RIPASSO MODULO 13 TUTTO DANTE

 MODULO 13: percorsi danteschi sotto articolati come da elenco seguente

a.     I primi canti dell’Inferno, del Purgatorio e del Paradiso

b.    I sesti canti dell’Inferno, Purgatorio, Paradiso

c.     I sogni nel Purgatorio (IX, XVIII  e XXVII)

d.    Di hybris e di morte secunda (II e XXVI dell’Inferno, XV, XVI e XVII del Paradiso)

e.     Esami e preghiere: canti finali del Purgatorio, canti finali del Paradiso.

I PRIMI CANTI (INFERNO, PURGATORIO E PARADISO)

I primi canti connotano la cantica alla quale forniscono l’incipit, ne determinano la tonalità, creando così l’atmosfera sensoriale, uditiva per cominciare, adeguata al seguito della storia. Mi figuro il I canto dell’Inferno, per restare nella metafora musicale, nel do minore della Quinta di Beethoven, il I del Purgatorio nel mi minore della Passione di San Matteo di Bach, mentre il I del Paradiso nel trionfante do maggiore della IX sinfonia di Schubert.

Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.
3

Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!
6

Tant’è amara che poco è più morte;
ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai,
dirò de l’altre cose ch’i’ v’ ho scorte.

Le tre terzine esprimono il dolore della perdita totale di senso, vi si respira l’aria immobile e soffocante del luogo che non si riconosce e dove non ci si riconosce (più), e anche dell’esperienza che non si vorrebbe ricordare perché, come accade con la memoria alle volte, dal ricordo scaturisce un’emozione spaventosa, una paura che, nata in quel momento, non si è ancora estinta. In un velocissimo crescendol’ultima terzina approda a un culmine, equiparando quasi l’esperienza alla morte, per poi lasciar intravvedere uno spiraglio di speranza attraverso il ben,  che pure s’annida da qualche parte anche nel buio più profondo. Le altre cose alle quali allude il poeta sono l’intera esperienza del viaggio, l’intera Divina commedia. Inizia così anche quella prodigiosa gara che il poeta ingaggia con se stesso, per riuscire a contenere tutto in un punto, ovvero per restituire umanamente il divino aleph, il punto di vista dell’onnisciente che non necessita di spazio e tempo, misure umane, ma coincide con l’eterno. Una gara di sintesi, per esprimerla in termini più comprensibili, un allenamento all’ineffabilità, che proprio un istante prima di approdare alla negazione della parola, trova la maniera di esprimere tutto quello che c’è da esprimereMa certo la terzina alla quale sto facendo riferimento dista 14224 versi dall’ineffabile finale, e il poeta, agens auctor, ha molta strada da fare, in termini di visione e di creazione, prima di alzare la penna dal foglio e smettere di cantare.

Nel I canto della Divina commedia Dante si mostra già quale innovatore permanente e estroso inventore: non concepisce un verso che si possa intendere come proemiale nel senso tradizionale del termine, e rinvia questo omaggio all’antico al II canto. Indugia invece sullo stato d’animo in cui si trova, nel momento in cui, come può accadere al principio di un incubo, non capisce bene dove sia e chi sia. Nemmeno si trattasse dell’inizio di un romanzo psicologico, o di un thriller volendo esagerare con gli anacronismi interpretativi:

Io non so ben ridir com’i’ v’intrai,
tant’era pien di sonno a quel punto
che la verace via abbandonai.
12

Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle giunto,
là dove terminava quella valle
che m’avea di paura il cor compunto,
15

guardai in alto e vidi le sue spalle
vestite già de’ raggi del pianeta
che mena dritto altrui per ogne calle.
18

Allor fu la paura un poco queta,
che nel lago del cor m’era durata
la notte ch’i’ passai con tanta pieta.

Il protagonista, questo io che già sovverte il genere antico, caratterizzato dall’oggettività della narrazione, rendendo il  poema subito  atipico, ha la testa confusa, ha perduto la strada, la via retta, che naturalmente per la sensibilità del lettore dell’epoca, un lettore cristiano, coincide con la verità di Dio, unico a detenere la chiave della salvezza per gli esseri umani. Questo soggetto confuso, il protagonista della storia, l’agens distinto dall’auctor che ricorda quanto accaduto a distanza di qualche anno, non ha però perduto del tutto una delle virtù teologali, come apprendiamo dalla terzina 19-21: la paura, scrive in quei versi, riesce a essere quietata dalla vista, evocata nella terzina precedente, di un colle dietro al quale sta spuntando il sole. Per il lettore dell’epoca la simbologia si manifesta immediatamente nella sua pregnanza anche teologica, mentre noi dobbiamo ricordarcerlo per via di studio: il sole è Dio (per gli antichi era Apollo e il sincretismo cristiano opera ormai da secoli) ed è in lui che si ripone la speranza (ecco la virtù teologale di salvezza, senza la quale si è preda della disperazione, nera e infernale.

Il I canto di tutto il poemain sole sette terzine, ha già introdotto il protagonista, definito la sua condizione, stabilito delle coordinate interpretative che continueranno a valere per tutta la lettura: siamo al contempo dentro e fuori dalla storia, in quanto lettori, dato che possiamo immedesimarci nelle paure e speranze dell’agens così come ricostruire le trame culturali, teologiche soprattutto, che consentono all’auctor di scrivere versi come quelli che compongono questo immenso monumento.

Poi è possibile lasciarsi irretire dalla trama incalzante, se non si pretende di soffermarsi in prima battuta su ogni dettaglio: il colle, con la sua parvenza benevola, col suo sentore di divino, è una specie di miraggio: non può essere così a portata di mano la salvezza, un’ascesa che potrà avvenire solo dopo essere discesi nel pozzo infernale. Di mezzo, letteralmente, ci sono delle brutte bestie, tre fiere scrive il poeta, l’una ingannevolmente graziosa, la lonza, l’altra spaventosa e aggressiva, il leone, e la terza agghiacciante e mortifera, la lupa. Sono i vizi capitali, personificati in uno stile da bestiario medievale, l’accattivante lussuria, la schiacciante superbia, l’avidità divorante per chiunque l’ammetta nel suo cuore. Ruzzola all’indietro, l’agens poco prima speranzoso, e si sente abbandonato a se stesso, ovvero a quell’io che non sa bene chi sia, non fosse per un’apparizione salvifica.

Mentre ch’i’ rovinava in basso loco,
dinanzi a li occhi mi si fu offerto
chi per lungo silenzio parea
 fioco.63

Quando vidi costui nel gran diserto,
"Miserere di me", gridai a lui,
"qual che tu sii, od ombra od omo certo!".

Voglio indugiare un po’ su quel verso 63. chi per lungo silenzio parea fioco. Facendo il balzo che la conoscenza del testo ci permette, diciamo subito che la pregnanza dell’originale  sinestesia si manifesta del tutto quando si pensi che quel fantasma di voce è una delle sirene incantatrici dell’Anticoun poeta, il poeta, quello che Dante ama come un amico o anche più di quel che si possa amare un amico, dato che senza di lui la sua arte non sarebbe esistita. Ecco, anche più che una sinestesia in questo verso, dato che l’apparizione riesce a presentarsi come un’eco incarnata (paradosso che coinvolge anche la storia mitica, avviandola all’indietro).  Il poeta che non ha parlato per tanti secoli (nel limbo si tace? in realtà non parrebbe, stando a quanto si legge nel IV canto, ma tant’è: crivellare di analisi un testo non libera dai paradossi che, spesso, animano di senso ulteriore la poesia) si manifesta così per la prima volta nel poema scritto dal suo più fedele e ardito discepolo. Anche su questo vale la pena soffermarsi: su come solo un misto di fedeltà e arditezza cementi l’amicizia che supera la prova del tempo e della morte. Come la definisce Olof Lagerkrantz, nel suo Scrivere come Dio, l’amicizia meravigliosa fra Dante e Virgilio è un’esperienza esistenziale unica nel suo genere, e grazie a questa unicità spezza il cerchio di ferro del simbolismo che assegna al poeta latino la pur fondamenale, indiscutibile sul piano interpretativo, funzione di rappresentare la ragione che Dante ha smarrito nella selva oscura. In questa esperienza esistenziale rientra il conforto del soccorso che giunge nel momento del bisogno, l’attimo registrato dal verso su cui mi sono appena soffermata, e poi l’incessante presenza al fianco dell’agens fino a che non ne viene meno la necessità. E a quel punto, solo a quel punto, il dolcissimo padre si congeda: senza rimpianti (sotto i quali s’annidano sempre sensi colpa per il non fatto  non detto), senza la minima stilla di amarezza per non avere la possibilità di fare quello che al suo amico è concesso anche grazie a lui. Celebrazione della generosità nell’amicizia, imparentata pur sempre con la fedeltà e l’arditezza. Ma nel momento in cui appare salvifico e fioco, colui che, presto sapremo, è il sommo poeta dell’antico e maestro indiscusso dell’a sua volta maestro Dante, ha il compito di recare conforto e prospettare, per la prima volta nel poema, che cosa attenda l’agens purché disposto a superare i limiti. Affiora nelle terzine di questo primo canto anche il tema destinato a ricorrere dell’hybris costantemente temuta eppur praticata e coltivata perché unica forza in grado di spingere alla conoscenza. L’arditezza si manifesta così per la prima volta nell’esortazione di Virgilio a osare il superamento del limes per eccellenza, il confine che separa la vita dalla morte, fino all’ultima sfida, quella della visione celeste. L’amicizia pretende questo coraggio e fonda se stessa sull’affidamento. Dante si conforta e si decide: come nel dettato evangelico, che qui parafraso con una necessaria sostituzione di soggetto, Virgilio è la via, la verità, la vita.

Nel I canto del Purgatorio  si riemerge, letteralmente, da 34 canti in cui è stato il sole a tacere, riprendendo una celebre sinestesia sempre dal I canto dell’Inferno (v. 60): si esce dal  mare crudele, dalla conoscenza del male e  del dolore umani espressi nella loro assolutezza, conosciuti in una dimensione che non concede più spazio alla scelta. La dannazione è eterna e inappellabile. L’inferno non è lieve per nessuno.  Laggiù, in quell’imbuto a suo modo infinito,  in quel mondo alla rovescia, che l’agens stupefatto ha guardato un’ultima volta prima di uscire a riveder le stelle, sono rimasti tutti i dannati con le loro vite perdute e Lucifero, tragica parodia del vero e unico Dio. Mentre l’agens  prova legittimo sollievo, che detta a posteriori due ispiratissime terzine all’auctor,

 

Dolce color d’orïental zaffiro,

che s’accoglieva nel sereno aspetto

del mezzo, puro infino al primo giro,

 

a li occhi miei ricominciò diletto,

tosto ch’io usci’ fuor de l’aura morta

che m’avea contristati li occhi e ’l petto.

 

quest’ultimo dedica i primi versi del canto al canone proemiale, intessuto di simbologia morale cristiana:

 

Per correr miglior acque alza le vele

omai la navicella del mio ingegno,

che lascia dietro a sé mar sì crudele;

 

e canterò di quel secondo regno

dove l’umano spirito si purga

e di salire al ciel diventa degno.

 

Ma qui la morta poesì resurga,

o sante Muse, poi che vostro sono;

e qui Calïopè alquanto surga,

 

seguitando il mio canto con quel suono

di cui le Piche misere sentiro

lo colpo tal, che disperar perdono.

 

Compare così, invocata,  Calliope, la musa della poesia epica, ma le Muse sono, devono essere, sante: si tratta infatti di passare dalla morta poesì, adatta al mar crudele,  alla poesia dell’umano spirto, il quale  si purga, confidando nel perdono divino che, nella cantica è ripetuto varie volte e attraverso varie esperienze, è immensamente generoso nel suo manifestarsi. Il tono è sempre minore, elegiaco per intenderci,  ma l’inizio predispone a un innalzamento, a una resurrezione, prima della quale certo sono necessarie ancora molte penitenze e pentimenti, ma che sicuramente alla fine avverrà. Il senso del purgatorio, come regno ultraterreno intermedio, è già riassunto: anche se non verranno citate espressamente, pure è chiaro che siano indispensabili la fede, la speranza e la carità, tre virtù teologali eclissate dall’oscurità infernale, che ha concesso alle sole cardinali di splendere ancora nel limbo, tra i savants del mondo antico, compreso, è naturale, la guida di Dante. Bisogna aver fede e sperare, per riuscire a accedere alla porta del purgatorio (che l’auctor distanzierà a ben otto canti dall’inizio), e poi bisogna condividere lo spirito di carità il cui sommo esempio è quella persona trinitaria denominata figlio, disposto a morire per tutti, a tollere, sollevare, il peso dei peccati dalle fragili spalle umane per accollarselo totalmente. Il messaggio cristiano è chiaramente esplicitato, tuttavia le strade dell’invenzione poetica si volgono verso l’antico, il pagano, precisamente in direzione di una dottrina filosofica incarnata dal personaggio al quale l’intero canto risulta dedicato, ovvero Catone l’Uticense, austero guardiano del secondo regno.

Il  veglio solo, il cui aspetto incute immediata reverenza, è dipinto dall’auctor come fosse un’icona: incastonato fra le luci delle quattro stelle, allegoricamente chiamate a rappresentare le quattro virtù cardinali, fortitudo,  iustitia, prudentia, temperantia. Gli spetta un compito eccezionale, se per un attimo ci immedesimiamo nei lettori dell’epoca di Dante: quello di rendere onore al pensiero filosofico pagano, a quello stoico appunto, che ha concepito un’idea così nobile e fiera da poter, provvisoriamente e fino a un certo punto, conciliare due sistemi di pensiero in netta opposizione. L’idea in questione è espressa in un verso del poema di Lucano, poeta del I secolo d. C. ammiratissimo da Dante, che s’immagina infatti d’incontrarlo nel limbo: nel IX libro della Pharsalia (vv. 275-276) si legge che l’uomo merita qualcosa di più della vita, in evidente giustificazione dell’atto che la morale stoica, in totale contrasto con quella cristiana, rende non solo lecito ma necessario e meritevole, ovvero il suicidio, quando vengano a mancare le condizioni perché la vita possa essere ritenuta un valore più alto dell’essere umano stesso.  Grande arditezza, quella che compie l’auctor in questo inizio della cantica, decidendo motu proprio di assolvere un sicuro dannato assegnandogli il ruolo di rappresentare la libertà dell’essere umano. Il canto (e la cantica) ricevono da qui un fondamentale alimento concettuale: gli esseri umani sono liberi, al punto da poter decidere se vivere o morire, sostiene la dottrina stoica. Per Dante, cristiano, uno scoglio quasi insormontabile nella traduzione in pratica di un tale principio è rappresentato dal fatto che la vita sia un dono divino, rifiutare il quale è peccato mortale. La trovata poetica geniale, che elude totalmente il problema, consiste allora nel rendere Catone una figura futurorum, come pensavano e scrivevano gli esegeti biblici medievali intenti a interpretare il Vecchio Testamento: Catone l’Uticense ha interpretato sulla Terra (quindi in modo imperfetto) la libertà assoluta che per il cristiano consiste nel libero arbitrio concesso da Dio. Non si tratta di accettare o rifiutare la vita, ma di accettare o rifiutare il male. Quella è la scelta cristiana e libera per eccellenza. Dunque Dante accoglie Catone, in nome di questa sua prefigurazione, nell’empireo dei saggi che forniscono esempi a ogni essere umano. Quel che la logica, la filosofia e la teologia non potrebbero mai ammettere, compie la poesia. E l’ossimoro del dannato beatificato sprigiona tutta la sua eloquente bellezza, percettibile anche da un lettore ateo.

Gloria, luce, desiderio. Si arriva al sommo, all’acme, e si viene inondati di luce che, come suggerisce persino l’esperienza sensoriale fisica, quando è così eccessiva acceca. Come pure, si sa, il coronamento del desiderio genera la sua cessazione. Un ennesimo ossimoro, quello del motore immobile,  descrive  perfettamente la vertigine dell’incontro di opposti e tutta la cantica Paradiso è una variazione su questo tema portante, che non smette di operare anche quando altri temi risuonano più potenti.

L’agens vola attraverso le sfere che ruotano intorno alla terra, i cieli concentrici che l’empireo contiene essendone al contempo contenuto,  e l’auctor compone versi sublimi: per entrambi occorrono forze che attingono al sovrumano e dunque l’invocazione canonica deve puntare decisamente alla fonte di tutto:

 

La gloria di colui che tutto move
per l’universo penetra, e risplende
in una parte più e meno altrove.
3

Nel ciel che più de la sua luce prende
fu’ io, e vidi cose che ridire
né sa né può chi di là sù discende;
6

perché appressando sé al suo disire,
nostro intelletto si profonda tanto,
che dietro la memoria non può ire.
9

Veramente quant’io del regno santo
ne la mia mente potei far tesoro,
sarà ora materia del mio canto.
12

O buono Appollo, a l’ultimo lavoro
fammi del tuo valor sì fatto vaso,
come dimandi a dar l’amato alloro.

 

Né sa né può,  sostiene l’auctor riferendosi all’operazione che s’accinge a compiere: una professione d’impotenza e d’insipienza che richiede un’immediata correzione,  dal momento che l’opera non esisterebbe se fosse davvero insipiente e impotente colui che la sta scrivendo.  Così, spiega anche psicologicamente tale condizione,  che minerebbe alle fondamenta il lavoro creativo (appressando sé al suo disire...dietro la memoria non può ire: quando si raggiunge l’assoluto, si dimentica subito quello che è accaduto), e da questa sua consapevolezza scaturisce il grido d’aiuto al buono  Appollo, unico possibile dittatore degli ultimi versi, dell’ultimo lavoro, che sarà quello che gli meriterà l’amato alloro.

L’invocazione va a immediato buon fine, come dimostra il fatto che l’auctor riesca a comporre niente meno che i versi del trasumanar, che leggiamo poco dopo:

Trasumanar significar per verba
non si poria; però l'essemplo basti
a cui esperïenza grazia serba.
72

S’i’ era sol di me quel che creasti
novellamente, amor che ’l ciel governi,
tu ’l sai, che col tuo lume mi levasti.
75

Quando la rota che tu sempiterni
desiderato, a sé mi fece atteso
con l’armonia che temperi e discerni,
78

parvemi tanto allor del cielo acceso
de la fiamma del sol, che pioggia o fiume
lago non fece alcun tanto disteso.

Si tratta chiaramente di una visione, un abbagliante lago di luce, sole che si somma a sole, e chissà se, s’interroga ancora il poeta, a essere presente in quella situazione era lui, composto di corpo e anima, o si è trattato solo di una visione spirituale. Il dilemma, inaugurato fin dal primo canto, ripetutamente evocato e risolto nel senso di sostenere che quello dantesco sia un viaggio vero  e non una visione, si ripropone qui irrisolto: tu’l sai, ed è evidente che sia a Dio che si sta riferendo. Poi è tutto un susseguirsi di novità e di meraviglie, e un incalzare di necessità esplicative, pazientemente corrisposte da Beatrice: Dante sta ritornando, non andando per la prima volta, nel luogo che gli è destinato da sempre, ovvero la grazia divina,

Non dei più ammirar, se bene stimo,
lo tuo salir, se non come d’un rivo
se d’alto monte scende giuso ad imo.
138

Maraviglia sarebbe in te se, privo
d’impedimento, giù ti fossi assiso,
com’a terra quïete in foco vivo".
141

Su questo ritornare è interessante soffermarsi, per la prospettiva rovesciata, rispetto a un altro sentire che definirò di conseguenza, proposto. Se ritornare a Dio è naturale e ci sarebbe da meravigliarsi se privo d’impedimento Dante restasse  a Terra (con la maiuscola, perché sarebbe proprio il pianeta), allora non solo il corpo, la carne, ma la vita umana stessa diventa il reale impedimento al ritorno al divino. Il senso della vita è, in questa prospettiva, ritornare a Dio, ovvero morire, con un perfetto rovesciamento della concezione  pagana, che si coglie per opposizione, secondo la quale la vera vita è invece quella terrena, dato che l’Oltretomba è popolato di umbrae. Simile a una fiamma, che punta verso l’alto, l’agens guizza in direzione dell’empireo insieme a Beatrice che gli fornisce la spiegazione appena letta, e il canto si conclude con un momento estatico, Quinci rivolse inver’ lo cielo il viso, presago di quell’excessus mentis in Deum col quale si chiuderà la cantica.

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I SESTI CANTI

I sesti canti di ogni cantica sono legati tra loro da un filo noto a tutti i lettori, anche scolastici e distratti, di Dante. Il filo della politica, ovvero  un filo intinto nel sangue: per cominciare,  quello delle guerre fratricide che videro l’agens coinvolto in prima persona, carnefice e vittima, vittima e carnefice, in un ambiguo gioco delle parti che ben conoscono i praticanti di quest’arte antica e non sempre  nobile, almeno di per sé, se non in relazione a chi la pratichi. Ma se dovessimo fermarci alla sola dimensione esistenziale per così dire privata, se la poesia a questo solo portasse, non saremmo di fronte a un’opera universale. Che anche quando attinge alle radici dell’essere singolo, dell’artista che compone, risuona nelle volte infinite del sentire collettivo, canta di ogni epoca e di ogni momento storico, dal primo vagito dell’essere umano all’esplosione o implosione finale di tutto, a seconda di come si preferisce figurarsi l’arco della vicenda di cui facciamo parte, se non si abbraccia la tesi creazionista.

Per Dante certo la politica intride la vita, e di quanto ciò sia vero dice già  la più scarna delle biografie, prosciugata di ogni dettaglio che non inerisca a questo ambito. Dopo la nascita a Firenze nel 1265, la sua famiglia fa parte  della milizia cittadina e  i genitori sono Bella e Alighiero da Bellincione, partecipa a spedizioni dell’esercito in veste di cavaliere: di sicuro era a Campaldino, fra i guelfi fiorentini, nel 1289.  Si iscrive all’arte  dei medici e degli speziali per poter entrare nel consiglio dei Cento, poi in quello dei Trentasei  e, nel 1300, accedere al vertice del Comune, il priorato. Mentre a Firenze s’intensifica la lotta tra le fazioni aristocratiche dei bianchi (capeggiati dai Cerchi) e dei neri (guidati dai Donati), i primi tendenti ad avvicinarsi al popolo (la borghesia) e i secondi più interessati ad appoggiare Bonifacio VIII nei suoi tentativi di controllare Firenze, Dante, priore nel momento in cui lo scontro diventa particolarmente intenso, è vicino ai bianchi e sostiene la linea politica contraria alle mire del papa anche l’anno successivo. Per questa ragione, quando i neri prendono il sopravvento grazie all’arrivo delle truppe di Carlo di Valois, inviato dal papa, e, nel 1302, avviano processi contro i precedenti rettori, è accusato di malversazioni, bandito e condannato a morte in contumacia, mentre si trova a Roma per un incarico d’ambasceria. Iniziano gli anni d’esilio: tra il 1302 e il 1304 è ancora  legato al gruppo degli esuli bianchi a cui si sono uniti i ghibellini,  viaggia in Toscana, a Forlì e a Verona, alla ricerca di alleati per poter rientrare a Firenze. Tenta anche la strada della pacificazione, che fallisce come il rientro in forze nel 1304. A quel punto abbandona i bianchi, va forse a Parigi, probabilmente a Bologna, a Treviso, quindi in altre città della Marca trevigiana e poi di nuovo in Toscana dove soggiorna a Lucca. La discesa in Italia  e la morte dell’imperatore Arrigo VII, in cui riponeva speranza di pacificazione e (per quanto riguardava se stesso) rientro in Firenze, decretano nel 1308 il tramonto di ogni sua prospettiva di reintegro nella vita politica e nella sua città. Infine, le peregrinazioni fra Verona, presso  Cangrande della Scala, e Ravenna, presso Guido Novello da Polenta, dove muore nel 1321.

A parte, però, il doveroso omaggio a ciò che è reale e documentato dell’esperienza politica dantesca di cui ho appena dato fugace testimonianza, è indubbio che la politica rappresenti per il Dante che noi conosciamo meglio, quello che scrive la Divina commedia, un’ispirazione visionaria, che si modifica nel corso del tempo e dà luogo sia a astratte considerazioni, condensate nel trattato in tre libri (unico tra i suoi trattati a essere completato) De Monarchia (1310-1313) sia a numerosi canti o parti di canti del poema. Che Dante sia un visionario non è cosa che necessiti di essere dimostrata: la sua opera principale si presenta come una visione, non solo dei regni ultraterreni nei quali si compie il viaggio, ma della vita terrena così com’è stata, com’è e sarà. Come tutte le visioni condensa, spesso davvero  in un istante, quello che richiede invece molto tempo per essere concepito e recepito, per non dire compreso in tutta la sua interezza. La visione specifica di cui intendo ora trattare, passando  attraverso le tre cantiche, è appunto quella politica. Sul tema dell’ordine del mondo, del suo disporsi e porsi per consentire un’esistenza felice, ossia realizzata e piena, agli esseri umani, Dante ha un paio di idee basilari che manifesta nel De monarchia, trattato che la chiesa condanna al rogo per eresia nel 1329 (otto anni dopo la morte dell’autore), per volontà di Bertrando del Poggetto (vescovo e uomo d’armi francese),  inserisce  nel 1559 fra i libri all’Indice e riabilita alla fine del XIX secolo. La prima idea è che l’organizzazione politica sia resa necessaria dal peccato originale, che ha rivelato la natura imperfetta degli esseri umani: se essi fossero rimasti innocenti non ci sarebbe stato bisogno dei poteri, ovvero dell’organizzazione politica in quanto organizzazione dei medesimi. La seconda idea è che i poteri sono due: l’uno temporale, l’altro spirituale. Servendosi di precisi riferimenti biblici, Dante argomenta in modo serrato come la distinzione rappresenti il fondamento di una visione separata di due giurisdizioni: il potere temporale riguarda la dimensione giuridica, rappresenta l’ordine sulla terra, ed è un potere che ha un fine e una fine, coincidente con la durata dell’esistenza terrena (dei singoli come di tutti i viventi); il potere spirituale riguarda la dimensione della vita eterna, e il vicario di Cristo sulla terra, il papa, detiene questo potere riconducibile a Dio per un  tempo determinato. Quanto alla controversa questione della derivazione dei due poteri, sono entrambi parte integrante di  un disegno divino, come già si evince dalla prima dichiarazione, ma il temporale non deriva dallo spirituale (ad aiutare è la metafora dei due soli), per quanto si possa concludere che il secondo si situi a un livello più alto, in ragione della sua natura che è diretta emanazione dell’eterno. Questa visione del potere deriva a Dante da Agostino, padre della chiesa, che tra il 413 e il 426 scrive il De civitate Dei, trattato nel quale teorizza l’esistenza di due civitates, una terrena e una celeste, presenti contemporaneamente nella dimensione dell’interiorità umana sotto forma di opzione: alla terrena corrispondono valori transitori e ingannevoli, che coincidono con varie smanie di arricchimento, di accumulo (non a caso è la città fondata da Caino, che uccide il fratello per invidia), mentre alla celeste valori assoluti, come lo spirito di carità e l’amore che unisce fra loro tutti i figli di Dio in Dio medesimo (la città di Abele).

Questa, dunque, la teorizzazione messa sulla carta da Dante nell’unico suo trattato che risulti portato a compimento. Ma nei canti della Divina commedia¸ la prospettiva è ben più completa, e solo uno sguardo che li colga tutti e tre permette di comprenderlo fino in fondo.

Cominciamo allora, come sempre, dall’inferno. Il sesto canto porta nel III cerchio, dopo spiriti magni e lussuriosi, ed è il cerchio dei golosi e del cane guardiano Cerbero, gola più che profonda, canide antropomorfo per appassionati di teratologia: l’auctor lo dipinge all’inizio del canto, subito dopo essere rinvenuto dalla sincope sopraggiunta per la pieta provata suo malgrado per i due cognati, lussuriosi eccezionalmente graziati dal dio della poesia, Dante medesimo, con l’essere uniti per sempre nella pena.

Cerbero, fiera crudele e diversa,

con tre gole caninamente latra

sovra la gente che quivi è sommersa.

 

Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra,

e ’l ventre largo, e unghiate le mani;

graffia li spirti ed iscoia ed isquatra.

 

Urlar li fa la pioggia come cani;

de l’un de’ lati fanno a l’altro schermo;

volgonsi spesso i miseri profani.

 

Quando ci scorse Cerbero, il gran vermo,

le bocche aperse e mostrocci le sanne;

non avea membro che tenesse fermo.

Crudele e diverso, con uso assoluto e non comparativo del secondo aggettivo, a segnalare un unicum difficile da immaginare, Cerbero infligge ai suoi dannati multiple pene, alle quali potevano certo essere avvezzi i lettori medievali, per via della pratica consueta della tortura, ma che in noi producono associazioni con racconti e film dell’orrore. Il gran vermo, in gara, quanto alla definizione, niente meno che con il re dell’inferno, Satana, non si esime dal portare a compimento quello che produce di per sé già la pena specifica, la pioggia mista a grandine mista a neve e chissà che altro, anche lei diversa nel suo essere un fenomeno non meteorologico poiché in atto nelle viscere della Terra, nell’imbuto della morte secunda. I golosi, bersagliati da questo incessante diluvio,  non hanno più forma umana e diventano a loro volta possibile cibo per Cerbero, anche perché Virgilio, imitando se stesso nell’invenzione dell’Eneide, impasta con le mani un po’ dell’orrida mistura per mettere provvisoriamente a tacere Cerbero. Parodia delle più nobili focacce ammannite da Enea, su suggerimento della Sibilla, all’ingresso dell’Averno. Prosegue, la camminata che preferiamo non immaginare nei dettagli, finché dall’ammasso maleodorante e in fermento non si rizza qualcosa, o meglio qualcuno:

 

Noi passavam su per l’ombre che adona
la greve pioggia, e ponavam le piante
sovra lor vanità che par persona.36

Elle giacean per terra tutte quante,
fuor d’una ch’a seder si levò, ratto
ch’ella ci vide passarsi davante.39

"O tu che se’ per questo ’nferno tratto",
mi disse, "riconoscimi, se sai:
tu fosti, prima ch’io disfatto, fatto".42

E io a lui: "L’angoscia che tu hai
forse ti tira fuor de la mia mente,
sì che non par ch’i’ ti vedessi mai.45

Ma dimmi chi tu se’ che ’n sì dolente
loco se’ messo, e hai sì fatta pena,
che, s’altra è maggio, nulla è sì spiacente".48

 Siccome  i versi danteschi, come sempre accade coi visionari, addensano e condensano, il compito dell’interprete è spesso quello di concentrarsi su singoli termini, o associazioni di termini rivelatori. In queste terzine scelgo di concentrarmi sul disfatto, fatto, al verso 42, accostamento di participi perfetti che assolutizzano, per cominciare, due eventi cruciali dell’esistenza umana, la morte (disfatto) e la nascita (fatto) collocandoli in una prospettiva temporale rovesciata, con un prima che confonde un po’: l’anima dannata si presenta dicendo che Dante è nato prima che lui morisse, e nel dirlo però, appunto in ragione della presenza del prima, i due eventi risultano invertiti nel loro ordine naturale, così  la morte, nel verso, precede la vita. La circostanza è significativa: Ciacco, goloso, è prescelto da Dante per fungere da portavoce di un canto funebre, intonato per celebrare i misfatti della politica. Quella fiorentina, in modo particolare e in omaggio a un crescendo per cui i sesti canti della Commedia sono dedicati prima al comune natale di Dante, poi all’Italia e infine all’impero, ma certo non solo. La politica non fa che compiere misfatti, dicevo, è una continua celebrazione di morte, malamente mascherata da vita. Chi la pratica, anche con le migliori intenzioni, non è risparmiato da quella che sembra essere una specie di contagio. Lascio ancora la parola a Ciacco perché ci porti nella direzione di questa ulteriore rivelazione.

 

E quelli a me: "Dopo lunga tencione
verranno al sangue, e la parte selvaggia
caccerà l’altra con molta offensione.66

Poi appresso convien che questa caggia
infra tre soli, e che l’altra sormonti
con la forza di tal che testé piaggia.69

Alte terrà lungo tempo le fronti,
tenendo l’altra sotto gravi pesi,
come che di ciò pianga o che n’aonti.72

Giusti son due, e non vi sono intesi;
superbia, invidia e avarizia sono
le tre faville c’ hanno i cuori accesi".

 

L'agens ha posto tre domande e il dannato, la cui voce è un lagrimabil suono (e di nuovo fatichiamo a immaginare che suono possa emettere una poltiglia provvisoriamente ricomposta in corpo umano), sta rispondendo. Vuol sapere cosa succederà ancora a Firenze, perché sia successo quando è successo, e se ci sia ancora qualche persona giusta fra i cittadini di questa città. Una domanda riguarda il futuro, una il passato e la terza il presente, o forse un assoluto temporale. Ciacco risponde in modo diretto e chiaro: ci sarà una guerra di tutti contro tutti, vincitori e vinti si avvicenderanno con la medesima reciproca crudeltà, tutto è accaduto per via di quella commistione di superbia, invidia e avidità che rende l’animo umano poltiglia informe (che somiglia tanto alla pena patita da lui come goloso) e infine, in quell’eterno presente nel quale s’inscena la storia, pantomima, tragedia, farsa del mondo, i giusti son due e non vi sono intesi. Mentre Ciacco emette il suo suono che induce al pianto, ed è abbastanza chiaro come sia una questione sia di forma sia di contenuto, noi capiamo di non essere più solo a Firenze, il luogo del cuore dell’auctor e dell’agens, ma di essere nella nostra storia, nella storia del mondo di allora e di ora. Qui e lì ci porta la visione, con il suo orizzonte smisurato, e  apocalittico nel senso etimologico di rivelatore. L’essenza della rivelazione di Ciacco, di là dal fatto di porsi come una profezia post factum, consiste soprattutto in questo: non c’è salvezza per chi si  occupa di politica, i poteri che prevalgono sono quelli che risalgono alle tre faville  che accendono i cuori di luce oscura. E anche le persone degne, le brave e ben intenzionate persone, che fanno politica, o prima o poi arrivano a essere anime nere:

Farinata e ’l Tegghiaio, che fuor sì degni,

Iacopo Rusticucci, Arrigo e ’l Mosca

e li altri ch’a ben far puoser li ’ngegni,

 

dimmi ove sono e fa ch’io li conosca;

ché gran disio mi stringe di savere

se ’l ciel li addolcia o lo ’nferno li attosca".

 

E quelli: "Ei son tra l’anime più nere;

diverse colpe giù li grava al fondo:

se tanto scendi, là i potrai vedere.

 

Sembra quasi che l’agens ponga ingenuamente la sua domanda, ma è fuori di dubbio che ingenuo non sia, dal momento che, ad artificio poetico svelato,  lui parla e lui si risponde: se fuor sì degni, come una specie di fair play ante litteram sembra dettare all’auctor, tali non sono stati riconosciuti dal divino giustiziere (a volte così sembra, più che giudice), dal momento che diverse colpe giù li grava al fondo. La nostra immaginazione non ha bisogno di esercitarsi più di tanto, in questo caso: Farinata, ghibellino e nemico giurato della parte dantesca, campeggia nel X canto ed è un monumento eretto alla magnanimità declinata in senso opposto rispetto a quella degli abitanti del limbo, ma quel che importa qui sottolineare è che Dante, anzi, l’occhio visionario di Dante, non si esima  dal proferire una condanna senza appello per chi pretende di essere una guida nello stato e, in modi che variano a seconda delle propensioni individuali, non fa che arrossare di sangue  le strade e i fiumi del mondo. A ulteriore conferma di questo, non possiamo dimenticare che il girone dei violenti ospita una specie di braccio speciale destinato ai soli tiranni, VII cerchio dell’inferno, XII canto, con la buona compagnia dei predoni. Non provo nemmeno il brivido dell’anacronismo se mi azzardo a sostenere che Dante possa essere affratellato, in questa associazione tra soggetti che agiscono con violenza e in contrasto con le leggi, al ben diverso Pasolini che, in pieno Novecento, e dopo le esperienze dei totalitarismi, ha avuto questa notevolissima intuizione: nulla è più anarchico del potere, il potere fa praticamente ciò che vuole. E ciò che il potere vuole è completamente arbitrario o dettato da una necessità di carattere economico, che sfugge alle logiche razionali. In sintesi: tiranni e predoni rispondono alla medesima logica. Nel sesto canto di Dante, per tornare al punto e concludere questo primo tassello, a essere poste al centro dell’atto di accusa contro forme di governo assassine sono le forme d’ingordigia umane, malamente mascherate da astratte idealità. Non a caso in questo canto è una sorta di creatura senza forma a prendere, faticosamente, la parola: quasi ad alludere all’essenza di un’attività incautamente ammantata di dignità e di onore da un’antica tradizione, ma corrispondente a quanto di più oscuramente violento e prevaricatore e disordinato si agita nelle pieghe dell’anima umana.

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Nel VI canto del Purgatorio non si è ancora arrivati alla porta del regno, che attende i pellegrini al IX canto. Alle spalle ci sono svariati incontri significativi, da quello con Catone a quello con Manfredi, vittima della chiesa ma salvato da quel Grande Generoso che sa essere il Dio dantesco, quando non è né giudice né giustiziere. Ora però è la volta di un compaesano di Virgilio, Sordello da Mantova, poeta italiano in lingua provenzale vissuto nello stesso secolo di Dante e grande ammiratore di Virgilio. Indimenticabile l’incontro tra i due, promosso da un’unica parola, quella che contrassegna la terra natale:

 

Ma vedi là un’anima che, posta

sola soletta, inverso noi riguarda:

quella ne ’nsegnerà la via più tosta".

 

Venimmo a lei: o anima lombarda,

come ti stavi altera e disdegnosa

e nel mover de li occhi onesta e tarda!

 

Ella non ci dicëa alcuna cosa,

ma lasciavane gir, solo sguardando

a guisa di leon quando si posa.

 

Pur Virgilio si trasse a lei, pregando

che ne mostrasse la miglior salita;

e quella non rispuose al suo dimando,

 

ma di nostro paese e de la vita

ci ’nchiese; e ’l dolce duca incominciava

"Mantüa..." e l’ombra, tutta in sé romita,

 

surse ver’ lui del loco ove pria stava,

dicendo: "O Mantoano, io son Sordello

de la tua terra!"; e l’un l’altro abbracciava.

 

Pronto a recitare il suo epitaffio, Mantua me genuit...Virgilio viene immediatamente tacitato dall’abbraccio, a quanto pare soffocante (non fosse che si parla di anime) di Sordello, che senza nemmeno sapere chi sia il destinatario di tanto affetto, glielo tributa in ragione della patria comune. Tanto basta al nostro visionario per dare inizio alla celebre allocuzione, apostrofe e nostalgica (in senso genuinamente romantico, come avrò modo di sostenere) evocazione dell’Italia che non c’è e, forse, non ci sarà mai. Ma procediamo con ordine. Si tratta, è chiaro, di un discorso che si tiene di fronte alle masse e dal pulpito della storia. Difficile credere che Dante non ne fosse perfettamente consapevole, che non presentisse quante volte il suo incipit sarebbe stato utilizzato con più o meno cognizione di causa. Quanto al fatto che si tratti di un’apostrofe, è evidente che il soggetto astratto è lì, è l’Italia in carne e ossa, di cui non si poteva ancora sapere che sarebbe esistita, ma che per Dante è come se lo fosse, in primo luogo perché è lui l’inventore primario della lingua che quell’Italia avrebbe dovuto parlare, quando avesse potuto e se avesse voluto. Per quanto concerne la nostalgia, questa è l’ultima carta dimostrativa che mi voglio giocare, sicché per ora la lascio in sospeso e passo al  testo, che è lungo ma deve essere intero.

 

Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di provincie, ma bordello!78


Quell’anima gentil fu così presta,
sol per lo dolce suon de la sua terra,
di fare al cittadin suo quivi festa;81

e ora in te non stanno sanza guerra
li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode
di quei ch’un muro e una fossa serra.84

Cerca, misera, intorno da le prode
le tue marine, e poi ti guarda in seno,
s’alcuna parte in te di pace gode.87

Che val perché ti racconciasse il freno
Iustinïano, se la sella è vòta?
Sanz’esso fora la vergogna meno.90

Ahi gente che dovresti esser devota,
e lasciar seder Cesare in la sella,
se bene intendi ciò che Dio ti nota,93

guarda come esta fiera è fatta fella
per non esser corretta da li sproni,
poi che ponesti mano a la predella.96


O Alberto tedesco ch’abbandoni
costei ch’è fatta indomita e selvaggia,
e dovresti inforcar li suoi arcioni,99

giusto giudicio da le stelle caggia
sovra ’l tuo sangue, e sia novo e aperto,
tal che ’l tuo successor temenza n’aggia!102

Ch’avete tu e ’l tuo padre sofferto,
per cupidigia di costà distretti,
che ’l giardin de lo ’mperio sia diserto.105

Vieni a veder Montecchi e Cappelletti,
Monaldi e Filippeschi, uom sanza cura:
color già tristi, e questi con sospetti!108

Vien, crudel, vieni, e vedi la pressura
d’i tuoi gentili, e cura lor magagne;
e vedrai Santafior com’è oscura!111

Vieni a veder la tua Roma che piagne
vedova e sola, e dì e notte chiama:
"Cesare mio, perché non m’accompagne?".114

Vieni a veder la gente quanto s’ama!
e se nulla di noi pietà ti move,
a vergognar ti vien de la tua fama.117

E se licito m’è, o sommo Giove
che fosti in terra per noi crucifisso,
son li giusti occhi tuoi rivolti altrove?120

O è preparazion che ne l’abisso
del tuo consiglio fai per alcun bene
in tutto de l’accorger nostro scisso?123

Ché le città d’Italia tutte piene
son di tiranni, e un Marcel diventa
ogne villan che parteggiando viene.126

Fiorenza mia, ben puoi esser contenta
di questa digression che non ti tocca,
mercé del popol tuo che si argomenta.129

Molti han giustizia in cuore, e tardi scocca
per non venir sanza consiglio a l’arco;
ma il popol tuo l’ ha in sommo de la bocca.132

Molti rifiutan lo comune incarco;
ma il popol tuo solicito risponde
sanza chiamare, e grida: "I’ mi sobbarco!".135

Or ti fa lieta, ché tu hai ben onde:
tu ricca, tu con pace e tu con senno!
S’io dico ’l ver, l’effetto nol nasconde.138

Atene e Lacedemona, che fenno
l’antiche leggi e furon sì civili,
fecero al viver bene un picciol cenno141

verso di te, che fai tanto sottili
provedimenti, ch’a mezzo novembre
non giugne quel che tu d’ottobre fili.144

Quante volte, del tempo che rimembre,
legge, moneta, officio e costume
hai tu mutato, e rinovate membre!147

E se ben ti ricordi e vedi lume,
vedrai te somigliante a quella inferma
che non può trovar posa in su le piume,150

ma con dar volta suo dolore scherma.

 

In principio c’è il lamento, come al solito condensato in un minimo di parole, nel cerchio stretto della terzina: è prodotto dalla schiavitù, dal dolore diffuso dalla mercificazione di quel che dovrebbe essere sacro. Donna di bordello, è diventata, da signora delle provincie quale l’aveva decretata un antico potere, quello dell’impero di Roma.  Un’ansia di storicizzazione coglie i commentatori, che s’affannano a precisare qua e là, ovunque riescono (e si può fare), chi esattamente avesse in mente Dante col suo fuoco di fila d’accuse ai responsabili della rovina d’Italia. Non è questo il tenore della mia analisi, che punta invece a tenere saldo il filo della condanna senza remissione di ogni politica: in nessun luogo c’è pace, ora in te non stanno sanza guerra li vivi tuoi, quelli che dovrebbero assumersi la responsabilità di portarla latitano (persino la gente che dovrebbe esser devota), ma soprattutto  gli occhi di Dio sono volti altrove, osa proferire il poeta sia pur con circospezione, corretta immediatamente (ma quel ch’è detto è detto) dal dubbio di non riuscire a capire mai e poi mai i disegni dell’Eterno Fattore (O è preparazion che ne l’abisso del tuo consiglio fai per alcun bene  in tutto de l’accorger nostro scisso?). Di fronte a certe domande (non del tutto retoriche) Dio tace proprio come la Natura nell’operetta morale di Leopardi. Sospettarlo di strabismo selettivo e renderlo muto conferisce a questa apostrofe anche più forza comunicativa, e senza dubbio conforta attualizzazioni che altro non sono che omaggi all’universalità dell’opera. Nella terzina immediatamente successiva, per esempio, dove il poeta recrimina sugli innumerevoli villan che riescono a sembrar altrettanti Marcelli redivivi, con riferimento al fiero console  pompeiano oppositore di Cesare, risuona  un tema a noi familiare, quello della decadenza della partecipazione politica, che rende possibile a chiunque, e non è un paradosso ma un effetto collaterale, prendere la parola e proporsi come capopopolo, maître à penser, diffusore di pensiero critico e quant’altro, mentre le città son piene di tiranni. E poi, quand’è la volta, per il gran finale,  del palcoscenico fiorentino trasformato in aula di tribunale, la visione s’incupisce in ragione del sarcasmo che prorompe, come sangue vivo da una ferita sempre aperta: mentre l’imputato si guarda intorno come se la valanga d’accuse non riguardasse proprio lui, il pubblico ministero lo incalza e lo umilia, fino a presentarlo sotto specie di malato che non suscita alcuna pena, perché si è ridotto così per sua propria volontà e ora offre lo spettacolo, disarmante nella sua impotenza, di chi con dar volta suo dolore scherma 

E ora onoro la promessa di riportare l’attenzione alla nostalgia romantica. Quella che, nelle sue multiple declinazioni, prevede persino che si possa essere nostalgici di quello che non è mai stato. Nella loro acuminata precisione descrittiva queste terzine sottintendono un motivo di questo genere,  e offrono all’ispirazione (e all’intendimento del testo) il collegamento possibile con l’ultimo sesto canto del quale intendiamo occuparci. Mentre lamenta tutto quello che lui vede, mentre addirittura Dio è sospettato di essere distratto, Dante sogna nostalgicamente un’altra Italia. Ma per confortare la nostra interpretazione è ancor meglio esprimersi dicendo che Dante sogna nostalgicamente (è un visionario) un altro mondo che non è mai esistito. A giocare con le parole capita di lasciarsi prendere la mano: l’altro mondo non è ultraterreno, tengo a precisare. Per quello, evidentemente, il Dio in cui Dante crede, non ha bisogno di suggerimenti. Dei quali invece necessita questo mondo che potrebbe anche, un giorno o l’altro, migliorare. La banalità è dietro l’angolo, ne sono consapevole, e per evitarla conviene limitarsi a indicare come il filo che si delinea in purgatorio con questa lettura, è esattamente quello da cui riparte il sesto canto del paradiso, che ora ci dedichiamo quindi a leggere.

«Poscia che Costantin l’aquila volse

contr’ al corso del ciel, ch’ella seguio

dietro a l’antico che Lavina tolse,

 

cento e cent’ anni e più l’uccel di Dio

ne lo stremo d’Europa si ritenne,

vicino a’ monti de’ quai prima uscìo;

 

e sotto l’ombra de le sacre penne

governò ’l mondo lì di mano in mano,

e, sì cangiando, in su la mia pervenne.

 

Cesare fui e son Iustinïano,

che, per voler del primo amor ch'i' sento,

d'entro le leggi trassi il troppo e 'l vano.

 

E prima ch’io a l’ovra fossi attento,

una natura in Cristo esser, non piùe,

credea, e di tal fede era contento;

 

ma ’l benedetto Agapito, che fue

sommo pastore, a la fede sincera

mi dirizzò con le parole sue.

 

Io li credetti; e ciò che ’n sua fede era,

vegg’ io or chiaro sì, come tu vedi

ogni contradizione e falsa e vera.

 

Tosto che con la Chiesa mossi i piedi,

a Dio per grazia piacque di spirarmi

l’alto lavoro, e tutto ’n lui mi diedi;

 

e al mio Belisar commendai l’armi,

cui la destra del ciel fu sì congiunta,

che segno fu ch’i’ dovessi posarmi.

 

Or qui a la question prima s’appunta

la mia risposta; ma sua condizione

mi stringe a seguitare alcuna giunta,

 

perché tu veggi con quanta ragione

si move contr’ al sacrosanto segno

e chi ’l s’appropria e chi a lui s’oppone.

 

La voce che sentiamo risuonare (ce ne avvertono le virgolette a inizio canto, del fatto che si tratti di un discorso diretto) è quella dell’imperatore Giustiniano, che Dante incontra nel cielo di Mercurio, secondo nell’ordine dei nove (Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte,  Giove, Saturno, Stelle fisse, Primo Mobile). Rispondendo a un’esigenza didascalica (chiarita fin dall’inizio della cantica) i cieli rappresentano una sorta di percorso educativo per l’anima dell’agens, che incontra, in corrispondenza di ciascuno, delle anime che sono state improntate favorevolmente  dal loro influsso: attivi per la gloria (Mercurio), per l’amore (Venere), per la sapienza (il sole), per la fede (Marte), per la giustizia (Giove), per la contemplazione (Saturno) e per il trionfo di Cristo e Maria (le Stelle fisse) e degli angeli (il Primo Mobile). Solo nel cielo della Luna, il più vicino alla Terra, si manifesta ancora una sorta di imperfezione, ed esso ospita infatti gli spiriti mancanti ai voti per via di un atto di costrizione. Ma non è ora questo il nostro interesse, sicché passo a trattare direttamente l’incontro con Giustiniano.  Le terzine appena lette sono appunto quelle introduttive, e delineano la storia umana e politica dell’imperatore promotore della la redazione del Codex  che da lui prende il nome. Un unico verso vale a descrivere l’operazione durata decenni: d'entro le leggi trassi il troppo e 'l vano, con riferimento alla rielaborazione resa necessaria dalle mutate condizioni storiche, in particolare dal passaggio da impero romano a impero romano cristiano. Il Giustiniano del nostro visionario precisa di essere stato pienamente autorizzato, a compiere tale operazione da Dio con un signum: della pacificazione militare poteva occuparsi un suo braccio destro, il generale Belisario, mentre  a lui spettava l’altro compito. La ricostruzione encomiastica si chiude provvisoriamente su una terzina che non passa inosservata, per via del contenuto polemico esibito. Giustiniano rivolge all’agens una domanda retorica velenosa, che riguarda proprio il sacrosanto segno, ovvero il simbolo imperiale, l’aquila, e coloro che da una parte se ne appropriano in opposizione a quelli che s’oppongono. La condanna sottesa è senza appello: né gli uni né gli altri  sono veri interpreti dell’aquila e di Dio, ma ambedue sono usurpatori del santo segno. Per suffragare tale condanna, Giustiniano riprende il suo volo attraverso la storia, ispirato a una visione provvidenziale che riesce una volta di più a determinare continuità fra la visione dell’indimenticabile maestro Virgilio e quella cristiana.

 

Vedi quanta virtù l’ha fatto degno

di reverenza; e cominciò da l’ora

che Pallante morì per darli regno.

 

Tu sai ch’el fece in Alba sua dimora

per trecento anni e oltre, infino al fine

che i tre a’ tre pugnar per lui ancora.

 

E sai ch’el fé dal mal de le Sabine

al dolor di Lucrezia in sette regi,

vincendo intorno le genti vicine.

 

Sai quel ch’el fé portato da li egregi

Romani incontro a Brenno, incontro a Pirro,

incontro a li altri principi e collegi;

 

onde Torquato e Quinzio, che dal cirro

negletto fu nomato, i Deci e ’ Fabi

ebber la fama che volontier mirro.

 

Esso atterrò l’orgoglio de li Aràbi

che di retro ad Anibale passaro

l’alpestre rocce, Po, di che tu labi.

 

Sott’ esso giovanetti trïunfaro

Scipïone e Pompeo; e a quel colle

sotto ’l qual tu nascesti parve amaro.

 

Poi, presso al tempo che tutto ’l ciel volle

redur lo mondo a suo modo sereno,

Cesare per voler di Roma il tolle.

 

E quel che fé da Varo infino a Reno,

Isara vide ed Era e vide Senna

e ogne valle onde Rodano è pieno.

 

Quel che fé poi ch’elli uscì di Ravenna

e saltò Rubicon, fu di tal volo,

che nol seguiteria lingua né penna.

 

Inver’ la Spagna rivolse lo stuolo,

poi ver’ Durazzo, e Farsalia percosse

sì ch’al Nil caldo si sentì del duolo.

 

Antandro e Simoenta, onde si mosse,

rivide e là dov’ Ettore si cuba;

e mal per Tolomeo poscia si scosse.

 

Da indi scese folgorando a Iuba;

onde si volse nel vostro occidente,

ove sentia la pompeana tuba.

 

Di quel che fé col baiulo seguente,

Bruto con Cassio ne l’inferno latra,

e Modena e Perugia fu dolente.

 

Piangene ancor la trista Cleopatra,

che, fuggendoli innanzi, dal colubro

la morte prese subitana e atra.

 

Con costui corse infino al lito rubro;

con costui puose il mondo in tanta pace,

che fu serrato a Giano il suo delubro.

 

Ma ciò che ’l segno che parlar mi face

fatto avea prima e poi era fatturo

per lo regno mortal ch’a lui soggiace,

 

diventa in apparenza poco e scuro,

se in mano al terzo Cesare si mira

con occhio chiaro e con affetto puro;

 

ché la viva giustizia che mi spira,

li concedette, in mano a quel ch’i’ dico,

gloria di far vendetta a la sua ira.

 

Or qui t’ammira in ciò ch’io ti replìco:

poscia con Tito a far vendetta corse

de la vendetta del peccato antico.

 

E quando il dente longobardo morse

la Santa Chiesa, sotto le sue ali

Carlo Magno, vincendo, la soccorse.

 

Nelle terzine appena lette scorre la storia di Roma antica, monarchica, poi repubblicana e infine imperiale. Sempre il volo dell’aquila stiamo seguendo, quella con cui il canto ha avuto inizio, e le immagini dipanate sono per lo più quelle di guerre: tre terzine per il periodo monarchico (da Pallante al ratto delle Sabine a Lucrezia), diciannove per passare attraverso la storia repubblicana e imperiale fino a Carlo Magno. A un certo punto compare anche la parola vendetta, iterata tre volte: prima in occasione del riferimento alla morte di Cristo avvenuta nel 33 sotto il terzo imperatore, ovvero Tiberio (secondo il calcolo antico, che indicava Cesare come primo), poi con quella allusione alla vendetta di una vendetta perpetrata da Tito con la distruzione del tempio di Gerusalemme nel 70 d. C. A questo reticolo di vendette approda, salvo l’aggiunta della terzina che consacra Carlo Magno salvatore del sacro romano impero, il volo attraverso la storia di Giustiniano, e vale allora la pena indugiare un po’ nell’analisi. Che i versi in questione siano degni di particolare attenzione è reso evidente dal ricorso al verbo ammira con cui Giustiniano richiama l’attenzione dell’agens in ascolto: si tratta di cogliere un mirum ossia un evento meraviglioso, detto altrimenti un kairòs metafisico, ovvero il prodursi di una circostanza unica e irripetibile in cui si manifesta qualcosa di analogamente unico e irripetibile. Il peccato originale, che Dio si riservava di vendicare o prima o poi, ottiene la sua vendetta con la morte fisica di Cristo, morto in quanto uomo e Figlio  che doveva morire per giusta vendetta del Padre che si è servito del terzo Cesare (del potere dell’impero) per condannare con errate motivazioni ma giustamente il peccato commesso dall’umanità; subito dopo, a distanza di poco più di trent’anni, sopraggiunge però la seconda vendetta (di una vendetta) che consiste nella distruzione del tempio che colpisce il popolo ebraico resosi colpevole della condanna a morte del Figlio. S’inaugura così un circolo vizioso nel quale nessun interprete nel tempo è riuscito a districarsi. Atteniamoci per cominciare alla lettera: Dante esprime qui l’idea che il Dio, al quale si sta sempre più avvicinando nel suo viaggio visionario,  sia pur sempre quello dell’Antico Testamento. Un Dio sanguinario e vendicativo, violento e spargitore di sangue. Un Dio che non dimentica le offese e non le patisce, nel senso di sopportarle, ma le trasforma in strumenti educativi. Un Dio che incute timore sia quando si manifesta sia quando, apparentemente, tace. E il senso di questa dura istruzione sulla natura profonda  di Dio viene esplicitato dai versi successivi, che passano direttamente all’attualità dantesca, alle furiose, sanguinarie, vendicative lotte fra guelfi e ghibellini.

 

Omai puoi giudicar di quei cotali

ch’io accusai di sopra e di lor falli,

che son cagion di tutti vostri mali.

 

L’uno al pubblico segno i gigli gialli

oppone, e l’altro appropria quello a parte,

sì ch’è forte a veder chi più si falli.

 

Faccian li Ghibellin, faccian lor arte

sott’ altro segno, ché mal segue quello

sempre chi la giustizia e lui diparte;

 

e non l’abbatta esto Carlo novello

coi Guelfi suoi, ma tema de li artigli

ch’a più alto leon trasser lo vello.

 

Molte fïate già pianser li figli

per la colpa del padre, e non si creda

che Dio trasmuti l’armi per suoi gigli!

 

Questa picciola stella si correda

d’i buoni spirti che son stati attivi

perché onore e fama li succeda:

 

e quando li disiri poggian quivi,

sì disvïando, pur convien che i raggi

del vero amore in sù poggin men vivi.

 

Ma nel commensurar d’i nostri gaggi

col merto è parte di nostra letizia,

perché non li vedem minor né maggi.

 

Quindi addolcisce la viva giustizia

in noi l’affetto sì, che non si puote

torcer già mai ad alcuna nequizia.

 

Diverse voci fanno dolci note;

così diversi scanni in nostra vita

rendon dolce armonia tra queste rote.

 

E dentro a la presente margarita

luce la luce di Romeo, di cui

fu l’ovra grande e bella mal gradita.

 

Ma i Provenzai che fecer contra lui

non hanno riso; e però mal cammina

qual si fa danno del ben fare altrui.

 

Quattro figlie ebbe, e ciascuna reina,

Ramondo Beringhiere, e ciò li fece

Romeo, persona umìle e peregrina.

 

E poi il mosser le parole biece

a dimandar ragione a questo giusto,

che li assegnò sette e cinque per diece,

 

indi partissi povero e vetusto;

e se ’l mondo sapesse il cor ch’elli ebbe

mendicando sua vita a frusto a frusto,

 

assai lo loda, e più lo loderebbe».

 

Gli uni e gli altri approfittano dei simboli, se non del simbolo, per condurre bieche e avventurose operazioni di conquista del potere con tutti i suoi annessi, e la condanna di entrambi, una volta arrivato a questo punto del viaggio, è totale e senza riserve. Si può dire che il poeta che lascia erompere dalla penna questi versi sdegnati è sicuramente quello che, dopo il naufragio di qualsiasi speranza di rientro e di riordino del martoriato territorio italiano, non crede più nel bene operare della politica. Un po’ come se avesse definitivamente squarciato il velame che fino a quel momento aveva impedito anche a lui di capire cosa fosse e dove si situasse il vero bene. Il quale ultimo, inopinatamente, si manifesta proprio nelle  terzine conclusive del canto di Giustiniano, in cui il sommo imperatore reca un omaggio appunto inatteso a un personaggio del tutto oscuro, un’ombra della storia si potrebbe dire, non fosse per la volontà del poeta di farne un altro simbolo, quasi antagonista a quello pur prezioso dell’aquila. Ma occorre qualche spiegazione in merito. Romeo di Villanova, si legge nelle enciclopedie dantesche,  è esistito veramente: era un siniscalco, ovvero funzionario di alto grado, del conte Berengario di Provenza, che si avvalse variamente dei suoi servigi. Non morì certo ramingo e umile come Dante lo trasfigura, può essere (secondo alcuni dantisti) in base a una leggenda,  in queste terzine. Né sarebbe rimasto nella memoria del tempo, se ciò non fosse avvenuto, dal momento che, di funzionari fedeli che si siano dedicati a sostenere e promuovere i propri sovrani, sono pur piene le cronache di storia. Allora perché Dante, nel canto politico della terza cantica, in cui si serve della voce potente di un imperatore e del simbolo imperiale con la sua forza astratta, e perciò difficilmente intaccabile, lo onora in modo tale da renderlo indimenticabile, Nella  presente margarita, canta il poeta, luce la luce di Romeo, di cui fu l’ovra grande e bella mal gradita. In questi versi è contenuta la sintesi che ci permette di tornare al principio di tutto, alle fondamenta del pensiero di Dante sui poteri che derivano direttamente dal peccato originale e sulla scelta agostiniana di essere interiormente schierato per i valori della civitas terrena o per quelli della civitas Dei. L’operato di Romeo, il Romeo che dipinge Dante sottolineo di nuovo, è stato grande e bello come ha ben visto l’occhio di Dio, che l’ha quindi riconosciuto degno di essere una perla nella margarita celeste. Non così gli è accaduto sulla Terra, dove il bene è mal gradito e può rendere poveri e vetusti, costretti a mendicare frusto a frusto. E qui, con un tocco iperbolico che vale però a rendere efficacemente uno stato d’animo, l’auctor inevitabilmente lascia trasparire il suo sentimento delle cose, delle sue in quel momento, dopo tutta la trasfigurazione dei versi precedenti: quello che resta di tanta passione e impegno politico, dedizione e forse anche sacrificio, è il sentore di una lode più che meritata, di quelle che non si devono affannosamente ricercare (in questo consiste l’inganno della città terrena), ma che riscattano ogni sofferenza silenziosamente patita. Il frastuono e il sangue che risuonano nell’agone politico, e che il canto non ha mai smesso di evocare, alla fine dunque lasciano spazio ad altro, di segno opposto: da quella mischia, senza diventare indifferenti, ci si può allontanare dignitosamente e senza venir meno a quello che si desidera essere, ovvero al sogno o alla visione che si ha di sé. Così è il  Dio iroso e vendicativo del Vecchio Testamento, illuminato dalla  luce di Romeo, a diventare un’ombra e quasi scomparire.

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I SOGNI NEL PURGATORIO

 Questo terzo percorso si differenzia dai precedenti, in quanto prende in esame solo una cantica attraverso tre canti. Assicuro così, per cominciare, la permanenza della simbologia triadica alla quale mi attengo in questi nostri voli. Quanto al filo  conduttore, è talmente pregno di riferimenti, interni e esterni al testo, da assicurare di per sé una ricca ramificazione in svariate direzioni. Si tratta infatti del sogno, in greco ὄναρ o ὄνειρος (da cui il nostro onirico), quell’ancor oggi misteriosa attività cerebrale che, nemmeno con il supporto di sofisticati apparecchi di risonanza magnetica funzionale, si riesce a decifrare con esiti che portino a qualcosa di più che stabilire quanto i sogni siano essenziali per un corretto funzionamento della  nostra psiche e per l’igiene mentale. Partiamo da una serie di precisazioni che valgano a delineare la reale cronologia del viaggio: esso si compie nell’arco di sette giorni e mezzo, durante il periodo pasquale dell’anno giubilare 1300. Più precisamente, smarritosi nella selva oscura durante la notte del giovedì, Dante inizia il cammino nell’inferno con Virgilio al mattino del venerdì e lo prosegue sino al mattino successivo, sabato, quando riemergendo nell’emisfero australe dopo il passaggio nella natural burella guadagna quindi circa 12 ore; il passaggio attraverso il purgatorio, ovvero la salita fino al giardino dell’eden, dura tre giorni e tre notti, fino a mercoledì mattina, mentre il passaggio in paradiso si protrae all’incirca per un giorno e mezzo, fino a giovedì sera. La necessità di dormire (e dunque la possibilità di sognare) si presenta solo in purgatorio, il regno che ha caratteristiche terrene, in cui le giornate sono scandite dal sorgere e tramontare del sole, al quale fenomeno astronomico si connette un senso morale: quando il sole tramonta non è possibile muoversi (per le anime) in purgatorio, dal momento che la stella rappresenta la grazia divina, senza la quale nessun atto di pentimento e contrizione è possibile. Quando passa in purgatorio, dunque, l’agens è soggetto non solo alla legge fisica che impone al corpo di concedersi la pausa del sonno, ma anche a quella morale di non procedere senza la luce della grazia divina. Dopo questa necessaria spiegazione, che inerisce quindi alla dimensione del realismo dantesco, possiamo procedere invece nella direzione visionaria alla quale il sogno di per sé predispone, peraltro all’interno di una cornice  predisposta a essere intesa come un possibile sogno: non indugio sull’argomento, ma noto solo di passaggio che Dante, nel IX canto che ora leggeremo, racconta forse di aver sognato mentre sognava.

La concubina di Titone antico

già s’imbiancava al balco d’orïente,

fuor de le braccia del suo dolce amico;

di gemme la sua fronte era lucente,

poste in figura del freddo animale

che con la coda percuote la gente;

e la notte, de’ passi con che sale,

fatti avea due nel loco ov’eravamo,

e ’l terzo già chinava in giuso l’ale;

quand’io, che meco avea di quel d’Adamo,

vinto dal sonno, in su l’erba inchinai

là ’ve già tutti e cinque sedavamo.

Ne l’ora che comincia i tristi lai

la rondinella presso a la mattina,

forse a memoria de’ suo’ primi guai,

e che la mente nostra, peregrina

più da la carne e men da’ pensier presa,

a le sue visïon quasi è divina,

in sogno mi parea veder sospesa

un’aguglia nel ciel con penne d’oro,

con l’ali aperte e a calare intesa;

ed esser mi parea là dove fuoro

abbandonati i suoi da Ganimede,

quando fu ratto al sommo consistoro.

Fra me pensava: ’Forse questa fiede

pur qui per uso, e forse d’altro loco

disdegna di portarne suso in piede’.

Poi mi parea che, poi rotata un poco,

terribil come folgor discendesse,

e me rapisse suso infino al foco.

Ivi parea che ella e io ardesse;

e sì lo ’ncendio imaginato cosse,

che convenne che ’l sonno si rompesse.

Non altrimenti Achille si riscosse,

li occhi svegliati rivolgendo in giro

e non sappiendo là dove si fosse,

quando la madre da Chirón a Schiro

trafuggò lui dormendo in le sue braccia,

là onde poi li Greci il dipartiro;

che mi scoss’io, sì come da la faccia

mi fuggì ’l sonno, e diventa’ ismorto,

come fa l’uom che, spaventato, agghiaccia.

Dallato m’era solo il mio conforto,

e ’l sole er’alto già più che due ore,

e ’l viso m’era a la marina torto.

"Non aver tema", disse il mio segnore;

"fatti sicur, ché noi semo a buon punto;

non stringer, ma rallarga ogne vigore.

Tu se’ omai al purgatorio giunto:

vedi là il balzo che ’l chiude dintorno;

vedi l’entrata là ’ve par digiunto.

Dianzi, ne l’alba che procede al giorno,

quando l’anima tua dentro dormia,

sovra li fiori ond’è là giù addorno

venne una donna, e disse: "I’ son Lucia;

lasciatemi pigliar costui che dorme;

sì l’agevolerò per la sua via".

Sordel rimase e l’altre genti forme;

ella ti tolse, e come ’l dì fu chiaro,

sen venne suso; e io per le sue orme.

Qui ti posò, ma pria mi dimostraro

li occhi suoi belli quella intrata aperta;

poi ella e ’l sonno ad una se n’andaro".

Il poeta si avvale per cominciare di un’immagine mitica, evocando la coppia Aurora-Titone (la prima si scordò di chiedere per l’amato mortale, principe troiano,  oltre all’immortalità l’eterna giovinezza, causandone l’eterno invecchiamento) per dire che nell’emisfero boreale, dove risiede l’auctor e dove risediamo noi, l’aurora sta sbiancando,  mentre in purgatorio, dove si trova l’agens, sono le otto e tre quarti di sera e questi, colto dal sonno, com’è naturale per uno che si porti il corpo nell’aldilà,  si addormenta sul prato dove si trovava ancora con Virgilio, Sordello, Corrado Malaspina e Nino Visconti. Un’altra evocazione mitica, quella della favola (anche ovidiana) di Progne, moglie infanticida di Tereo trasformata in rondine, veicola il tema del sogno divinatorio (quello appunto ripreso, come vedremo, nel XVIII e XXVII canto del Purgatorio), secondo gli antichi quello che si fa in prossimità dell’alba, ovvero poco prima del risveglio,  durante il quale a Dante sembra di veder sospesa in aria un’aquila dalle penne d’oro, e di avere l’impressione di  trovarsi  nel medesimo luogo in cui si trovò Ganimede (altro principe troiano) dopo esser stato rapito per la sua bellezza da Giove; l’aquila quindi discende su di lui e lo rapisce fino alla sfera del fuoco, dove entrambi  s’incendiano. Il calore sveglia Dante, che si sente come Achille  quando si ritrovò nell’isola di Sciro per essere stato trafugato durante il sonno dalla madre Teti al centauro Chirone (poi i greci lo ritroveranno lì e lo porteranno con sé): spaesato e spaventato. Accanto a lui è rimasto solo Virgilio, gli altri son scomparsi, e il sole è già alto. Virgilio lo rassicura: ormai sono arrivati in purgatorio, l’entrata è finalmente visibile. Racconta che all’alba, mentre Dante dormiva sul prato, è arrivata una donna, che ha dichiarato di essere Lucia e di aver ricevuto l’incarico di portarlo fino al luogo in cui ora sono, per agevolargli il cammino. Virgilio non ha fatto che seguirla. Prima di andare via ha mostrato la porta, poi se n’è andata e Dante si è svegliato. Dunque abbiamo appena letto la trascrizione di  un sogno, e pure la sua interpretazione, e allora è il momento giusto per divagare un po’. Riprendendo, ad esempio, la suggestione shakespeariana, ma anche di Calderòn de la Barca,  del tessuto di cui sono fatti i sogni, cangiante e sfuggente alla presa quant’altri mai. I sogni, a volerli almeno un po’ catalogare, vanno da quelli ispirati a materia del passato, a quelli totalmente irrelati (almeno in apparenza) dalle proprie esperienze, a quelli che preconizzano il futuro. Si può persino sognare di sognare e contemporaneamente,  come suggerisce qui Dante, si può sognare quello che sta accadendo, ovviamente trasfigurato o espresso con regole sintattiche diverse da quelle che valgono nella realtà, con regole che si rifanno alla sintassi dei sogni. Virgilio svolge, nei versi appena letti, nei confronti del sogno del pellegrino, il ruolo di un analista prefreudiano, capace di decifrare senza margini d’errore il sogno del proprio assistito. L’agens, che  si trova di fronte all’ostacolo insormontabile della montagna, così impervia da negarsi  agli argomenti umani, necessita di aiuti angelici o divini, e pertanto il suo sogno, come ci si attende da un poeta,  veste miticamente l’aiuto donatogli dal cielo: l’aquila dorata è Giove e Dante è Ganimede, eletto fra gli dei per meriti riconosciuti (la bellezza, nel caso del principe troiano, le virtù cardinali e teologali nel caso del pellegrino). Nella realtà (se così la si può definire) l’aquila è l’aiuto provvidenziale di Lucia che, grazia illuminante, porta il pellegrino fino alla porta del purgatorio e, per assicurarsi che non vengano commessi errori, o meglio, per fornire un salvacondotto di cui in effetti Virgilio si serve coll’austero angelo portinaio, la indica con gli occhi luminosi. Questo primo sogno, insomma, dà conto di quello che ancor oggi la neuropsichiatria s’ingegna a studiare: come e perché avvenga, non sempre, non per tutti, il passaggio da un piano di realtà a uno onirico, se per via di stimolazioni ambientali determinate, o del tutto autonomamente a quel livello che, utilizzando il termine psichico, si cerca di determinare riconducendolo alla matrice che la parola rivela, il greco ψυχή che significa anima.

***

Il seguito del canto è dedicato a un evento che mi limito a riassumere, per non perdere il filo conduttore del nostro discorso: il superamento del varco purgatoriale, che si è fatto attendere dato che la permanenza in antipurgatorio è resa prolungata dalla necessità di creare nell’anima una condizione adeguata a iniziare il vero e proprio cammino espiatorio. Quest’ultimo è simbolicamente raffigurato in questo canto dai tre gradini d’accesso alla porta del purgatorio: sono tre scalini di diverso colore,  presidiati da un silenzioso angelo portinaio, il cui volto promana una luce che lo rende impossibile da guardare a Dante. Egli ha spada in mano e anche da essa proviene  una luce insopportabile. Il portinaio li interpella: cosa vogliono e dov’è l’autorizzazione? Il tono è quasi minaccioso, quando aggiunge che potrebbero essere danneggiati dalla loro venuta. Virgilio risponde subito evocando la donna del cielo che ha appena indicato loro la porta. Il portinaio allora li esorta a procedere. Il primo gradino è d’un bianco che riflette l’immagine, il secondo è nero più che rosso sangue e contiene varie screpolature, il terzo è rosso sangue. Su quest’ultimo poggia i piedi l’angelo portinaio, davanti alla soglia che sembra fatta di diamante. Su indicazione di Virgilio, Dante si prostra ai piedi dell’angelo e si batte il petto in segno di contrizione per tre volte. L’angelo gli incide sulla fronte sette P e lo esorta a sanare queste piaghe durante il passaggio in purgatorio. Dante nota il suo abbigliamento: indossa un abito color della cenere, da sotto il quale tira fuori due chiavi, una d’oro e l’altra d’argento, aprendo la porta prima con la seconda e poi con la prima, precisando che, se una delle due non funziona la porta non si apre, e che una delle due è più preziosa, ma l’altra difficile da usare, poiché richiede particolare ingegno per esser fatta funzionare, ed è lei che sblocca il congegno della porta. Pietro stesso gliele ha consegnate, suggerendogli di esser comunque più disposto ad aprire la porta che a tenerla chiusa, purché le anime si prostrino ai suoi piedi. Infine apre l’uscio e fa un’ultima raccomandazione: che non si guardino alle spalle, una volta entrati. All’apertura si ode un suono, verso il quale l'agens tende l’orecchio, e gli pare di intendere l’inno ambrosiano in ringraziamento e lode di Dio intitolato Te Deum laudamus. L’ingresso in purgatorio è quindi sottolineato da una musica, che Dante dice simile a quella di un canto accompagnato da organo. Veniamo ora ai significati simbolici di cui Dante riempie profusamente il testo. Il primo  gradino rappresenta la contritio cordis, la contrizione che rende la coscienza netta e limpida, disposta alla confessione; il secondo la confessio oris, l’esteriorizzazione attraverso le parole del processo interiormente avvenuto: un’operazione che procura dolore, che evoca il nero del sangue venoso; il terzo la satisfactio operis, che coincide con la penitenza, alla quale si procede come ultimo pegno da pagare per l’avvenuto pentimento, del rosso del sangue vivo che zampilla nelle arterie. L’abito dell’angelo guardiano è color cenere,  evoca l’umiltà, essenziale in un processo di pentimento; la porta del purgatorio sembra fatta di diamante, evocativo della solidità ed inalterabilità dei progetti di Dio sull’uomo, senza  i quali quest’ultimo non potrebbe nulla. Le chiavi con le quali si apre la porta alludono alla doppia prerogativa che la Chiesa conferisce ai confessori: la potestas ligandi atque solvendi, ossia la facoltà discrezionale di assolvere dai peccati, è assegnata a quella d’oro, più preziosa; invece  la scientia discernendi, la dottrina e l’intelligenza psicologica necessarie al confessore per sciogliere i drammi della coscienza dei penitenti e riconoscere il vero pentimento, risalgono a quella d’argento, essenziale perché la porta si apra. Infine il monito dell’angelo a non voltarsi indietro è evocativo di due luoghi testuali, l’uno pagano e l’altro cristiano. Il primo è l’episodio, riportato anche da Virgilio nelle Georgiche, di Orfeo ed Euridice, l’altro è la biblica vicenda della moglie di Lot trasformata in una statua di sale per essersi voltata a vedere cosa stesse succedendo alle città di Sodoma e Gomorra dalle quali erano appena stati lasciati fuggire prima della punizione divina. Il senso è scoperto: una volta intrapresa la strada della salvezza, sarebbe peccato  mortale lasciarsi nuovamente tentare.

***

Tra il IX e il XVIII canto, accomunati dal tema del sogno, accadono molti eventi, di cui offro una minima campionatura. Subito dopo l’ingresso nel purgatorio vero e proprio, l’agens deve abituarsi a una sorta di nuovo linguaggio metafisico: Dio si manifesta attraverso sculture viventi (il canto X, dedicato alla cornice dei superbi, scolpita con arte così sopraffina che non pur Policleto, ma la natura lì avrebbe scorno, si legge ai versi 32-33), voci nell’aria che lanciano ammonimenti (canto XIII, seconda cornice che ospita gli invidiosi), ma prevede anche forme di espiazione che rammentano quelle infernali, sempre traducibili secondo il contrappasso (i superbi sono schiacciati a terra da enormi massi, gli invidiosi hanno le palpebre cucite, mentre nel canto XV, nella terza cornice destinata agli iracondi, si soffoca nei fumi dell’ira, e nel canto XVIII, cornice degli accidiosi, questi ultimi sono costretti a correre senza fermarsi mai, spronati come mai riuscirono a essere nella vita alla ricerca del bene. Il tema del sogno viene introdotto, per simmetria pure sempre connessa al simbolismo triadico, ancor più pregnante nella sua versione al quadrato che qui si manifesta, proprio alla fine del XVIII, ma il sogno vero e proprio è al principio del XIX che si manifesta e viene poeticamente dipinto.

Mancano ancora tre cornici all’approdo in paradiso terrestre (quelle degli avari, dei golosi e dei lussuriosi, gli ultimi e minori vizi capitali con cui era invece iniziata la discesa nei gironi infernali), e siamo alla seconda necessità di dormire (e sognare) per Dante.

Ne l’ora che non può ’l calor dïurno

intepidar più ’l freddo de la luna,

vinto da terra, e talor da Saturno

- quando i geomanti lor Maggior Fortuna

veggiono in orïente, innanzi a l’alba,

surger per via che poco le sta bruna -,

mi venne in sogno una femmina balba,

ne li occhi guercia, e sovra i piè distorta,

con le man monche, e di colore scialba.

Io la mirava; e come ’l sol conforta

le fredde membra che la notte aggrava,

così lo sguardo mio le facea scorta

la lingua, e poscia tutta la drizzava

in poco d’ora, e lo smarrito volto,

com’amor vuol, così le colorava.

Poi ch’ell’avea ’l parlar così disciolto,

cominciava a cantar sì, che con pena

da lei avrei mio intento rivolto.

"Io son", cantava, "io son dolce serena,

che ’ marinari in mezzo mar dismago;

tanto son di piacere a sentir piena!

Io volsi Ulisse del suo cammin vago

al canto mio; e qual meco s’ausa,

rado sen parte; sì tutto l’appago!".

Ancor non era sua bocca richiusa,

quand’una donna apparve santa e presta

lunghesso me per far colei confusa.

"O Virgilio, Virgilio, chi è questa?",

fieramente dicea; ed el venìa

con li occhi fitti pur in quella onesta.

L’altra prendea, e dinanzi l’apria

fendendo i drappi, e mostravami ’l ventre;

quel mi svegliò col puzzo che n’uscia.

Io mossi li occhi, e ’l buon maestro: "Almen tre

voci t’ ho messe!", dicea, "Surgi e vieni;

troviam l’aperta per la qual tu entre".

 

Il sogno questa volta ha le parvenze dell’incubo, tanto, per così dire, nella trama, quanto nei dettagli. L’auctor si premura di precisare che si tratta comunque di un sogno profetico, in quanto avviene pur sempre nell’ora canonicamente destinata a simili visioni. Appare all’agens una donna balbuziente, con gli occhi storti, gli arti inferiori deformi e così pure quelli superiori, nonché pallidissima. Una creatura che suscita repulsione, e che l’agens prende a mirare:  sotto il suo sguardo lei si trasforma, inizia a cantare con voce di sirena, ovvero in grado di irretire pericolosamente, forse mortalmente insegna l’antica esperienza ulissica,  chi ascolta (con pena da lei avrei mio intento rivolto, ricorda il poeta). E proprio al canto udito dall’eroe omerico fa riferimento il suo, che conclude con una nota al contempo allettante e minacciosa: e qual meco s’ausa, rado sen parte; sì tutto l’appago!, che corrisponde  alla promessa di un piacere infinito. Per confondere una simile sirena, non bastan le forze (nemmeno quelle oniriche) di Dante: appare allora velocemente (presta)  una donna santa che, dopo aver chiesto conto a Virgilio della presenza molesta, lo induce a  accostarlesi, strapparle le vesti e mostrare a Dante il suo ventre, da cui promana un fetore disgustoso che ne promuove il  risveglio. Il maestro sostiene di aver chiamato ben tre volte l’agens, prima di riuscire a smuoverlo dal sonno, e solo dopo aver proceduto un po’ nel cammino mostra anche in questa occasione di essere perfettamente al corrente del sogno patito dal suo discepolo: la sirena incantatrice  è da lui definita laconicamente quell’antica strega che sola sovr’a noi omai si piagne, con riferimento al fatto che il suo potere si manifesti ormai solo sui tre peccati che rimangono da espiare nelle cornici superiori del purgatorio. L’unica ulteriore considerazione riguarda  come l’uom da lei si slega, ovvero come possano le persone affrancarsi dalla sua malìa, con riferimento alla necessità di ricorrere alla ragione (Virgilio) per vedere la realtà, ovvero il ventre putrido dell’ammaliatrice. In questo sogno che è un incubo, si possono notare, oltre a ovvi simbolismi (la natura attraente dei beni ma la loro sostanziale inanità e caducità), alcune raffinatezze compositive, legate anche solo alla rappresentazione. Contrariamente alle aspettative, quella  che canta io son dolce serena, pur mutando sotto lo sguardo mirante dell’agens, è inizialmente un essere ributtante, dalla natura contorta o rovesciata (nel senso di impedita nella comunicazione e nel movimento). In quanto chiamata, a livello simbolico e in base alla  breve spiegazione virgiliana, a rappresentare la seduzione dei beni terreni rivela, con l’ausilio del linguaggio onirico qui adottato,  che tali beni non sono mai essenzialmente tali, ma lo diventano per via di una mistificazione promossa dagli stessi soggetti predisposti all’inganno da un annullamento della facoltà raziocinante. Una  volta di più una rappresentazione di quello che produce il sonno (non sogno) della ragionemostri che qualcuno deve pur avere il coraggio di rivelare, consapevole del fatto che la sola rivelazione è sufficiente a sbaragliargli.

***

I nove canti che separano dall’ultimo sogno, pongono quindi ancora di fronte a forme di espiazione non necessariamente minori come sono minori i peccati trattati.  Gli avari (e i prodighi) devono mantenere una posizione prona che li lega alla terra senza potersi alzare: tra loro si trova il poeta latino del I secolo d. C. Stazio, che porta a compimento la sua espiazione proprio alla fine del XX canto. Da notare che    l’evento è segnalato da un forte terremoto,  da cui Dante è molto spaventato:  da quel momento, poi,  Stazio accompagna i due viaggiatori, fino all'ascesa al paradiso terrestre. I golosi, nella penultima cornice dei canti XXII, XXIII e XXIV, sono ridotti a scheletri ambulanti (Parean l’occhiaie anella sanza gemme: chi nel viso de li uomini legge ’omo’ ben avria quivi conosciuta l'emme), mentre i lussuriosi (ultima cornice, canti XXV e XXVI) sono avvolti da fiamme. Queste ultime, peraltro, rappresentano  una sorta di unica e ultima prova per l’agens prima di ottenere la ricompensa dell’arrivo al paradiso terrestre e, soprattutto, all’incontro con Beatrice. Nel XXVII canto, infatti, oltre a essere presente l’ultima visione della triade onirica di cui ci stiamo occupando, avviene anche un passaggio attraverso al fuoco che non uccide ma purifica. A fornire la spiegazione in  merito è Virgilio, che deve però ricorrere, per vincere le resistenze alla prova da parte di Dante, a un altro allettamento:

"Figliuol mio,
qui può esser tormento, ma non morte.

21


Ricorditi, ricorditi! E se io
sovresso Gerïon ti guidai salvo,
che farò ora presso più a Dio?

24


Credi per certo che se dentro a l’alvo
di questa fiamma stessi ben mille anni,
non ti potrebbe far d’un capel calvo.

27


E se tu forse credi ch’io t’inganni,
fatti ver’ lei, e fatti far credenza
con le tue mani al lembo d’i tuoi panni.

30


Pon giù omai, pon giù ogne temenza;
volgiti in qua e vieni: entra sicuro!".
E io pur fermo e contra coscïenza.

33


Quando mi vide star pur fermo e duro,
turbato un poco disse: "Or vedi, figlio:
tra Bëatrice e te è questo muro".

 Superato il cimento, ovvero sperimentato un calore che suggerisce all’agens  di gettarsi  in un bogliente vetro pur di rinfrescarsi, tant’era ivi l’incendio sanza metro, i tre pellegrini si trovano a percorrere una scala, sui gradini della quale si preparano a riposarsi per una nuova notte. E questo predispone all’ultimo sogno l’unico tra loro che abbia, davvero, bisogno di dormire.

 

Ne l’ora, credo, che de l’orïente

prima raggiò nel monte Citerea,

che di foco d’amor par sempre ardente,

giovane e bella in sogno mi parea

donna vedere andar per una landa

cogliendo fiori; e cantando dicea:

"Sappia qualunque il mio nome dimanda

ch’i’ mi son Lia, e vo movendo intorno

le belle mani a farmi una ghirlanda.

Per piacermi a lo specchio, qui m’addorno;

ma mia suora Rachel mai non si smaga

dal suo miraglio, e siede tutto giorno.

Ell’è d’i suoi belli occhi veder vaga

com’io de l’addornarmi con le mani;

lei lo vedere, e me l’ovrare appaga".

E già per li splendori antelucani,

che tanto a’ pellegrin surgon più grati,

quanto, tornando, albergan men lontani,

le tenebre fuggian da tutti lati,

e ’l sonno mio con esse; ond’io leva’ mi,

veggendo i gran maestri già levati.

Ad accomunare i sogni, ormai possiamo affermarlo, sono sicuramente le presenze femminili. Da Lucia/aquila alla femmina balba/sirena/strega a Lia (e Rachele sullo sfondo) di quest’ultimo, non possiamo trovare altri elementi di affinità che non siano questo, ma è comunque significativo segnalarlo, visto che tutti e tre possono poi essere fatti culminare con la quarta donna, la più attesa se non quella per cui l’intero canto della Divina commedia dichiara di essere potuto esistere, di aver visto (giocando un po’ con le parole e i significati) la luce. Ma adesso mi soffermo sul terzo sogno. L’ora è pur sempre l’alba, dato che Venere (qui evocata come Citerea, dall’isola ionica di Citere di cui era ritenuta regina) sta sorgendo in purgatorio dove anticipa di poco il sorgere del sole, e il sogno è quindi sicuramente veritiero e presago. Protagonista è Lia, figlia maggiore di Labano e prima moglie di suo cugino Giacobbe, col quale avrà sei figli (da cui discendono le tribù d’Israele) e una figlia. Lia è descritta nel Vecchio Testamento come una  donna non particolarmente avvenente ma appunto feconda, a differenza della sorella Rachele, seconda moglie di Giacobbe, bella ma, almeno fino alla nascita di Giuseppe, seguito poi anche da Beniamino, sterile. Nella tradizione esegetica, che Dante riprende con le sue immagini poetiche,  Lia è associata alla vita attiva (coglie fiori e intreccia ghirlande) mentre Rachele a quella contemplativa (si guarda allo specchio). Nessuna spiegazione supplementare conforta questo sogno, dato che il resto del canto è occupato da un evento deflagrante per l’agens, al quale tra poco dedicherò anche la mia attenzione, sicché è necessario esercitare un po’ di attività critica per dar luogo a qualche approfondimento interessante. Possibile, come hanno scritto nel Novecento critici stilistici della Divina commedia, che Dante abbia voluto qui proporre un elegantissimo esercizio di stilnovismo, superando persino se stesso, se possibile, in tale stilizzazione. Di là da questo, però, si può pensare a che cosa volesse esprimere con il riferimento a due maniere tanto opposte, eppur complementari, di vivere la vita in grazia di Dio. Ad esempio, una doppia aspirazione che lui stesso percepiva, contraddittoriamente, in sé stesso, consapevole che la loro compresenza rappresenti un ostacolo esistenziale. I contemplativi, in particolare, possono rischiare di dover giustificare di fronte agli altri la propria inclinazione a assegnare un maggior valore alle preghiere e al contatto diretto con la divinità rispetto al ben operare nella vita quotidiana e a vantaggio diretto degli altri. Irresolubile, se trasposta all’esistenza terrena, la questione di una conciliazione fra le due propensioni, mentre nella perfezione della civitas Dei (ecco ciò di cui è presago il sogno) vita attiva e vita contemplativa riescono davvero e manifestarsi nella loro complementarietà. Come già visto nel caso di Giustiniano che parla nel VI canto del Paradiso in nome di tutti gli spiriti attivi, occorrono doti sia nell’una sia nell’altra dimensione per poter essere e agire vantaggiosamente per sé e per gli altri nel mondo e, successivamente, meritarsi la permanenza eterna nella città di Dio. Dunque il sogno di Lia e Rachele può essere considerato come un presagio di quel paradiso al quale ormai l’agens si sta sicuramente dirigendo.

E ora, per concludere, quello che ho denominato evento deflagrante. Alludo al congedo di Virgilio, definitivo e eterno, quant’altri mai si possa immaginare nei territori sconfinati dell’invenzione poetica. 

Come la scala tutta sotto noi

fu corsa e fummo in su ’l grado superno,

in me ficcò Virgilio li occhi suoi,

e disse: "Il temporal foco e l’etterno

veduto hai, figlio; e se’ venuto in parte

dov’io per me più oltre non discerno.

Tratto t’ ho qui con ingegno e con arte;

lo tuo piacere omai prendi per duce;

fuor se’ de l’erte vie, fuor se’ de l’arte.

Vedi lo sol che ’n fronte ti riluce;

vedi l’erbette, i fiori e li arbuscelli

che qui la terra sol da sé produce.

Mentre che vegnan lieti li occhi belli

che, lagrimando, a te venir mi fenno,

seder ti puoi e puoi andar tra elli.

Non aspettar mio dir più né mio cenno;

libero, dritto e sano è tuo arbitrio,

e fallo fora non fare a suo senno:

per ch’io te sovra te corono e mitrio".

Parafraso, ma non secondo le regole di scuola, per cui questa, volendo, è una parafrasi non parafrasi, il mio genere preferito. Finito di percorrere la scala, così lunga da rendere necessario  ai tre (a un di sicuro) di dormire un poco, scegliendosi ciascuno un gradino (su cui l’agens è pure riuscito a sognare), proprio arrivato all’ultimo gradino Virgilio ficca gli occhi in quelli dell’agens, les yeux dans les yeux come due amanti rigorosamente parigini seduti in un bistrot, e inizia a parlare. Il tempo di vedere la luce (l’eden, Beatrice) è arrivato e non c’è tempo da perdere: cinque terzine possono bastare a racchiudere, una volta di più e una volta per sempre, tutto. Dobbiamo predisporci (l’avevo detto che non era una parafrasi canonica) a questo tipo peculiare di aleph. Una specie sentimentale di aleph, uno in cui appunto sono soprattutto tanti sentimenti a rapprendersi in un unico punto. Provo ad andare per ordine. Virgilio evoca i due fuochi che ha condotto il suo discepolo a vedere: l’ordine, come spesso accade, è rovesciato, e un’anastrofe avverte che prima s’incontra l’eterno, il fuoco infernale, poi il temporal, quello purgatoriale, che dura solo fino al giudizio universale. Poi dichiara la sua (di Virgilio) sopraggiunta ultima soglia: la parte a cui è arrivato il suo discepolo non si addice invece al maestro, che oltre non discerne. D’altronde, è pur vero che i maestri migliori sono quelli che si fanno superare dagli allievi, anche (ma non solo) grazie a quello che hanno saputo insegnare loro. In questa prima parte del discorso, nell’aleph sentimentale di cui dicevo, si fondono e confondono aspettative, coronamenti delle medesime, fiducia, rispetto, nonché l’affetto affidato a quel vocativo figlio, che ricorre in questo canto tre volte. Se ci sono voluti, prosegue il poeta latino, ingegno arte, ossia intelligenza e capacità pratiche, per arrivare fino a questo punto, ora il magistero passa a Dante medesimo, e il nuovo maestro, il duce, il dittatore (riprendendo un’allegoria che risale addirittura alla Vita nuova) è lo tuo piacere. da intendersi come quella naturale inclinazione al bene che a questo punto è libera di manifestarsi perché il percorso di purificazione è completo. Mentre gli indica il paesaggio edenico, un locus amoenus di fiori e erbette inondati dal sole, invitandolo a entrarvi, in attesa dell’arrivo degli occhi belli che piangendo lo hanno fatto accorrere, sei giorni prima, alla salvezza di Dante, gli annuncia (senza essere subito inteso, come vedremo) la sua prossima scomparsa per sempre dalla vita del discepolo. Momento fatale, momento deflagrante, ma è un’esplosione ritardata, perché per dare luogo alla  solennità occorre che ci sia soprattutto un grande silenzio ad accogliere le uniche parole che vale la pena udire: libero, dritto e sano è tuo arbitrio, e fallo fora non fare a suo senno. E  poi,  te sovra te corono e mitrio. L’impegno del maestro è stato questo: rendere l’arbitrio libero e sano e posare sul capo del discepolo una corona doppia, temporale e sacerdotale, favorendo addirittura la ricongiunzione dei poteri cosiddetti assoluti. Avendo assolto un compito così, è chiaro che non ci sia più niente da fare. Il sentimento dominante è la riconoscenza, che qui viene lasciata manifestarsi nella sua purezza, senza l’inquinamento che potrebbe produrle ad esempio la pena dell’abbandono. Il quale ultimo ha pure modo di manifestarsi, ma al di fuori dello spazio sacrale venuto a crearsi qui. Solo al verso 43 del XXX canto, quando a fronte dell’apparire di Beatrice, Dante sente i morsi dell’antica fiamma e come un fantolin cerca il conforto del genitore, erompe l’atteso grido di dolore per il distacco: Ma Virgilio n’avea lasciati scemi di sé, Virgilio dolcissimo patre, Virgilio a cui per mia salute die’ mi; né quantunque perdeo l’antica matre, valse a le guance nette di rugiada che, lagrimando, non tornasser atre. L'iterazione del nome, usato pochissimo prima, per ben tre volte, vale a sillabare il dolore. Nemmeno essere in paradiso, paradiso terrestre, e nemmeno avere finalmente vicino (a pochi passi) Beatrice, impedisce a Dante di prorompere in un pianto di lacrime scure (atre). Ma l’intensa commozione, nemmeno questa volta è destinata a durare molto. L’ultimo colpo di scena con il quale concludo questa carrellata attraverso il purgatorio consiste nella visione di Beatrice come ammiraglio che in poppa e in prora viene a veder la gente che ministra per li altri legni, e a ben far l’incora. Una visione militare, gerarchica,  che predispone a un interrogatorio in piena regola di quello che era stato appena incoronato signore di sé, il quale  viene aspramente redarguito e svergognato di fronte a una quantità di soggetti (potenze angeliche, saggi dell’Antico Testamento) prima di poter, alla fine, bere l’acqua dell’Eunoé, la mitica fonte della dimenticanza (secondo i pagani, della vita precedente) per poter diventare  puro e disposto a salire a le stelle.

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DI HYBRIS, DI MORTE SECUNDA E D’IMPOSSIBILE OBLIO

(dal II e  XXVI dell’Inferno al XV, XVI, XVII del Paradiso)

Non si può evitare di fare i conti con l’hybris. Di certo è una delle forze più dirompenti che agiscano sulla scena del mito, il quale si è cimentato variamente nel creare situazioni in cui  semidei e  esseri umani, caratterizzati da orgoglio delle proprie  origini,  presunzione delle proprie ineguagliabili prerogative, tracotanza negli atti inimitabili, si trovassero a cimentarsi con lei e per lei. Tutti invasati dall'hybris come fosse un  furor creatore,  tutti eternati per via di questo furor, che li sprona a ribellarsi all'ordine costituito, quello divino principalmente (dato che l'umano ne è solo cattiva imitazione) e incuranti delle inevitabili conseguenze. Prometeo, per cominciare. Colui che pensa primanomen est omen (il nome contiene in sé un presagio), decide che gli dei non devono tenere per sé uno strumento utile come il fuoco. Lo ruba e lo regala alle sue creature, gli esseri umani che ha plasmato per ordine di Zeus. Creatura complessa, Prometeo, ambigua creazione mitica, nella quale ben si condensa lo spirito originario dell'hybris. Che è soprattutto rivolta, e poi anche affermazione orgogliosa di alternative possibili a quelle stabilite. Prometeo si rivolta al disegno di eliminazione del genere umano e lo protegge. Il fuoco deve essergli concesso. Il dono però gli costa carissimo: Zeus lo condanna per l'eternità (alla rupe e al Tartaro), mentre a lui resta il nobile marchio di trickster e un'intera progenie di imitatori, gli spiriti prometeici di ogni tempo. Peggior sorte tocca ad altri pervasi dal soffio dell'hybris. Dipende sempre da chi li elegge protagonisti di proprie storie. Se è un tragico del V secolo a. C, dopo Eschilo,  Sofocle per esempio, allora la sua hybris è ancora diversa. Si declina anch'essa in forma altruistica (Edipo, perché è di lui che stiamo parlando, libera i Tebani dalla mostruosa Sfinge), ma poi prende una piega per così dire personale: Edipo vuole evitare il proprio destino, il cerchio di ferro del fato, di fronte al quale persino gli dei devono arretrare d'un passo. E così, nel tentativo di riscrivere di suo pugno la propria storia, nonché in quello, analogamente ribelle, di conoscere se stesso come avrebbe potuto essere se non fosse stato come invece è, si perde del tutto. L'accecamento fatale è quello che gli dei hanno predisposto in ossequio ai disegni del destino. Non sia mai, uomo, che tu gli sfugga. L'elenco delle vittime di hybris è lungo, e non è l'argomento di oggi. Perché Dante Alighieri, con e nella sua Divina commedia ha sfidato l'hybris. La faccenda è spinosa, lo capisco. Aiuta il fatto di poter usare due lingue, per quanto imparentate, che generano sottili distinzioni. Il Dante che conosciamo meglio noi, l'auctor/agens che ha passeggiato nell'inferno, su poltiglie e sabbioni arroventati, ha cavalcato il mostro Gerione, è volato chissà come fino alla porta del purgatorio e infine  attraverso le sfere rotanti è approdato all'empireo nel gran mare dell'essere, quel Dante avventuroso e sommo è un Ulisse redivivo, ma soprattutto un Ulisse che non può naufragare, perché colui dal quale dipende la sanzione per qualsiasi hybris sta dalla sua parte. Ecco perché Dante può permettersi di sfidare l'hybris, di compartecipare di due nature, per così dire, quella dell'Auctor-Dio-che sfida se stesso e quella dell’umano che, quando si comporta presuntuosamente, cade nel pozzo profondo, nel gorgo fatale e rischia di non tornare mai più su. L’agens è umano,  e quando l’hybris lo possiede, si guarda allo specchio e vede la faccia di Ulisse, al quale dedica non per nulla un intero canto, dove allora torniamo anche noi  per ricordare un folle volo, nel corso del quale l’hybris ha realizzato fino in fondo il suo compito omicida, di sollevare in alto qualcuno e di farlo poi sprofondare per sempre, nell’oscurità della morte secunda.

Il canto XXVI dell’Inferno succede a quello delle metamorfosi sublimi dei ladri, in cui Dante gareggia arditamente (variante minore di hybris rivaleggiare con un sommo poeta precedente) con Ovidio.  Il luogo è la bolgia dei fraudolenti, ottava dell’VIII cerchio, consiglieri che mirano a ingannare, distorcendo la nobile funzione dell’intelletto deputata a elargire consigli, in una  direzione maligna e malevola. Il meccanismo della distorsione dei doni divini sembra essere uno di quelli prevalenti nell’edificio concettuale che presiede all’ordine infernale. Il canto ha inizio con una violenta invettiva contro Firenze, che determina ramificate intertestualità, di cui elenco le più appariscenti:  in direzione del VI canto della medesima cantica, con il fiorentino Ciacco che delinea laconico la terribile condizione morale della città; del X con le recriminazioni di Farinata sul comportamento dei fiorentini nei confronti della sua famiglia; e in direzione del Paradiso fino ai canti centrali dedicati all’investitura poetica di Cacciaguida. Il paesaggio è quello al solito smisurato dell’incredibile pozzo infernale: dal basso l’agens vede salire delle fiamme, che da principio danno luogo a una similitudine persino piacevole: l’effetto è quello di una campagna smisurata che si riempie di lucciole sotto lo sguardo stupito del contadino. Queste lucciole, però sono in realtà fiamme, nelle quali ardono per l’eternità, nascoste appunto in esse, anime che hanno praticato quest’arte dell’occultamento, la fraudolenza, a danno di altri. Fra tutte una attira l’attenzione dell’agens¸ per una peculiarità: è biforcuta, si divide in due, sembra contenere non una ma due anime. Viene subito confermato da Virgilio che così è, e che si tratta di Ulisse e Diomede. Nessuno più adatto di lui, che ne scrisse, per riconoscerli in quella bolgia in cui tutto concorrerebbe a impedire la vista. Tralascio altri dettagli, per arrivare al punto che mi interessa: la fiamma biforcuta, a un richiamo di Virgilio (che tiene a essere il tramite del contatto, sottolineando il fatto di rivolgersi loro in veste di poeta), si avvicina e parla: uno solo dei due corni della fiamma, come li definisce l’auctor,  ossia appunto Ulisse, risponde e inizia a raccontare una storia memorabile, una storia che non era stata ancora scritta da nessuno su di lui, personaggio sul quale avevano esercitato la propria fantasia così tanti poeti. La storia di Ulisse è un non detto ancora che trova finalmente il luogo deputato per prendere la via dell’aria e della memoria: non era ancora stato detto da nessuno che Ulisse, a Itaca, non era tornato per sempre, ma solo per un po’. Il non detto che ora si fa strada grazie all’autore della Divina commedia, tessitore di sogni quant’altri mai, è quello di un viaggiatore inappagato che non può permettersi di stare quieto davanti a un focolare, lasciandosi incanutire. Perciò a un certo punto riparte. Con un manipolo di compagni, quelli che sono rimasti, e parte per una nuova avventura. Anzi, parte per l’Avventura, quella per la quale vale la pena esistere: superare i confini, varcare il limes del noto per incedere nell’ignoto. Il viaggio dell’Ulisse di Dante, il protagonista della storia inaudita, vuole compiersi oltre le colonne d’Ercole e, ecco l’hybris che si manifesta, mostrare quello che gli dei hanno stabilito che gli esseri umani non possano conoscere mai. Il momento del superamento del limes è segnato dal celebre discorso, l’orazion picciola  con l’ancor più  celebre terzina che suona Considerate la vostra semenza, fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza, che convince i compagni vecchi e tardi di Ulisse a seguirlo in quest’ultimo azzardo, non a caso definito da lui stesso un folle volo, conducendo la rotta della nave nel grande mare mai solcato da alcuno. Virgilio gli aveva chiesto di dire dove fosse morto, e Ulisse onora la domanda, con un sobrio eppur patetico resoconto di ciò che avviene una volta che, superate le colonne d’Ercole e viaggiato ancora un poco, avvistano un luogo che non dovevano vedere, l’isola del purgatorio, un luogo metafisico, un altro luogo, la cui vista genera gioia,  Noi ci allegrammo, recita il testo, pronta a convertirsi in pianto: un turbine travolge la nave, che sprofonda in un gorgo con la poppa verso il basso, andando a precipitare, immaginiamo, direttamente all’inferno.
Da questo gorgo promana nuovo non detto: non parla più Ulisse, tanto meno  Diomede, né viene spiegato quale sia stato il peccato (sulla fraudolenza solo il fugace accenno all’inganno del cavallo), ma lui riceve la punizione delle punizioni, sembra di capire, per il fatto di aver voluto superare un confine stabilito: vedere la dimensione metafisica senza permesso, prima di essere morti, è una violazione che merita la morte secunda. L’hybris, si è detto,  non risparmia nessuno.

Ora che abbiamo lasciato spalancare sotto di noi l’abisso fatale che accoglie l’imbarcazione di Ulisse e compagni, affrontiamo la spinosa questione che Dante lascia tra le righe, ed è appunto il non detto che stiamo seguendo ora. Chi è l’Ulisse che parla dalle terzine di questo canto XXVI? Rispondo senza esitazione: è un altro nome di Dante, è Dante medesimo. C’è un’altra intertestualità che aiuta ad arrivare a questa risposta: la parola folle che risuonava nel  II canto, verso 35, temo che la venuta non sia folle¸ quando Dante esprime a Virgilio apparso per convincerlo a farsi guidare da lui in una parte dell’aldilà, i suoi dubbi sulla liceità di questo viaggio. Ebbene, Ulisse è il folle, trasponendo direttamente a lui l’aggettivo, che ha compiuto l’azzardo, la sfida, nei confronti del divino. Dante non a caso in questo canto tace quasi sempre, ascolta per lo più la voce di un suo alter ego che non ebbe la sorte sua: quella di ottenere autorizzazione, imprimatur, giustificazione, avallo, da parte di un ente superiore, Dio che gli ha parlato e l’ha soccorso attraverso Beatrice nella selva oscura. Il non detto, che a questo punto inizia a rendersi udibile, è il viaggio stesso, come si sta compiendo attraverso la lettura, e come si è già compiuto nella memoria di Dante, l’Autore, che poi è anche l’inventore della storia di Ulisse che ora stiamo decifrando. Detto e non detto, nell’ottica di colui che si è inventato tutto.

 Il secondo filo che stiamo tenendo in mano è però anche quello della sfida all’hybris intentata da Dante. Se l’agens è persuaso di essere aiutato da Virgilio in inferno e purgatorio, come lo sarà da Beatrice e poi infine da Bernardo in paradiso, l’auctor che sta scrivendo di tutto questo, del sogno o visione che qualcuno (Qualcuno) gli ha (spera) concesso, fatica a lungo a convincersi di non star commettendo un atto punibile con la morte secunda. Un ancestrale timore di un deus absconditus che a un certo punto interviene a folgorare il tracotante aleggia persino nell’empireo, dove ora ci spostiamo. Proprio al centro della cantica Paradiso si colloca la cosiddetta triade di Cacciaguida. Sono i canti XV, XVI e XVII, nei quali Dante decide di togliersi una volta per tutte il dubbio che pur sempre lo attanaglia, fin dai primi passi in inferno dopo l’apparizione pur salvifica del fioco maestro Virgilio.

 

DAL XV AL XVII

 Il canto XV si apre con una similitudine musicale, poiché il cielo di Marte, al quale Beatrice e Dante sono ascesi nel XIV, è particolarmente caratterizzato in questo senso. Marte nel Convivio è associato alla musica anche perché, essendo lo mezzo di tutti i cieli mobili, la sua perfetta centralità significa proporzione perfetta delle parti tra loro e col tutto, perfetta armonia.

Benigna volontade in che si liqua

sempre l’amor che drittamente spira,

come cupidità fa ne la iniqua, 3

silenzio puose a quella dolce lira,

e fece quïetar le sante corde

che la destra del cielo allenta e tira. 6

Come saranno a’ giusti preghi sorde

quelle sustanze che, per darmi voglia

ch’io le pregassi, a tacer fur concorde? 9

 

Vi si legge che la volontà di fare il bene, in cui si manifesta sempre l’amore che è ispirato a Dio, come la cupidigia dei beni terreni si risolve in male, fece tacere quell’accordo di voci che la mano di Dio armonizza. Come potrebbero essere sorde alle giuste preghiere quelle anime che, per indurmi a domandare, furono unanimi nel tacere? Merita l’inferno, conclude la riflessione l’auctor, chi per amore delle cose terrene si priva dell’Amore di Dio che informa così di sé il paradiso. Si apre quindi una similitudine con le cosiddette stelle cadenti, che attraversano d’un lampo il cielo estivo, paragonate al movimento d’una luce al quale ora assiste l’agens: è un’anima di quelle disposte a formare la croce (di cui ci ha detto  nel canto precedente) che si muove lungo gli assi (da destra al centro e da lì verso il basso), suscitando la stessa percezione visiva di una fiamma dietro a una lastra di alabastro (la similitudine di cui sopra si raddoppia).

«O sanguis meus, o superinfusa gratïa Deï,

 sicut tibi cui bis unquam celi ianüa reclusa?». 30

Viene evocato così il personaggio di Anchise, sollecito a venire incontro al figlio Enea nei campi Elisi (vv. 25-27): la fugace citazione virgiliana, in lingua originale,  svolge evidentemente la funzione di preparare al clima di un incontro di Dante con la propria ascendenza, complice tra l’altro proprio colui che, per le due cantiche precedenti, ha svolto una funzione paterna nei suoi riguardi “O sangue mio, in cui la grazia divina è copiosamente infusa, a chi mai come a te è stata dischiusa due volte la porta del cielo?” L’anima dice cose talmente profonde ed esoteriche che l’agens non le comprende: non si tratta di una scelta di chi sta parlando, ma di un effetto reso necessario dagli argomenti che superano la capacità di comprensione della mente umana. Le prime parole comprensibili dell’anima suonano come un inno di ringraziamento al signore trinitario. Dopo aver notato che Dante, convinto che l’anima legga in Dio e in lui, non gli domanda perché egli paia più gaudioso di altre anime di vederlo lì, conferma che tutte le anime in effetti contemplano lo specchio divino dove vedono qualsiasi pensiero prima ancora che sia del tutto concepito, ma esorta Dante a proferire la domanda a voce alta, a far risuonare nell’aria il suo desiderio di sapere. Dante, esprime all’anima (vivo topazio) il desiderio di conoscere il suo nome. L’incipit della risposta suona come una citazione di Matteo, III, Hic est filius meus dilectus in quo mihi complacui, intrecciata con una metafora arborea, da cui risulta che Dante sia la fronda di un albero (con sottintesa similitudine con l’albero genealogico) di cui l’anima che parla è la radice. Prima di dire il proprio nome (al verso 135), inizia una lunga digressione attraverso la quale dipinge vita e costumi di Firenze alla propria epoca, ovvero prima dell’incresciosa degenerazione che la rese quell’infernale città dove “giusti son due, e non vi sono intesi” (v. 73 del VI Inferno, parole di Ciacco alla domanda di Dante se sia rimasto qualche giusto nella Firenze del suo tempo). Inizia riferendosi al proprio figlio e bisavolo di Dante (lui, quindi, è un trisavolo), che è in purgatorio e per il quale l’agens può pregare. La Firenze pacifica, onesta, regolata secondo il campanile del borgo. Il poeta inanella ben 9 negazioni (le cosiddette comparationes per contrarium) attraverso le quali si può veder emergere appunto la negatività della Firenze contemporanea, dov’è vero tutto quello che non lo era nell’antica. Figure esemplari, frugalità e semplicità di costumi: Bellincion Berti, della famiglia dei Ravignani, era un ragguardevole personaggio della Firenze del Duecento, sobrio e costumato. Le donne della Firenze del Duecento erano contente di filare la lana, erano sicure di morire nella propria terra e di non essere lasciate sole dai mariti. In quella Firenze, non esistono donne corrotte come Cianghella, figlia di Arrigo della Tosa vissuta disonestamente e morta nel 1330, e uomini disonesti e faziosi come Lapo Salterello. Finalmente si presenta: venne battezzato come Cacciaguida nel battistero fiorentino, ebbe due fratelli, sposò una donna della valle padana da cui derivò il cognome della famiglia (nel senso che il cognome della moglie venne trasmesso come nome al primo figlio, Alighiero, e rimase poi come nome di famiglia). Nel 1147 seguì l’imperatore Corrado III di Svevia nella seconda crociata in Terrasanta (durata fino al 1149 e guidata da Corrado e da Luigi VII di Francia), dove morì. Cacciaguida è dunque il trisavolo, crociato, di Dante, vissuto quasi due secoli prima di lui. La sua condizione celeste è quella di trovarsi fra gli spiriti combattenti per la fede, e anche sotto questo profilo la scelta di assegnare a lui il compito di fugare per sempre il sospetto di hybris risulta espressione di un simbolismo non solo esteriore: occorre credere molto in Dio (e in se stessi) per portare a termine un progetto così grandioso come il poema che stiamo leggendo. Il momento fatale della triade di Cacciaguida si svolge interamente nel canto XVII, al quale dunque ora riservo una più puntuale analisi. Inizia con un omaggio a Ovidio, attraverso l’evocazione di un mito da lui trattato nel I libro delle Matamorfosi: la tragica storia di una paternità che culmina con l’esemplare punizione del figlio, condannato a morte, e non è certo un caso, per hybris. Protagonisti del dramma sono il Sole (Apollo) e  Fetonte, semidio, nel cui animo qualcuno (l’amico Epafo, durante un diverbio)  insinua il sospetto di non essere davvero figlio di Apollo. L’evento mitico fugacemente evocato predispone all’intendimento dello stato d’animo dell’agens che istituisce un’analogia fra le parole pungenti di Epafo all’amico Fetonte e le profezie post factum ascoltate in inferno. Vuole sapere se fossero vere. Niente di meglio di  un’analessi (ai versi 19-23), può riportare all’indietro fino al purgatorio e all’inferno, per rievocare le profezie post factum che hanno scosso l’agens, benché “tetragono” ossia cubico (termine aristotelico che designa la saldezza morale, giunto a Dante attraverso Tommaso d’Aquino) ai colpi della sorte.

19 Mentre ch’io era a Virgilio coniunto

su per lo monte che l’anime cura,

e descendendo nel mondo defunto,

 

22 ditte mi fuor di mia vita futura

parole gravi, avvegna ch’io mi senta

ben tetragono ai colpi di ventura.

 

25 per che la vollia mia seria contenta

d‘intender qual fortuna mi s’appressa:

chè saetta previsa vien più lenta.

 

28 Così diss’io a quella luce stessa,

che pria m’avea parlato; e, come volle

Beatrice, fu la mia vollia confessa.

 

31 Non per ambage, in che la gente folle

     Già s’invescava, pria che fusse anciso

     L’Agnel d’Iddio che le peccata tolle;

 

34 ma con chiare parole, e con preciso8

     latin rispuose quello amor paterno,

     chiuso e parvente nel suo chiaro riso:

 

 

In un soprassalto di spirito pratico, così la mette l’agens, tiene a conoscere il destino, dato che i colpi previsti vengono più lenti  nel senso che ci si può preparare a sostenerli (si tratta proprio di un detto proverbiale corrente in epoca medievale). Cacciaguida questa volta  non si perde in ambigue parole (la gente folle cui allude a un certo punto  sono i pagani che, prima della venuta di Cristo, si affidavano ai responsi tortuosi e ambigui della Sibilla Cumana; inviscarsi è verbo venatorio, che allude al cadere nella trappola del vischio, come gli uccelli). I versi 37 e seguenti rappresentano una sorta di preambolo dottrinale sui paradossi della predestinazione: evidente, nell’immagine della nave che scende per il torrente e non è condizionata, nel suo discendere verso il mare, da chi la guardi, un rimando intertestuale a Paradiso, III, 85-87 (quando Piccarda spiega che la loro volontà di beati è perfettamente in consonanza con la volontà divina, che è quel mare al qual tutto si move ciò ch’ella cria o che natura face). L’immagine poi è sinestetica: da Dio, che prima è un quaderno (vista), poi un  organo (inteso come strumento musicale, implicando quindi l’udito) arriva la musica del futuro di Dante. Dalla Fedra di Seneca e dal testo ovidiano proviene poi  l’evocazione dell’ingiusto esilio di Ippolito da Atene (noverca è sostantivo generato da novus). Nella terzina 49-51 torna il tema della chiesa corrotta, ovvero in particolare di Bonifacio VIII. Cacciaguida quindi procede con quella che possiamo considerare la profezia delle profezie[1], con la quale si compie l’investitura poetica di Dante e, una volta per tutte, l’hybris, o meglio, la sua inevitabile punizione, viene scongiurata.

 

37 La contingenzia, che fuor del quaderno

     de la vostra materia non si stende,

     tutta è dipinta nel cospetto eterno.

 

40 Necessità però quinde non prende,

     se non come dal viso in che si specchia

     nave, che per torrente giù discende.

 

43 Da indi, siccome viene ad orecchia

     dolce armonia d’organo, mi viene

     a vista ’l tempo che ti s’apparecchia.

 

46 Qual si partì Ipolito d’Atene

     per la spietata e perfida noverca;

     tal di Firenze partir ti convene.

 

49 Questo si vuole, e questo già si cerca,

     e tosto verrà fatto a chi ciò pensa

     Laddove Cristo tutto si commerca.

 

52 La colpa seguirà la parte offensa

     in grido, come suol; ma la vendetta

     fi’ testimonio al ver, che ella dispensa.

 

55 Tu lascerai ogni cosa diletta

     più caramente; e questo è quello strale,

     vhe l’arco de l’esilio pria saetta.

 

58 Tu proverai siccome sa di sale

     lo pane altrui, e com’è duro calle

     lo scender e salir per l’altrui scale.

 

61 E quel, che più ti graverà le spalle,

     serà la compagnia malvagia e scempia,

     co la qual caderai in questa valle,

 

64 che tutta ingrata, tutta matta et empia

     si farà contra te; ma poco appresso

     ella, non tu, n’ avrà rossa la tempia.

 

67 Di sua bestialità il suo processo

     farà la prova, sicch’a te fi’ bello

     averti fatto parte per te stesso.

 

70 Lo primo tuo refugio e ’l primo ostello

     serà la cortesia del gran Lombardo,

     che in su la Scala porta il santo uccello.

 

73 Ch’avrà in te sì benigno riguardo,

     che del fare e del chieder tra voi due

     pria sarà quel, che tra li altri è più tardo.

                                               [...]

94 Poi iunse: Fillio, queste son le chiose

     di quel che ti fu detto: ecco le insidie,

     che dentro a pochi giri sono ascose.

 

[...]

 

106 Ben veggio, padre mio, siccome sprona

     lo tempo verso me, per colpo darmi

     tal, ch’è più grave a chi più s’abbandona;

 

109 Però di providenzia è buon ch’io m’armi,

     sì che, se ’l loco m’è tolto più caro,

     io non perdesse li altri per mie carmi.

 

112 Giù per lo mondo senza fine amaro,

     e per lo monte, del cui bel cacume

     li occhi de la mia donna mi levaro,

 

115 e poscia per lo Ciel di lume in lume

     Ò io appreso quel che, s’io ridico,

     a molti fi’ sapor di forte agrume.

 

118 E s’io al vero sono intimo amico,

     Temo di perder viver tra coloro,

     che questo tempo chiameranno antico.

 

121 La luce, in che ridea lo mio tesoro,

     ch’io trovai lì, si fe prima corusca,

     quale a raggio del Sol lo specchio d’oro;

 

124 indi rispuose: coscienzia fusca

     o de la propria o de l’altrui vergogna,

     Pur sentirà la tua parola brusca.

 

127 Ma non di men, rimossa ogni menzogna,

     Tutta tua vision fa manifesta,

     E lassa pur grattar dov’è la rogna:

 

130 chè se la voce tua sarà molesta

     Nel primo gusto, vital notrimento

     Lasserà poi, quando sarà digesta.

 

133 Questo tuo grido farà come ’l vento,

     che ’n più alte torri più percuote;

     e ciò non fa d’onor poco argomento.

 

136 Però ti son mostrate in queste ruote,

     nel monte e nella valle dolorosa

     pur l’anime che son di fama note:

 

139 che l’animo di quel, ch’ode, non posa,

     nè ferma fede per esemplo, ch’àia

     la sua radice incognita et ascosa,

142 nè per altro argomento che non paia.

 

L’eloquio forbito di Cacciaguida filtra il tragico e l’amaro degli anni d’esilio che l’auctor sta vivendo: trova così spazio l’elogio di Cangrande Della Scala, splendido e munifico ospite, provvisto dell’arte rara di prevenire ogni richiesta e immaginarne in sovrappiù, e persino la compensazione di una crescita morale dell’esiliato che si trova a far parte per se stesso e a prendere le distanze da chi,  di sua bestialità [...] avrà rossa la tempia, ovvero tutti i fuoriusciti fiorentini. Infine, la richiesta che attendevamo per scongiurare l’hybris: ai versi 110-111, esplicita il timore di perdere, oltre al  loco [...] più caro, ossia Firenze, anche  li altri [luoghi] per miei carmi. Con altri si riferisce quindi a possibili ulteriori bandi, ma è soprattutto il timore di  perder viver tra coloro,  che questo tempo chiameranno antico a spingerlo a insistere con il trisavolo perché autorizzi tutte le sue rivelazioni. Si capisce, allora, quale possa essere la specifica forma di punizione prevista per l’hybris nel suo caso, quale insomma sia l’incubo  del Dante auctor che si sfida in quanto Dio della creazione: perder viver nel futuro, presso i posteri, essere dimenticato da noi che leggiamo, smettere di esistere davvero per sempre. Senza timore di commettere sacrilegio, sostengo che la morte secunda per un poeta è senz’altro l’oblio dei suoi versi. Per questo Cacciaguida deve ancora aggiungere qualcosa di definitivo, ovvero che questa poesia è addirittura un     grido, che  farà come ’l vento,     che ’n più alte torri più percuote;     e ciò non fa d’onor poco argomento. Solo con queste parole definitive, che equiparano la poesia al soffio divino, che unde vult spirat (ossia spira da dove vuole, come si legge sempre nel Vangelo di Giovanni) il poeta si sente finalmente pacificato con se stesso e, per chiudere il nostro cerchio, con quell’immagine allo specchio di Ulisse che sprofonda nel gorgo infernale. Quella di Dante auctor/agens, ora ne siamo sicuri anche noi, è un’allegrezza che non diventerà pianto, ma potrà  risuonare come un riso perfetto per tutto l’empireo, ovvero per sempre.

 

 

 



[1] Nell’ordine le profezie post factum sono le seguenti: 1) Inferno, X, FARINATA 2) Inferno, XV BRUNETTO 3) Inferno, XXIV VANNI FUCCI 4) Purgatorio, VIII CURRADO 5) Purgatorio, XII, ODERISI

__________________________________________________________________________

 ESAMI E PREGHIERE: DAGLI ULTIMI CANTI DEL PURGATORIO ALL’ULTIMO DEL PARADISO

Gli ultimi canti del Purgatorio dantesco, dal XXX al XXXIII, ospitano un incontro fatale, quello desiderato e presagito fin dalla Vita nuova, varie volte sfruttato da Virgilio per spronarlo ad andare avanti, a non avere paura, a non ricredersi sulle proprie forze e sull’opportunità del viaggio. L’incontro è quello con Beatrice, il cui nome  è stato una parola magica in grado di mettere le ali ai piedi dell’agens. Un incontro in quattro canti, perché tanto occorre all’inflessibile Grazia, Fede, Teologia (le tre allegorie condensate in Beatrice) per indagare a fondo nell’animo di colui che provò l’antica fiamma, e riconoscerne la buona fede. Nel XXX canto Beatrice appare circonfusa di luce rosata e inondata da una pioggia di fiori, nonché vestita di rosso come nel primo incontro (quando ella aveva  nove anni) nella Vita nuova:

Io vidi già nel cominciar del giorno
la parte orïental tutta rosata,
e l’altro ciel di bel sereno addorno;
24

e la faccia del sol nascere ombrata,
sì che per temperanza di vapori
l’occhio la sostenea lunga fïata:
27

così dentro una nuvola di fiori
che da le mani angeliche saliva
e ricadeva in giù dentro e di fori,
30

sovra candido vel cinta d’uliva
donna m’apparve, sotto verde manto
vestita di color di fiamma viva.

La solennità del momento è ulteriormente rimarcata dal fatto che, come avevo già preannunciato, è in tale occasione che l’agens si rende conto di essere stato lasciato solo per sempre da Virgilio. Non indugio più sull’evento, proprio come accade di dover fare, suo malgrado, a Dante medesimo, al quale Beatrice si rivolge con cipiglio austero, che rende del tutto motivata la similitudine  (pirandellianamente umoristica, posso sollecitarvi a pensare a questo punto) dell’ammiraglio utilizzata in tale occasione:

"Dante, perché Virgilio se ne vada,
non pianger anco, non piangere ancora;
ché pianger ti conven per altra spada".
57

Quasi ammiraglio che in poppa e in prora
viene a veder la gente che ministra
per li altri legni, e a ben far l’incora;
60

in su la sponda del carro sinistra,
quando mi volsi al suon del nome mio,
che di necessità qui si registra,
63

vidi la donna che pria m’appario
velata sotto l’angelica festa,
drizzar li occhi ver’ me di qua dal rio.
66

L’ammiraglio-Beatrice non è incline alla generosità, e nemmeno al perdono immediato: sottopone Dante a un’indagine accurata, condotta di fronte a tutti, in modo tale da promuovere in lui una profonda vergogna. I tutti cui mi riferisco sono le innumerevoli figure di un corteggio che comprende angeli e patriarchi, figure dell’Antico Testamento e del Nuovo, allegorie, insomma una specie di ampio consesso chiamato ad assistere a un rituale penitenziale, al quale l’agens si sottopone permettendo che gli angoli più segreti del suo cuore siano portati alla luce e, soprattutto, il suo tradimento multiplo sia rivelato. Beatrice ricorda quanta buona predisposizione vi fosse in lui, quanta grazia fosse piovuta dal cielo al momento della sua nascita e quanto egli, dopo la sua (di Beatrice) dipartita dal mondo abbia volontariamente fatto per traviare il suo animo, dedicandosi a una donna gentile (e ad altre donne dello schermo, come si è appreso già dalla Vita nuova) che gli hanno fatto dimenticare la vera unica ossia lei. Il tradimento al quale fa riferimento è, sembra di capire, di carattere intellettuale e filosofico, con riferimento al fatto che Dante abbia cercato di accedere alla Verità per vie che non contemplavano l’affidamento alla fede o alla teologia, ma alla ragione e alla filosofia. Una ricerca dell’assoluto, potremmo dire, condotta per vie non ortodosse, che lo porta molto vicino alla morte secunda. Beatrice rievoca anche lo stato di necessità, prossimo alla perdizione, in cui si è trovato, costringendola, lei, beata, a scendere in inferno per ordinare a Virgilio il salvataggio in selva oscura. Tutte occasioni di analessi, quindi, che l’auctor non manca di cogliere, mentre per l’agens si tratta di protrarre una sofferenza che forse s’immaginava finita, dato che alla fin fine il luogo in cui si trova è pur sempre l’eden, il paradiso terrestre dove i primi umani furono veramente felici. A essere preso di mira, si capisce, è pur sempre il peccato di superbia, variazione sul tema dell’hybris sempiterna, la quale sembra caratterizzare la specie umana che l’individuo Dante è qui chiamato a rappresentare. L’accigliata Beatrice chiede di piangere infine, di piangere davvero, perché a tutti si mostri quanto profondo, e vero e definitivo, sia il pentimento:

Tanto giù cadde, che tutti argomenti
a la salute sua eran già corti,
fuor che mostrarli le perdute genti.
138

Per questo visitai l’uscio d’i morti,
e a colui che l’ ha qua sù condotto,
li preghi miei, piangendo, furon porti.
141

Alto fato di Dio sarebbe rotto,
se Letè si passasse e tal vivanda
fosse gustata sanza alcuno scotto
144

di pentimento che lagrime spanda".

 

Quanto all'ultimo canto del Paradiso, sopraggiunge al termine di una vera e propria sequela di esami: l’agens viene interrogato, nei canti XXIV, XXV e XXVI,  sulle tre virtù teologali, fede, speranza e carità, rispettivamente da San Pietro, San Giacomo e San Giovanni, tre apostoli di Cristo. Superata la faticosa sessione, procedendo nell’empireo, nel XXXI la seconda guida viene sostituita dalla terza e ultima, Bernardo da Chiaravalle:

La forma general di paradiso
già tutta mïo sguardo avea compresa,
in nulla parte ancor fermato fiso;
54

e volgeami con voglia rïaccesa
per domandar la mia donna di cose
di che la mente mia era sospesa.
57

Uno intendëa, e altro mi rispuose:
credea veder Beatrice e vidi un sene
vestito con le genti glorïose.
60

Diffuso era per li occhi e per le gene
di benigna letizia, in atto pio
quale a tenero padre si convene.
63

E «Ov’ è ella?», sùbito diss’ io.
Ond’ elli: «A terminar lo tuo disiro
mosse Beatrice me del loco mio;
66

e se riguardi sù nel terzo giro
dal sommo grado, tu la rivedrai
nel trono che suoi merti le sortiro».
69

E ora, il XXXIII.  Una preghiera. Un momento sacro, di quelli che si vivono in piena solitudine, anche se ci si trova in mezzo agli altri. Non per volerli escludere, ma per poter sentire fino al fondo dell’essere cosa significa trovarsi in armonia col tutto. Poi si ritorna nella collettività, Dante certo torna alla dimensione collettiva, anzi universale, della chiesa dei credenti¸ ma prima prega così, e questa è senz’altro una preghiera solitaria, un solus ad solam dal momento che a essere colti in questa dimensione orante sono uno (San Bernardo, è lui a proferire quanto si legge nelle terzine dal verso 1 al 39) e una, la Vergine Madre,  evocata in concatenazione d’ossimori come tale e poi come figlia del figlio, nonché al contempo umile  e alta e termine fisso d’eterno consiglio:

«Vergine Madre, figlia del tuo figlio,
umile e alta più che creatura,
termine fisso d'etterno consiglio,3


tu se’ colei che l’umana natura
nobilitasti sì, che ’l suo fattore
non disdegnò di farsi sua fattura.
6

Nel ventre tuo si raccese l’amore,
per lo cui caldo ne l’etterna pace
così è germinato questo fiore.
9

Qui se’ a noi meridïana face
di caritate, e giuso, intra ’ mortali,
se’ di speranza fontana vivace.
12

Donna, se’ tanto grande e tanto vali,
che qual vuol grazia e a te non ricorre,
sua disïanza vuol volar sanz’ ali.
15

La tua benignità non pur soccorre
a chi domanda, ma molte fïate
liberamente al dimandar precorre.
18

In te misericordia, in te pietate,
in te magnificenza, in te s’aduna
quantunque in creatura è di bontate.
21

Dopo l’omaggio reso ai misteri della religione (l’immacolata concezione è dogma solo dal 1854) riprende la personalizzazione dell’evento finale al quale il XXXIII canto dà espressione: si parla del questi, l’agens, con un’ennesima analessi che riproduce in terzina il lungo viaggio dall’infima lacuna de l’universo al luogo in cui sono ospitate le vite spiritali. Colpisce la formula descrittiva prescelta: per l’inferno un luogo liquido (lacuna), in basso in basso (infima), e per il paradiso (il purgatorio s’elide da sé) le vite spiritali, le anime in sé, che fanno luogo da sole. L’obiettivo dei versi però si palesa subito dopo: le ultime parole compitate dal poeta devono condurlo all’excessus mentis in Deum, devono traghettare la ragione nel grande mare dell’essere fino al punto in cui lei stessa ammetta la sua impotenza e lasci spazio, luogo, tempo, all’ineffabile. L’ultima salute, ‘l sommo piacer, sono altrettante perifrasi per l’empireo, al quale il poeta agogna, al punto da presagire una sorta di deliquio, una cessazione per estenuazione dell’ardor del desiderio.

Or questi, che da l’infima lacuna
de l’universo infin qui ha vedute

le vite spiritali ad una ad una,

24

supplica a te, per grazia, di virtute
tanto, che possa con li occhi levarsi
più alto verso l’ultima salute.
27

E io, che mai per mio veder non arsi
più ch’i’ fo per lo suo, tutti miei prieghi
ti porgo, e priego che non sieno scarsi,
30

perché tu ogne nube li disleghi
di sua mortalità co’ prieghi tuoi,
sì che ’l sommo piacer li si dispieghi.
33

Ancor ti priego, regina, che puoi
ciò che tu vuoli, che conservi sani,
dopo tanto veder, li affetti suoi.
36

Vinca tua guardia i movimenti umani:
vedi Beatrice con quanti beati
per li miei prieghi ti chiudon le mani!».
39

Li occhi da Dio diletti e venerati,
fissi ne l’orator, ne dimostraro
quanto i devoti prieghi le son grati;
42

indi a l’etterno lume s’addrizzaro,
nel qual non si dee creder che s’invii
per creatura l’occhio tanto chiaro.
45

E io ch’al fine di tutt’ i disii
appropinquava, sì com’ io dovea,
l’ardor del desiderio in me finii.
48 

Come se la preghiera avesse sortito uno di quegli effetti che i poeti da sempre si sono augurati nel rivolgersi alle muse ispiratrici, o direttamente a Apollo, quel soggetto che è ormai contemporaneamente agens e auctor (anche questo momento è arrivato, la riunificazione dei due) sente potenziato ogni suo senso, si sente persino superiore a quello che mai potrebbe essere un auctor  da solo: la poesia, è questo l’evento che presuppone ed è garantito dall’excessus mentis in Deum, è nata in quel momento, dato che la memoria dietro non può ire, è fallace e falsificatrice, come tutti noi ben sappiamo. Se nemmeno la memoria ce la fa, significa che a sopperire deve essere il poieìn, la creazione poetica che sa ricorrere a misteriosi processi assimilabili a quelli del sogno: nel cuore restano tracce di quello che si è sognato, così come la penna del poeta riesce a trascrivere quello che la visione paradisiaca gli ha restituito di sé. Non ora ma allora.


Bernardo m’accennava, e sorridea,
perch’ io guardassi suso; ma io era
già per me stesso tal qual ei volea:
51

ché la mia vista, venendo sincera,
e più e più intrava per lo raggio
de l’alta luce che da sé è vera.
54

Da quinci innanzi il mio veder fu maggio
che ’l parlar mostra, ch’a tal vista cede,
e cede la memoria a tanto oltraggio.
57

Qual è colüi che sognando vede,
che dopo ’l sogno la passione impressa
rimane, e l’altro a la mente non riede,
60

cotal son io, ché quasi tutta cessa
mia visïone, e ancor mi distilla
nel core il dolce che nacque da essa.
63

Una vittoria sulla dispersione delle memorie nel tempo, quella che si celebra nelle terzine successive: non parole scritte su foglie destinate a perdersi nel vento, non neve disciolta al sole: l’ispirazione divina invocata dal poeta una volta di più è proprio il soffio delle spirito che unde vult spirat. La somma luce  rende possente la lingua, il poeta vede l’essenza del divino: un volume che racchiude tutte le pagine mai scritte e che mai si scriveranno, cerchi di colore diverso che si sovrappongono e si vedono distintamente, e il volto umano impresso al loro interno. In immagini che diventano parole, i misteri della religione, l’infinito del divino, la trinità e l’incarnazione di Cristo.

Così la neve al sol si disigilla;
così al vento ne le foglie levi
si perdea la sentenza di Sibilla.
66

O somma luce che tanto ti levi
da’ concetti mortali, a la mia mente
ripresta un poco di quel che parevi,
69

e fa la lingua mia tanto possente,
ch’una favilla sol de la tua gloria
possa lasciare a la futura gente;
72

ché, per tornare alquanto a mia memoria
e per sonare un poco in questi versi,
più si conceperà di tua vittoria.
75

Io credo, per l’acume ch’io soffersi
del vivo raggio, ch’i’ sarei smarrito,
se li occhi miei da lui fossero aversi.
78

E’ mi ricorda ch’io fui più ardito
per questo a sostener, tanto ch’i’ giunsi
l’aspetto mio col valore infinito.
81

Oh abbondante grazia ond’ io presunsi
ficcar lo viso per la luce etterna,
tanto che la veduta vi consunsi!
84

Nel suo profondo vidi che s’interna,
legato con amore in un volume,
ciò che per l’universo si squaderna:
87

sustanze e accidenti e lor costume
quasi conflati insieme, per tal modo
che ciò ch’i’ dico è un semplice lume.
90

La forma universal di questo nodo
credo ch’i’ vidi, perché più di largo,
dicendo questo, mi sento ch’i’ godo.
93

Un punto solo m’è maggior letargo
che venticinque secoli a la ’mpresa
che fé Nettuno ammirar l’ombra d’Argo.
96

Così la mente mia, tutta sospesa,
mirava fissa, immobile e attenta,
e sempre di mirar faceasi accesa.
99

A quella luce cotal si diventa,
che volgersi da lei per altro aspetto
è impossibil che mai si consenta;
102

però che ’l ben, ch’è del volere obietto,
tutto s’accoglie in lei, e fuor di quella
è defettivo ciò ch’è lì perfetto.
105

Omai sarà più corta mia favella,
pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante
che bagni ancor la lingua a la mammella.
108

Non perché più ch’un semplice sembiante
fosse nel vivo lume ch’io mirava,
che tal è sempre qual s’era davante;
111

ma per la vista che s’avvalorava
in me guardando, una sola parvenza,
mutandom’ io, a me si travagliava.
114

Ne la profonda e chiara sussistenza
de l’alto lume parvermi tre giri
di tre colori e d’una contenenza;
117

e l’un da l’altro come iri da iri
parea reflesso, e ’l terzo parea foco
che quinci e quindi igualmente si spiri.
120

Oh quanto è corto il dire e come fioco
al mio concetto! e questo, a quel ch’i’ vidi,
è tanto, che non basta a dicer ’poco’.
123

O luce etterna che sola in te sidi,
sola t’intendi, e da te intelletta
e intendente te ami e arridi!
126

Quella circulazion che sì concetta
pareva in te come lume reflesso,
da li occhi miei alquanto circunspetta,
129

dentro da sé, del suo colore stesso,
mi parve pinta de la nostra effige:
per che ’l mio viso in lei tutto era messo.
132

Qual è ’l geomètra che tutto s’affige
per misurar lo cerchio, e non ritrova,
pensando, quel principio ond’ elli indige,
135

tal era io a quella vista nova:
veder voleva come si convenne
l’imago al cerchio e come vi s’indova;
13

La conclusione è una folgore: il desiderio e la volontà si uniformano al moto celeste, il motore immobile, e la poesia, che non può fare a meno di esso, come nient’altro di quello che esiste, infine tace:

ma non eran da ciò le proprie penne:
se non che la mia mente fu percossa
da un fulgore in che sua voglia venne.
141

A l’alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disio e ’l velle,
sì come rota ch’igualmente è mossa,
144

l’amor che move il sole e l’altre stelle.


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