarsi di violenza e dolore gratuiti dal principio dei tempi, come evidenzia il filosofo Giorgio Agamben nel suo libro Quel che resta di Auschwitz, dove analizza la visione di Levi riportando una sua poesia:

Sognavamo nelle notti feroci

sogni densi e violenti

sognati con anima e corpo:

tornare, mangiare; raccontare.

Finché suonava breve e sommesso

il comando dell’alba:

“Wstawach”;

e si spezzava in petto il cuore.

Ora abbiamo ritrovato la casa,

il nostro ventre è sazio,

abbiamo finito di raccontare.

E’ tempo. Presto udremo ancora

il comando straniero:

“Wstawach””.


Così Levi termina il suo capitolo, con una previsione, un monito, di carattere quasi profetico, come un nuovo Zarathustra, ma ben più cauto nel presagire un nuovo sterminio sistematico, mostrandosi preoccupato, come chiunque al tempo, per un nuovo perpetuarsi di dolore e violenza, questa volta per mano di uno strumento nuovo: la bomba atomica.

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Virginia, Lorenzo, Alberto, VC

Da Le storie naturali, Pieno impiego

Il racconto Pieno impiego è una delle quindici brevi storie contenute nella raccolta intitolata Storie naturali, redatta da Primo Levi e pubblicata nel 1966, con accompagnamento di una curiosa vicenda editoriale. Il signor Simpson, che compare come protagonista anche in altre novelle, si presenta nelle vesti di un rappresentante della NATCA, incaricato di vendere macchinari in grado di sostituire gli uomini in alcune mansioni quotidiane. In questo caso si tratta di una macchina chiamata Minibrain, non specializzata in alcun compito specifico ma capace di

fare tutto e niente. In genere, le macchine sono specializzate: un trattore tira, una sega sega, un versificatore fa versi, un fotometro misura la luce. Questo qui, invece, è buono a far tutto, o quasi. [...] È un selettore a quattro piste, ecco quello che è: vuol sapere quante donne di nome Eleonora sono state operate di appendicite in Sicilia nel 1940? o quanti fra i suicidi in tutto mondo, dal 1900 ad oggi, erano mancini e simultaneamente biondi? Non ha che da premere questo tasto e avrà la risposta in un attimo.

Il narratore racconta la discussione avuta durante un incontro con il venditore, il quale lascia intendere di avere un’idea innovativa e di gran lunga più efficiente di quelle proposte finora dalla NATCA, per poi concludere invitando il suo interlocutore a cena con l’obiettivo di approfondire l’argomento. Una volta arrivato dai Simpson, mentre la moglie del padrone di casa

serviva il tè, chiese: «Signora, un po' di mirtilli? Ce ne sono molti, e ottimi, dall'altra parte della valle». «Non vorrei che lei si disturbasse...» cominciò mia moglie; Simpson rispose: «Per carità!» poi cavò di tasca un piccolo strumento che mi parve simile a un flauto di Pan, e fischiò tre note. Si udì un frullare d'ali lieve e secco, le acque dello stagno si incresparono, sui nostri capi passò un rapido volo di libellule. «Due minuti!» fece Simpson trionfante, e fece scattare il cronometro a polso; la signora Simpson, con un sorriso fiero e insieme un po' vergognoso, entrò in casa, riapparve con una coppa di cristallo, e la posò vuota sul tavolino. Al termine del secondo minuto le libellule tornarono, come una minuscola ondata di bombardieri: dovevano essere varie centinaia. Rimasero librate sopra di noi in volo fermo, in un fruscio metallico quasi musicale, poi ad una ad una discesero di scatto sulla coppa, rallentarono il volo, lasciarono cadere un mirtillo e si involarono fulminee. In pochi istanti, la coppa fu piena: non un mirtillo era caduto fuori, ed erano ancora freschi di rugiada.

Così il narratore si trova di fronte alla dimostrazione pratica della geniale scoperta di Simpson il quale, dopo aver studiato il linguaggio di alcune specie animali, è riuscito nell’impresa di intraprendere un dialogo con questi, arrivando a stipulare accordi che giovassero a entrambe le parti. Il venditore afferma di aver tratto ispirazione per questa sua scoperta dai geniali lavori di Von Frisch sul linguaggio delle api. E’ possibile che lo stesso Primo Levi sia rimasto affascinato da questa trattazione, realmente esistente, incentrata sulle modalità con cui le api comunicano, prendendone poi  spunto per la redazione di questo racconto. 

Il proprietario procede presentando un quadro apparentemente surreale in cui, a causa dell’avversione di sua moglie nei confronti delle formiche, è riuscito a trattare con queste affinché non occupassero la zona circostante il perimetro di casa sua. Per raggiungere un tale risultato afferma addirittura che sia stato necessario convocare una piccola assemblea: «È stato nello scorso settembre, una seduta memorabile. Erano presenti api, formiche e libellule. Il racconto dei rapporti che intrattiene coi differenti animali appare sempre più spinto in una direzione che si può definire fantascientifica, e permette di riconoscere come ogni intervento di Simpson sulla natura finisca per sortire effetti su diverse specie:

era in avanzate trattative con mosche e zanzare. Le mosche erano stupide, e non se ne poteva cavare molto: solo di non infastidire in autunno e di non frequentare la stalla e il letamaio. Contro quattro milligrammi di latte al giorno e a testa, avevano accettato.

Dà dimostrazione delle potenzialità connesse con la sua trovata descrivendo le modalità con cui le formiche riescono a costruire dei resistori (elementi fondamentali dei circuiti elettrici) per cui due afferrano i due elettrodi con le mandibole, una li attorciglia di tre giri e li fissa con una gocciolina di resina, poi tutte e tre depongono il pezzo sul trasportatore.

Il racconto,  già ricco di elementi insoliti, ha una svolta ironica nel finale, (non a caso nell’introduzione della raccolta Levi aveva definito i racconti “quindici divertimenti”) quando Simpson racconta i problemi legali in cui si trova ingiustamente invischiato: infatti su di lui sono ricaduti i sospetti di aver sfruttato delle anguille per trasportare eroina via mare.

La conclusione è affidata alle parole del signor Simpson, che lamenta le difficoltà incontrate nel tentativo di far prendere piede alla sua intuizione. Come se si trattasse di Prometeo afferma “Inventi il fuoco e lo doni agli uomini, poi un avvoltoio ti rode il fegato per la eternità”, permettendo di trarre spunto per eventuali ragionamenti. Infatti risulta abbastanza insolito il fatto che la scoperta paragonabile a quella del fuoco riguardi la natura e non si spinga invece in direzione della tecnologia. È possibile che il ragionamento dello stesso Primo Levi sia nato a partire dal periodo a lui contemporaneo, segnato da un  progresso scientifico che nel ‘900 è senz’altro senza precedenti, e che nel racconto viene rappresentato in chiave ancora più moderna tramite macchinari che ricordano, ovvero anticipano,  le intelligenze artificiali di oggi. Piuttosto che attribuire allo scrittore  una visione utopica attivata da  incipienti  tecnologie, conviene riconoscere che   sia stata  la fantasia del profondo conoscitore della chimica  ad avere la meglio, spingendo Levi a seguire il filone  del  “realismo magico” (Bontempelli, Landolfi e  Calvino ne sono ottimi rappresentanti)  che caratterizza il racconto italiano del ‘900.

Lo stesso autore ha dichiarato come i suoi racconti si sviluppino a partire da un’intuizione minima, come può effettivamente essere stata quella legata alla danza a otto delle api, per poi spingersi in direzione fantastica. 

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Martina, Eleonora, Carlotta VC

I sommersi e i salvati - La memoria dell'offesa


Per la stesura del primo capitolo dell’opera intitolata I sommersi e i salvati, Primo Levi attinge, come da lui stesso ricordato, a una fonte che, in quanto meravigliosa e fallace allo stesso tempo, è considerata sospetta: la memoria. Infatti, con il passare del tempo i ricordi presenti nella mente delle persone vengono modificati e subiscono una degradazione inevitabile, in particolar modo se non vengono spesso rievocati; per questo la memoria di un evento non coincide mai perfettamente con quanto accaduto realmente. Levi giustifica l’utilizzo dei suoi ricordi, inserendo alla fine del capitolo un’apologia, nella quale afferma che essi possono essere considerati veritieri poiché sono stati da  lui  ricostruiti analizzando le varie e abbondanti congruenze con altre testimonianze storiche e letterarie.  

Sia chi subisce un torto sia chi lo infligge ha la tendenza, per fronteggiare il dolore provato, a mettere da parte i ricordi, che con il passare del tempo sbiadiscono. 

L’oppresso tenta di rimuovere il proprio ricordo per evitare di rinnovare e rivivere la sofferenza vissuta; allo stesso modo, anche l’oppressore preferisce dimenticare, per liberarsi dal senso di colpa da cui è pervaso e per cercare, nella migliore delle ipotesi, una  pace interiore. Nonostante questa lieve somiglianza tra loro, è innegabile una differenza sostanziale: entrambi si trovano nella stessa trappola ma è l’oppressore che l’ha preparata e quello che ne soffre maggiormente è senza ombra di dubbio (o di ambiguità) la vittima, in quanto l’offesa che ha ricevuto non può essere annullata e per sempre ne soffrirà.

Attraverso tali considerazioni, Levi evidenzia il suo intento di analizzare entrambe le categorie, operazione possibile solamente nel caso in cui il sentimento provato non comprometta la ragione. L’autore dimostra, infatti, grande lucidità nel riportare le esperienze che ha vissuto, rappresentando una novità nel panorama dei testimoni di brutalità subite in svariati contesti, poiché si immedesima anche nei suoi oppressori, coloro che gli hanno inflitto i mali peggiori, e li analizza tentando di capirne le ragioni, addirittura i moventi interiori. Tale capacità è anche il risultato dell’influenza che esercitava sul suo spirito Dante, di cui Levi era un grande ammiratore, il quale nella Divina Commedia si mostra propenso a comprendere tutti, già solo per il fatto di predisporsi ad ascoltare i peccatori presenti nella cantica dell’Inferno. La discesa nell’inferno in sé, inoltre, documenta in svariate occasioni una capacità di immedesimazione negli animi dannati che si spinge ben oltre i confini imposti dall’urgenza (pur presente) di fornire exempla negativi, da non seguire per non essere, appunto, dannati. Levi ha profondamente inteso lo spirito umano di Dante, quello che gli consente di capire (quasi) tutti i dannati, pur non perdonandoli (dal momento che dannati restano). Una lezione di spiritualità universale, che non poteva non risuonare nell’animo del non credente Levi. 

Il fatto di essere costantemente cosciente di ciò che succede, permette a Levi di distinguersi da coloro che sono dominati dai sentimenti e non dalla ragione. La sua lucidità gli consente di avere una visione completa di tutte le persone coinvolte in una situazione, di provare empatia nei loro confronti e dedicare loro almeno un'occasione di profonda comprensione. Si fa carico, così, di tutta la sofferenza presente allora e ora, e questo peso lo porta alla disperazione, a una perdita del senso della vita e infine, forse, motiva il finale suicidio. 

Il capitolo entra a fondo nel merito del  tormento provato da Levi, quando nell’ultima parte viene riportata la vicenda del suo rapporto,  appena rimpatriato, con  la famiglia di Alberto, un giovane che ha conosciuto nel campo di concentramento di Auschwitz dove lui e suo padre erano stati deportati. L’autore tenta di riferire alla madre la sorte subita dal figlio durante la marcia di evacuazione del campo, ma lei lo interrompe subito affermando di essere già a conoscenza delle sue condizioni: egli infatti sarebbe riuscito a salvarsi dalle SS fuggendo attraverso la foresta. In tal modo la madre si dimostra indisposta ad ascoltare ciò che è realmente successo (il racconto veritiero del testimone diretto), negando così i ricordi di Levi, e dunque la sua persona, già precedentemente sminuita e svalorizzata durante la tragica esperienza all’interno del campo di concentramento. 

Levi tratta inoltre una distinzione tra buona e mala fede. Quest’ultima è propria di chi mente di proposito, sapendo di aver provocato dolore e morte, alterando la realtà al fine di non pagarne le conseguenze. La buona fede invece appartiene a chi, profondamente traumatizzato e risentito dalle violenze compiute, crea una nuova verità consolatoria, per ridurre il dolore causato dal senso di colpa. Tutti iniziano a mentire consapevolmente, ma tanto più sono bravi a costruirsi un nuovo scenario, più la verità si modifica per gli stessi che hanno subito o effettuato un torto, arrivando a credere pienamente in ciò che sostengono. 

Sia gli oppressi che gli oppressori cercano così rifugio dal dolore: in particolare questi ultimi, a cui sono state chieste le motivazioni delle loro terribili azioni, giungono a diverse incoerenti e improbabili giustificazioni, per la maggior parte riassumibili con l’affermazione di non essere stati consapevoli e in pieno possesso delle facoltà raziocinanti fondamentali per condurre azioni di cui poi si possa chiedere un rendiconto. L’operazione di sgravio delle responsabilità passa inevitabilmente per la via dello spostamento dell’attenzione da sé ad altri, gerarchicamente superiori:  al famoso processo di Norimberga documentato da Hannah Arendt, tanti (tra cui il gerarca Adolf  Eichmann) sostennero di  aver eseguito solamente ordini imposti dall’alto e, cresciuti in una società  conformata secondo la disciplina nazista, nonché soggetti alle leggi dello stato nazista, non potevano fare altrimenti; a supporto di tale incrollabile convinzione, non di rado ponevano la considerazione che  chiunque al loro posto avrebbe fatto la stessa cosa, persino con più durezza. Queste giustificazioni secondo Levi non possono che essere in mala fede, infondate, pretestuose,  e i nazisti tedeschi non possono pretendere di essere creduti. 

Diversamente, le testimonianze di Louis Darquier, responsabile della deportazione di più di 70.000 ebrei, possono essere interpretate solamente utilizzando il meccanismo dell'invenzione della verità di comodo. È infatti lo stesso responsabile a negare tutto, sostenendo che le atroci foto dei cumuli di morti siano solamente montaggi, le statistiche siano state inventate dagli ebrei avidi di pubblicità, le camere a gas siano state costruite esclusivamente dopo la guerra con lo scopo di uccidere i pidocchi, e le deportazioni da lui stesso firmate siano state effettuate, ma senza che egli ne conoscesse destinazione e motivo. Darquier, avvezzo a mentire pubblicamente, si è quindi costruito la sua realtà parallela, rendendola persino agli occhi altrui veritiera, tant'è che visse la fine della sua vita indisturbato in Spagna, senza aver pagato le conseguenze delle sue azioni, provocando profondo ribrezzo in Levi, e non solo in lui. D’altronde, l’intero periodo del Terzo Reich, definito dall’autore come guerra contro la memoria, è stato caratterizzato da una totale falsificazione e manomissione della realtà. Hitler, vietando ai sudditi l’accesso alla verità, ne ha condizionato radicalmente la moralità e la memoria, costruendosi uno scenario intessuto di menzogne, di cui però egli stesso è rimasto vittima, mostrando così il prezzo che si paga quando si manomette la verità.


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