RIPASSO ITALIANO MODULO 11 - SABA - MONTALE - UNGARETTI - QUASIMODO CON TUTTE LE ANALISI CHE POSSONO SERVIRE

MODULO 11: Saba, Ungaretti, Montale, ermetismo (Quasimodo)

Dettagli: Umberto Saba, dal Canzoniere;  Giuseppe Ungaretti, da L’allegria;  Salvatore Quasimodo,  da Ed è subito sera, Giorno dopo giorno; Eugenio Montale, da Ossi di seppia, La bufera e altro, Satura

Dal libro di testo, vol. 3C: pp. 37-38 (sono molto utili per inquadrare in un unico sintetico sguardo tutti i lirici di nostro interesse).

Per Giuseppe Ungaretti, vita e poetica pp. 240-242

Itinerario poetico: l'Allegria, pp. 243-248; Noia, p. 249, In memoria, p. 251, Il porto sepolto, p. 254, Fratelli, p. 255, Veglia, p. 257, Sono una creatura, p. 262, I fiumi, p. 264, San Martino del Carso, p. 266, Commiato, p. 271, Mattina, p. 273, Soldati, p. 280; da Il dolore, Tutto ho perduto, p. 291, Non gridate più, p. 293

Per Eugenio Montale, vita e poetica pp. 330-332

Itinerario poetico: Ossi di seppia, pp. 333-337, I limoni, p. 338, Non chiederci la parola, p. 343, Meriggiare pallido e assorto, p. 345, Spesso il male di vivere ho incontrato, p. 349, Cigola la carrucola del pozzo, p. 357; La bufera e altro, pp. 381-382, Satura, pp. 397-398, Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale, p. 409

Per Salvatore Quasimodo, vita e poetica pp. 309-310

Itinerario poetico: Ed è subito sera, p. 310, Alle fronde dei salici, p. 315

VITA E POETICA  DI SABA

Scelgo come pilastro della biografia di Saba qui proposta due testimonianze epistolari che provengono dal carteggio dell'autore e che riguardano entrambe  un aspetto in particolare della sua vita. Saba iniziò la terapia psicoanalitica con Weiss, allievo di Freud, nel 1929 e la terminò nel 1931 quando il medico si trasferì a Roma. In una lettera del 13 settembre 1929, firmata Berto, Saba scrive al critico  Debenedetti di avere avuto una crisi nervosa che lo aveva portato vicino al suicidio: Devi sapere che alla radice della mia malattia stava la mancanza del padre: ma come, in qual senso e con quali conseguenze è cosa incredibile e vera. A distanza di anni, in una lettera allo scrittore Vittorio Sereni del 1952, Saba si trova ad annotare: In realtà, più che guarire, personalmente, ho capito molte cose dell’anima umana, che prima mi erano non solo oscure, ma addirittura insospettate. La cosa peggiore della mia infanzia fu l’assenza di un padre (buono o cattivo) e il dott. Weiss supplì, fino a un certo punto, a questa mancanza.

Col conforto di queste due testimonianze di suo pugno, distanziate di anni, possiamo intraprendere un percorso attraverso la biografia e la produzione di Saba che tiene conto di un dato fondamentale: radice della sua vita e del suo canto è una lacerazione affettiva originaria, una ferita familiare, un'assenza mai colmata. 

Saba nasce nel 1883 a Trieste, da Felicita Rachele Cohen, di origini ebraiche, che il marito (Ugo Poli) ha abbandonato pochi mesi prima della nascita di Umberto (il cognome Saba è uno pseudonimo, da lui scelto perché in ebraico saba significa pane, parola che ben riassume la ricerca di una poesia semplice e onesta che contrassegna la sua ricerca poetica). Il bambino viene affidato alla cura di una balia, una contadina slovena che aveva di recente perso il figlio e che riversa su di lui un affetto del quale il poeta le sarà eternamente grato (lasciandone ampie tracce nelle sue poesie). Autodidatta, per insofferenza nei confronti della scuola (che interrompe alla quarta ginnasio), predilige inizialmente gli autori classici della tradizione italiana, da  Petrarca (ma anche Dante, Ariosto, Tasso) a Leopardi e a Manzoni, arrivando tuttavia ad apprezzare anche i decadenti e simbolisti Pascoli e d'Annunzio, limitato però quest'ultimo unicamente  alla sua fase intimistica e crepuscolare (Il poema paradisiaco). Si capisce quindi, anche solo da questa sommaria indicazione, quale sia la matrice della poetica di Saba, che pur essendo uno dei (grandi) poeti del Novecento italiano sceglie di intonare la sua voce sulle corde del classico piuttosto che su quelle del contemporaneo. Aggiungo solo poche note ulteriori: un disturbo nervoso inizia ad affliggerlo in giovinezza e non lo abbandona per tutta la vita, inducendolo a seguire la terapia di cui sopra; sposa Carolina Woelfler (la Lina spesso presente nelle sue poesie) e ha una figlia (Linuccia), poi dedica tutta la sua vita (muore a Gorizia nel 1957, preda di crisi depressive aggravate da dipendenza dagli oppiacei) alla poesia, accompagnata da un numero elevatissimo di commenti critici dedicati a intendere tanto il prodotto letterario in sé quanto la sua stessa personale esistenza. 

L'intero arco della produzione di Saba (dal 1900 al 1954) è compreso nel Canzoniere (la prima edizione è del '21, la seconda del '45, presso Einaudi), che già dal titolo rappresenta un omaggio al nume tutelare Petrarca. Autore anche  di varie prose (soprattutto racconti), Saba correda il Canzoniere di un testo, pubblicato nel 1948, dal titolo Storia e cronistoria del Canzoniere, autobiografia critica in cui si rispecchia, appunto, anche la permanente tensione  e la  lacerazione  emotiva che hanno  caratterizzato dal principio alla fine la sua vita. 

Lo stile della Storia e cronistoria è molto originale: Saba scrive di sé in terza persona e si racconta: un po' come obbedendo agli ordini di un dottor S. del tipo di quello di Zeno.... Per capire ecco un brevissimo stralcio: 

Saba è nato a Trieste, nel 1883. […] Sua madre (intendiamo la madre di Saba) era ebrea; suo padre, che sparì subito dal cerchio della famiglia (prima ancora che il poeta nascesse) e che questi conobbe appena intorno ai vent’anni (vedi il terzo sonetto dell’Autobiografia1 ), “ariano”. In questi scarsi dati di stato civile vi sono già – come si vede – molti elementi isolanti. Nascita in una famiglia disunita, in una città di traffici e non di vecchia cultura, varia di razze e di costumi, abbiamo qui molto di quello che si potrebbe chiamare il “colore locale” di Saba. […]

Ecco qui la chiave per intendere, prendendo un'altra strada rispetto a quella dell'analisi critica, il senso della scelta di una poesia onesta (antidannunziana, vi avevo detto): il dramma della nascita in una famiglia disunita, in una terra mercantile che guarda di traverso o non guarda affatto la vecchia cultura, e quello di  un mondo pieno di disordine e confusione. 

E allora non c'è che tornare al saba, al pane, una delle parole basilari e semplici con cui si può cercare di restituire linfa e cuore alla vita: le altre sono balia, moglie, figlia e poi anche Trieste, la mia città.

Un altro stralcio, poco oltre nel testo, vale a documentare i tormenti dell'Autore in merito all'accettabilità di una poetica dell'Antico, per così dire, in pieno Novecento: 

C’era, nel profondo della sua natura, qualcosa che aveva bisogno di appoggiarsi sempre al più solido, al più sicuro, a quello che aveva fatto le sue prove in un lungo, nel più lungo possibile, passato, per poi partire da quello alla conquista di se stesso. È il così detto «conservatorismo di Saba». È malgrado, o per virtù, di quel conservatorismo che egli giunse alla particolare forma dell’endecasillabo e dei suoi derivati, che rende un suo verso, anche giovanile, riconoscibile al primo aspetto. Ma nella valutazione superficiale dei suoi contemporanei inquieti, che volevano, apparenti e sostanziali (meglio apparenti), «novità ad ogni costo» la sua fedeltà gli fu per molto tempo, in sede critica (giornalistica), un danno. […]

Difficile, quando spira il vento del nuovo a ogni costo mantenersi fedeli a quello che detta il cuore. Ma è certo così che nascono anche le poche poesie che prendiamo in esame noi, ossia  A mia moglie,  Trieste e Città vecchia

A mia moglie

Riporto, per la sua eloquenza, essenzialità e verità,  quanto si legge in proposito nella Storia e cronistoria del Canzoniere. (ricordate quanto appena annotato: Saba scrive di sé in terza persona; quando a Debenedetti, lo conoscete anche per via di Svevo)

La poesia provocò, appena conosciuta, allegre risate. Pareva strano che un uomo scrivesse una poesia per paragonare sua moglie a tutti gli animali della creazione. È la sola del No­stro che abbia suscitato un po' di scandalo; è forse a questo che si deve la sua notorietà: una noto­rietà di "contenuto". Ma nessuna intenzione di scandalizzare, e nemmeno di sorprendere, c'era, quando la compose, in Saba. La poesia ricorda piuttosto una poesia "religiosa"; fu scritta come altri reciterebbe una preghiera. Ed oggi infatti la si può nominare o leggere in qualunque ambiente, senza la preoccupazione di suscitare il riso. Un giornale comunista disse, recentemente, che "A mia moglie" è una poesia proletaria. Noi pensiamo invece che sia una poesia “infantile”; se un bam­bino potesse sposare e scrivere una poesia per sua moglie, scriverebbe questa.

«Un pomeriggio d'estate» racconta Saba «mia moglie era uscita per recarsi in città. Rimasto solo, sedetti, per attenderne il ritorno, sui gradini del solaio. Non avevo voglia di leggere, a tutto pen­savo fuori che a scrivere una poesia. Ma una ca­gna, la "lunga cagna" della terza strofa, mi si fece vicino, e mi pose il muso sulle ginocchia, guardandomi con occhi nei quali si leggeva tan­ta dolcezza e tanta ferocia. Quando, poche ore dopo, mia moglie ritornò a casa, la poesia era fat­ta: completa, prima ancora di essere scritta, nella mia memoria. Devo averla composta in uno stato di quasi incoscienza, perché io, che quasi tutto ricordo delle mie poesie, nulla ricordo della sua gestazione. Ricordo solo che, di quando in quando, avevo come dei brividi. Né la poesia ebbe mai bisogno di ritocchi o varianti. S'intende che, ap­pena ritornata la Lina, stanca della lunga salita (si abitava a Montebello, una collina sopra Trieste) e carica di pacchi e dì pacchetti, io pretesi su­bito da lei che, senza nemmeno riposarsi, ascol­tasse la poesia che avevo composta durante la sua assenza. Mi aspettavo un ringraziamento ed un elogio; con mia grande meraviglia, non ricevetti né una cosa né l'altra. Era invece rimasta male, molto male; mancò poco litigasse con me. Ma è anche vero che poca fatica durai a persuaderla che nessuna offesa ne veniva alla sua persona, che era "la mia più bella poesia", e che la dovevo a lei.» (...) Altre più belle poesie egli scrisse, più complesse, più seducenti, forse anche più per­fette; ma in nessuna - crediamo - la nativa spon­taneità della sua vena zampillò da una sorgente più profonda. Giacomo Debenedetti parla della «sensualità quasi animalesca» colla quale sono portati i paragoni. Non si tratta di sensualità ani­malesca, forse nemmeno di sensualità, in nessun caso di sola sensualità (ma quando il Debenedetti scrisse il suo primo saggio sul Nostro era vergo­gnosamente giovane: aveva 22 o 23 anni). La poesia fa pensare piuttosto - come abbiamo detto - ad un improvviso ritorno all'infanzia; un ritorno però che non esclude la contemporanea presenza dell'uomo. (Se questa fosse mancata, Saba non sa­rebbe stato Saba, ma Pascoli.) Il poeta, come il fan­ciullo, ama gli animali, che, per la semplicità e nudità della loro vita, ben più degli uomini, ob­bligati da necessità sociali a continui infingimenti, «avvicinano a Dio», alle verità cioè che si possono leggere nel libro aperto della creazione. Un gior­no - e fu un bel giorno - Saba deve aver sentito con acuta gioia e tenera commozione, le identità che correvano fra la giovane donna che gli viveva accanto e gli animali della campagna dove allora abitava. La poesia, nata da questa "scoperta", porge, in sei lunghe strofe, altrettanti e più para­goni. Il poeta ritrova la sua donna nella giovane e bianca pollastra, nella gravida giovenca, nella lunga cagna, nella pavida coniglia, nella rondine, nella provvida formica, nella pecchia, e – dice il verso finale, che può sembrare, ed è invece altra cosa – un complimento da madrigale: «in nessun’altra donna». Ad ogni animale sono attribuite (come nelle favole) qualità essenziali; i versi suonano, in così antica materia, con gravità e dolcezza.

Trieste

«Io non sono stato un poeta triestino, ma un poeta italiano, nato, nel 1883, in quella grande città italiana che è Trieste. Non so nemmeno se – dal punto di vista dell’igiene dell’anima – sia stato per me un bene nascere con un temperamento classico in una città romantica; e con un carattere (come quello di tutti i deboli) idillico, in una città drammatica. Fu un bene – credo – per la mia poesia, che si alimentò di quel contrasto, e un male per la mia – diciamo così – «felicità di vivere». Comunque, il mondo io l’ho guardato da Trieste: il suo paesaggio, materiale e spirituale, è presente in molte mie poesie e prose, pure in quelle – e sono la grande maggioranza – che parlano di tutt’altro e di Trieste non fanno nemmeno il nome.
Del resto, io non credo né alle parole né alle opere degli uomini che non hanno le radici profondamente radicate nella loro terra: sono sempre opere e parole campate in aria.

Discorso pronunciato in occasione dei festeggiamenti per il settantesimo compleanno al Circolo della cultura e delle arti, 19 ottobre 1953.

Anche in questo caso, per un breve commento, vale la pena affidarsi a quanto scrive Saba.  Solo così la poesia riesce a essere intesa per quello che vuole essere, ossia  davvero onesta, come si capisce da Quello che resta da fare ai poeti, articolo scritto nel 1911 e utile per capire i principi fondamentali della poetica di Saba. 

Trieste, canta il poeta nella prima strofa in metri vari, è una città che s'attraversa salendo, e che per lui finisce nel punto esatto in cui, sedendosi da solo, mentre intorno non c'è nessuno, matura la percezione del suo confine (mi pare che dove esso termina termini la città). Poi la città si personifica, diventa un ragazzaccio aspro e vorace, in cui si mescolano armoniosamente grazia e scontrosità, comportamenti aggressivi e scostanti, eppure anche sentimenti profondi, suggeriti da quell'amore / con gelosia scelto come clausola della strofa, in verso quinario ben isolato per suonare più incisivo. Ma poi certo il culmine del componimento (per me è essenziale trovarlo sempre) è nella penultima strofa, in quella triade di versi 20-22, che preparano un rivelazione semplice (onesta), non certo epifanica, condensata nell'aria natìa che è strana e pure tormentosa, proprio come ci si figura possa essere per uno che ha scritto che Trieste è una città drammatica. In quella città, però, così conclude la poesia, il poeta trova per sé  il cantuccio a me fatto, alla mia vita pensosa e schiva, e la circolazione di sentimenti  inaugurata dalla passeggiata in salita, dalla pausa pensosa, dalla similitudine con il ragazzaccio si chiude così con il riconoscimento finale dell'appartenenza ineludibile a un luogo, alla propria terra, dove sono le radici che impediscono alle parole e alle opere degli uomini di essere solo parole e opere campate per aria

Città vecchia

In  Storia e cronistoria del Canzoniere Saba elegge Città vecchia quale sua poesia più intensa e rivelatrice. Non possiamo che dargli credito e prestare perciò attenzione a dettagli rivelatori, nei quali si possa celare quel quid che rende l'insieme così eloquente per colui che l'ha concepito. Intanto la forma: una quartina,  rimata e assonanzata (ABBA), una lunga strofa, una terzina. Un inizio ordinato e all'antica, all'interno del quale s'inaugura però anche un tono colloquiale e narrativo, destinato a durare poi per l'intero componimento. Vien subito da pensare che Saba, come un Petrarca afflitto da accidia (ben documentato, anche in quel caso di suo pugno,  nel Secretum) abbia deciso di sviare dalla dritta via della sua casa per inoltrarsi in percorsi inediti, un'oscura via di città vecchia, un mondo a parte, un altro mondo, dove la luce è vagamente spettrale (ma lui non è poeta dei suggerimenti, la descrizione è priva di aloni: giallo in qualche pozzanghera si specchia qualche fanale)  e la strada è piena di gente (affollata). La seconda strofa è inizialmente un quadro d'ispirazione naturalista: i luoghi deputati sono osteria, casa, lupanare e la gente che viene e che va, gli uomini e le merci,  sono detriti di quello che (non si dimentichi) è un gran porto di mare. Forse allora la rivelazione è racchiusa in quell'improvvisa condensazione del pensiero nel binomio (espresso con enjambement tra i versi 9 e 10) l'infinito nell'umiltà: per una volta la scrittura di Saba va decifrata, occorre pensare a cosa stia esprimendo, per arrivare a ipotizzare che si tratti di un momento in cui è addirittura l'assoluto (sì, proprio quello dei cercatori romantici) a palesarsi dove meno ce lo si attende (e meno lo si ricerca) ossia nell'umiltà. Il poeta da questo momento fa in modo che l'ispirazione domini anche la materia ribollente  e oscura del reale che pure continua a dipingere con mano sicura: dalla prostituta accanto al marinaio, al vecchio bestemmiatore, alla donna litigiosa, al soldato affamato di fritture, alla (è una strana immagine, a pensarci) fanciulla che dà in ismanie perché folle d'amore. Ecco, per lui questa umanità che qualcuno direbbe degradata, che a qualcun altro viene in mente somigli a uno spaccato d'incongruo girone infernale, è figlia della vita e del dolore, ed è soprattutto sorella del poeta, a lui accomunata dalla presenza (che s'agita, occorre notare) del Signore. Nella terzina conclusiva trionfa un ossimoro certamente rivelatore (come sempre questa principesca figura retorica): in compagni degli umili (è il cristianesimo delle origini  unito al francescano a far luce qui), dove più turpe è la via, il pensiero s'illimpidisce, si purifica e trova, rivelazione finale, il suo infinito

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Vita e poetica di Ungaretti

L’allegria, Il Sentimento del tempo, Il dolore: questi, in progressione temporale, i titoli delle raccolte di Ungaretti, nato nel 1888 ad Alessandria d’Egitto e morto a Milano nel 1970. Un arco di ottant’anni o poco più che, nel cosiddetto secolo breve¸ sono destinati a ospitare vorticosi cambiamenti: nel 1888 l’Italia è un regno, il treno può incutere spavento a chi non l’abbia mai visto, le carrozze trainate da cavalli sono un egregio mezzo di trasporto. Nel 1970 si avvertono le prime avvisaglie di una crisi economica anche, ma non solo petrolifera, le contestazioni rivolte all’ordinamento sociale sembrano voler rovesciare tutto, ci si muove sempre più velocemente su strisce d’asfalto e in cielo. In questo arco di anni, pochi decenni se considerati in una prospettiva anche di breve periodo, la riflessione poetica di Ungaretti traccia un percorso, che adesso ricostruirò a partire, appunto, dalla prima raccolta.

Una precisazione: nel 1916, a Udine, arriva alle stampe un volumetto di poesie ungarettiane dal titolo Il porto sepolto. Tre anni dopo, la stessa raccolta, ampliata, viene pubblicata come Allegria di naufragi e solo nel 1931 acquista, ulteriormente ampliata, il titolo definitivo, L’allegriaAllegria di naufragi figura, come componimento singolo, nella raccolta del ’19. Il testo, datato come tutti quelli che leggeremo e riferito a un luogo preciso (14 febbraio 1917, Versa, frazione di Romano d’Isonzo in provincia di Gorizia, Friuli Venezia Giulia)  recita così:

E subito riprende

il viaggio

come

dopo il naufragio

un superstite

lupo di mare.

Parto proprio  da questo componimento per tracciare le linee della poesia di Ungaretti attraverso un arco temporale che s’estende dall’inizio del secolo alla fine degli anni sessanta, rintracciando all’interno di esso alcune delle tematiche ricorrenti e qualche riferimento alla biografia del poeta. Il viaggio, per cominciare, è un’esperienza originaria: la sua permanenza in Egitto, dove la famiglia si era trasferita dalla provincia di  Lucca perché il padre era stato assunto come operaio nel cantiere del canale di Suez (poi, morto lui, la madre aprì una panetteria in Alessandria per mantenere agli studi il figlio), dura fino al 1912, quando un piroscafo (primo viaggio) lo porta, ventiquattrenne, a conoscere i luoghi d’origine della sua famiglia in Italia. Si tratta di un veloce passaggio, perché la meta finale è Parigi, dove Ungaretti frequenta la Sorbona e il Collège de France,  seguendo fra le altre  le lezioni del filosofo Bergson. A Parigi la sua vocazione poetica, manifestatasi già in Egitto, presso la scuola svizzera da lui frequentata (dove s’innamora dei poeti francesi simbolisti, di Baudelaire, Mallarmé, Rimbaud, ma anche di Leopardi), prende forma, anche grazie ai contatti con personaggi di spicco dell’arte europea (tra gli altri, Apollinaire, Picasso, Marinetti, Palazzeschi, De Chirico, Modigliani), la sua prima inclinazione. Allo scoppio della I G.M. riprende il viaggio, partendo volontario e venendo assegnato a un reggimento di fanteria che, nel 1915, si trova impegnato nella zona di Gorizia. Qui, restando nel solco del componimento prescelto per iniziare, si inanellano i naufragi, che fanno di lui, forse, il superstite lupo di mare che annota su un taccuino il suo personale diario di guerra. Quello che il suo amico Ettore Serra, all’epoca giovane ufficiale, s’incaricherà di far stampare a Udine presso una tipografia nel 1916. Ottanta copie, del nucleo originario dell’Allegria, la cui conoscenza ora noi faremo, addentrandoci nella poetica ungarettiana.

La sua poesia nasce con una sentenziosità netta, con radici profonde nella terra (nel reale, nel materico), senza didascalismo. D’impeto, senza sforzo intellettuale, parrebbe, scrivendo in trincea e sdraiato nel fango, compita quelli che si sono subito definiti versicoli, la sua cifra stilistica, versi brevi e brevissimi, isolati spesso, distanziati e pausati, perché le parole che li compongono si incidano nell’anima, così come sono radicate nella terra, nell’umano che è sempre stato e sempre sarà. Versicoli, inoltre, per sottolineare (sotto questo profilo c’è un’affinità con Saba) la ricerca di verità, onestà, l’assenza di orpelli letterari, di astruserie, di difficoltà accessorie e immotivate, se la componente comunicativa deve essere quella privilegiata.  

Leopardi e Mallarmé, conosciuti da ragazzo, sono i suoi numi tutelari, da quanto dichiara egli stesso. Poesia intensa, in entrambi i casi, poesia che contiene segreti, ma senza difficoltà eccessive.

Noia. Interessante ricostruirne la genesi. Nasce nel 1915, dalla penna di un Ungaretti spronato a pubblicare dagli amici futuristi: la scelta cade sulla rivista “Lacerba”, (le riviste sono straordinari trampolini per giovani autori) e il componimento s’intitola Sbadiglio, ma suona diverso da quello che leggiamo nella raccolta finale: un verso compare prima di quello iniziale “Com’è immobile l’aria” e basta da solo a segnare una differenza, un cambiamento che portano gli anni (e le esperienze), segnando e definendo la scrittura di Ungaretti: quel “come è immobile”, pur essendo solo un suggerimento  analogico, suona di troppo rispetto all’icastico incipit della versione finale. Anche questa notte passerà è un ingresso senza preamboli nel cuore del problema esistenziale che ispira la raccolta, il problema dello stare al mondo, in questo mondo, nel mondo dove sull’asfalto si disegnano ombre di fili tramviari, un mondo in cui la terra sembra scomparsa, e resta solo uno sguardo, che l’io lirico dice gli appartenga, gettato su teste pencolanti di vetturini, ridotti a una visione fantasmatica, o burattinesca, in ogni caso disumanizzati. C’è un vuoto e una sospensione, che nella prima redazione del testo venivano pedantemente sottolineati dal verso iniziale, la cui assenza contribuisce a caricare di significato la breve lirica. Così si capisce subito come operi la poetica ungarettiana, in quale direzione si muova il suo stile: in quella di una scarnificazione del testo, di un suo prosciugamento, di un’attenzione alle singole parole e alle possibilità espressive che riescono a sprigionare se isolate o pausate o comunque incise nello spazio della pagina come scalpellature. Una scrittura icastica e essenziale, che sa di contenere segreti. La lezione del simbolista Mallarmé si può ben cogliere in una ricerca di corrispondenze foniche, di effetti fonici, quello che lega l’aggettivo titubante al verso 3 al verbo tentennare  al 7, isolato a occupare da solo l’intero spazio metrico, segnalando una corrispondenza comunicativa, determinando una circolarità tematica, quell’esitazione costante percepibile nell’aria e assorbita nell’anima e quella solitudine impegnativa perché diffusa e irrisolta. Il poeta non cerca, diversamente da Montale, risposte o varchi, non interpella il mondo circostante alla ricerca di svelamenti: sa che la poesia è ricettacolo di segreti e a questi allude con segni espressivi e vibranti.

In memoria

Questa poesia si trovava in apertura di Porto sepolto del 1916 Amico d’infanzia di Ungaretti, conosciuto in Egitto e ritrovato a Parigi, Mohammed Sceab era un appassionato cultore di poesia, col quale il poeta condivideva interessi e piaceri. Il suo suicidio in giovane età ispira questo componimento, nel quale Mohammed diviene un’icona dell’estraneità, intesa come sentimento proprio di chi si sente straniero (agli altri e a se stesso), uno dei temi portanti del Novecento inquieto. Incontrare l’altro, come amiamo dire oggi, presuppone senza dubbio la coscienza di sé, dei propri confini interiori, delle proprie radici, e un’incertezza in merito può in alcuni casi comportare scompensi e devastazioni, o indurre, come in questo caso, al suicidio. Quanto accade all’amico di Ungaretti è questo: inizia, il componimento, con l’intonazione di un epitaffio, si chiamava, e segue il nome che identifica. Poi, isolati versicoli, la discendenza: da capi politici di popoli nomadi e subito, a chiudere la sua storia troppo in anticipo rispetto ai tempi biologici, suicida per assenza di radici. La linfa che viene a mancare, la patria (senza enfasi retorica, è di quella dell’anima che si parla) che non c’è più. La poesia ha tempo e voglia di dilatarsi, di ospitare la storia. Transfuga, creatura in movimento, Mohamed cambia nome per amore della Francia (e qui, forse, un po’ di enfasi c’è), diventa Marcel, ma è un inganno. Lo sradicamento non può essere smentito, negato, cancellato, dall’acquisizione di un nuovo nome. La tenda degli antenati, con le cantilene coraniche e il caffè forte, diventa un porto lontano, un segno dello sradicamento. Né francese né arabo, più niente. Nemmeno la poesia a soccorrerlo, poiché nemmeno lei sa dettargli le parole. Così, nelle strofe conclusive, si dipana ferocemente il film della sua vita, con ultime inquadrature: il poeta e la padrona dell’albergo che accompagnano il feretro, l’indicazione precisa (almeno quella) dell’indirizzo parigino dove s’è consumata la morte, il camposanto d’Ivry, periferia urbana circonfusa d’abbandono, con quell’aria da fiera decomposta, e un’unica memoria, quella del poeta stesso, che scrivendo e vivendo ricorda, ma solo quello, senza speranza alcuna d’essere davvero un testimone. Il componimento appartiene a quelli scritti sul fronte, come si evince dall’indicazione precisa del luogo di scrittura, Lovicza, 30 settembre 1916. Una memoria strappata dall’anima del soldato isolato nella trincea, stretto in un cubicolo di terra, annichilito nella sua umanità da suoni violenti e discordi, da un assalto di non vita. Questa circostanza, il fatto che la poesia rechi traccia in sé di questo vissuto al quadrato, la rende particolarmente pregnante, e originale, se ha senso considerare, in un contesto di questo genere, un valore l’originalità.  

Il porto sepolto, Mariano, 29 giugno 1916, sempre Gorizia (prima raccolta)

Compare qui il segreto, di cui dicevo a proposito della paternità riconosciuta da Ungaretti nei confronti di Leopardi e Mallarmé. Il porto sepolto è evidentemente il Vi, il luogo da cui prende l’avvio il componimento, un luogo sotto il mare, da cui il poeta, il viaggiatore, torna alla luce con i suoi canti, versicolo lunghissimo, che sembra ospitare una rivelazione (quella che la poesia abbia una funzione, si affacci al mare dell’essere), subito smentita nel versicolo successivo e li disperde. Viene qui negata la possibilità che qualcosa di quanto viene cantato lasci tracce durevoli, come ribadisce l’ultima strofa di versicoli brevissimi: al poeta, solo a lui, resta quel nulla d’inesauribile segreto, una scia, un barlume, che allude a qualcosa di imperituro che è però segreto, non si conoscerà mai e dunque, per ciò stesso, non lascia tracce. Scrivere parole che restino, scrivere parole del e sul nulla, e davvero un’impresa ai limiti dell’umano...

Veglia. Cima Quattro 23 dicembre 1915. (cima quattro del Monte San Michele, rilievo carsico). 

Risuona la musica del deserto nella poesia di Ungaretti, la musica dei granelli di sabbia, l’asprezza dei granelli di sabbia che le tempeste raggruppano in sferzanti nuvole che penetrano sotto gli abiti, entrano nella bocca e fanno stridere i denti. La sua poesia si fa così sabbiosa, e penetrante, e vasta, come il deserto appunto, luogo rivelatore della terra, luogo originario e antico, destinato a riprodursi nel tempo, cambiando sede,  perché il lavorio degli elementi (il vento, la pioggia, cambiamenti climatici) al deserto conduce, a una lenta distruzione delle cose ridotte ai loro minimi termini. Questa introduzione s’addice in particolare all’espressionismo estremo di Veglia, in cui la scelta delle parole scabre e sferzanti, granelli di sabbia che non lasciano scampo né al sentimento né all’immaginazione saturandoli di sé, è particolarmente funzionale alla comunicazione poetica: Un’intera nottata, recita il primo versicolo, ed è già stabilito un tempo infinito, un tempo che si misura in secondi, che sono migliaia, che sono troppi per quello che in tale tempo si è costretti a sopportare; buttato vicino/a un compagno/massacrato scandiscono i versicoli successivi di una prima, lunghissima (per le misure ungarettiane) strofa: e chi legge e sente viene urtato da quell’inedito accostamento buttato vicino, che evoca non persone ma cose, scarti, spazzatura, sacchi; poi però vicino/a un compagno/massacrato introduce nel tessuto espressionistico del componimento una inattesa umanizzazione: non sono cose a essere buttate, ma esseri umani, compagni, uno dei quali massacrato, macellato, stando all’etimologia che rimanda al sacro, immolato con una mazza che, soprattutto, l’ha fatto a pezzi. La tempesta di sabbia che ci sta travolgendo non lascia, si è detto, tregua, e ogni granello s’insinua con le sue progressive agghiaccianti rivelazioni: con la sua bocca/digrignata/volta al plenilunio, dettaglio raccapricciante, la smorfia del volto sul quale è impressa la sofferenza, l’orrore per sé e per quanto circonda, e un cielo indifferente, traboccante di luce lunare, la quale illumina impietosamente la congestione/delle sue mani, altro dettaglio anatomico che rimarca l’espressionismo e attiva un’inattesa, sbalorditiva svolta comunicativa: sono le mani congestionate del morto, ancora paonazze e rigurgitanti di sangue che non è più vitale, a penetrare nel mio silenzio e a scrivere lettere piene d’amore. La poesia ha partorito il suo segreto, esplicitato nella seconda e ultima strofa, icastica e epigrafica: la morte avvicina alla vita, la morte spiega la vita, la morte da senso alla vita, i morti scrivono poesie per i vivi, i morti sono vivi nei vivi e i vivi, grazie ai morti, smettono per un po’ di morire. Attaccato alla vita è agli antipodi di buttato: dallo scarto iniziale, dal pezzo di carne  massacrato, irriconoscibile, la poesia fa scaturire il soprassalto di fierezza umana, addirittura l’inno alla vita. La poesia dei morti ha così un nuovo corifeo: una voce che scandisce le parole, ferisce l’aria e l’anima, lascia tracce indelebili di verità sugli esseri umani e il loro modo di stare al mondo.

I fiumi, Cotici, 16 agosto 1916 (sempre nei pressi di San Michele del Carso)

Un canto lustrale, questa celebre poesia di Ungaretti, nel senso originario del termine. Evoca un lavacro sacro, come quelli che compivano i censori nell’età romana per rendersi degni di svolgere i loro sacri compiti. Restando ancora per un poco in questa suggestione, il bagno sacro coincide, in tante antiche tradizioni, con una presa di contatto con se stessi, con le proprie radici, con la propria identità, è un incontro con se stessi senza le sovrapposizioni culturali, in una perfetta coincidenza e identità con la natura. Riconoscerla per riconoscersi, questo il senso originario del lavacro sacralmente inteso. Questa lirica pervasa di acque, contiene ben quattro fiumi: l’Isonzo, il Serchio, il Nilo e la Senna, nell’ordine in cui sono nominati, ma l’Isonzo, nell’impossibile idrografia evocata dal componimento, li contiene tutti, essi sono, per così dire, suoi affluenti (questi sono i miei fiumi/contati nell’Isonzo recita la penultima strofa). Come tutti i componimenti ungarettiani più lunghi, compensa con la suddivisione strofica l’assenza di punteggiatura. L’io lirico è una presenza permanente, in ogni strofa: compare come soggetto dei predicati verbali o attraverso  la ricorrenza di pronomi personali e di aggettivi possessivi (mi, me, miei...). In più tutti i fiumi evocati sono indicati attraverso l’aggettivo dimostrativo questo, come si trovassero nelle vicinanze del soggetto, determinando così quella geografia immaginaria di cui dicevo. All’inizio un’immagine ispirata dalla situazione in cui il componimento è nato, facendo parte dei componimenti scritti in trincea: un albero mutilato /abbandonato in questa dolina, il tipico suolo carsico, rappresenta il sostegno dell’io lirico in uno scenario dominato dal languore che promana da un luogo in cui sia passato un circo (la guerra) lasciando desolazione e quiete. L’acqua dell’Isonzo, che compare nella seconda strofa, reca una sorta di sollievo, com’è nella natura lustrale, destinata alla purificazione del corpo e dello spirito.  L’indizio di una mescolanza fra i fiumi della vita, che come vene e arterie percorrono il corpo apportando nutrimento e vita, scartando scorie, la quarta strofa, in cui l’esperienza del presente, la guerra, si fonde con quella del passato, il fiume che scorre nella terra dei beduini. L’acqua è elemento primordiale, come tale la evoca Ungaretti, come principio originario, che contiene in sé, in ogni sua componente, il segreto dell’universo, la sua armonia, capace di regalare addirittua felicità (se pur rara, verso 40). Il senso esistenziale del componimento, la sacralità del suo contenuto, si manifesta a partire da questo passaggio: il Serchio, che irrora le terre lucchesi, contiene la storia passata, la stirpe, la famiglia originaria, il Nilo ha bagnato con le sue acque antiche la fanciullezza e la giovinezza immemori del poeta, la Senna scorreva ai tempi della sua consapevolezza già adulta delle cose del mondo e l’Isonzo è il luogo del riconoscimento attuale. L’ultima strofa suona quasi come una spiegazione finale: ogni fiume personifica una nostalgia, un dolore del ritorno che non sarà mai, che non può più essere. L’inesorabilità del tempo che scorre, come l’acqua dei fiumi, si manifesta conclusivamente in questa immagine notturna nella quale fiorisce inatteso un fiore, una corolla di tenebre che rappresenta la vita nel suo insieme, un’oscura efflorescenza bagnata dalle acque dei fiumi della vita.

San Martino del Carso, Valloncello dell’Albero Isolato, 27 agosto del 1916

Poetica degli oggetti che scompaiono, travolti dalla guerra, cancellati quasi dalla furia degli eventi storici: brandelli di case, niente per quanto riguarda gli esseri umani. La guerra distrugge e basta. Ma la sua forza distruttiva non può nulla sul cuore, nella dimensione interiore: nel senso che il cuore conserva, vivo, il ricordo di ogni assenza, di ogni vuoto. Poeta dei segreti, Ungaretti sa che uno di questi è che le forze possenti scatenate dalla furia umana possono arrivare a ditruggere intere civiltà, ma non a cancellare il ricordo di esse dalla memoria e dai cuori. Con parole diverse, stili diversi, Foscolo, i poeti sepolcrali inglesi, Edgar Lee Masters e Ungaretti, per citare voci che avete udito nel vostro percorso, convengono su un punto: la forza dell’umano, di là dal tempo e dallo spazio, si misura anche (benché non solo) nella sua capacità di affidare alle parole il compito di eternarlo. Quanto alla durata di questa eternità, essa dipende dalle singole visioni del mondo. Può durare una vita o il tempo che si estingua  l’eredità ch’essa lascia nella memoria degli altri.

Mattina, Vanità, Soldati, Girovago, Natale; da Il sentimento del tempoL'isola, Di luglio; da Il dolore, Tutto ho perduto, Non gridate più

Se c’è una distanza umanamente inconoscibile è quella fra l’effimero e l’eterno, annotava, insieme a tante altre cose, Ungaretti in appunti degli anni ’20, di poco posteriori a questi componimenti che stiamo leggendo. Nel  ben noto M’illumino d’immenso, intitolato Mattina, sembra proprio che tale distanza si possa invece colmare, almeno provvisoriamente, nel lampo prodotto da un’illuminazione. Certo occorre che la poesia, la parola, si ritraggano, occorre che il processo di rarefazione di cui abbiamo iniziato a parlare presentando lo stile di questo poeta, sia condotto al limite estremo della (quasi) scomparsa delle parole. Ed è lì, a quel punto  di non ritorno (forse), di là dal quale si può solo stagliare il silenzio, che si riescono invece ancora a scolpire termini che colgono l’eterno. Nel testo lo spazio lasciato alla soggettività dell’io lirico e come un iniziato mugolio (M’), un effimero che si manifesta un istante, come gli è proprio, e poi viene accolto nella luminosa immensità, manifestazione dell’eterno possibile. E tutto sotto specie di evento, che si manifesta in un determinato spazio temporale, una mattina, qualsiasi ovviamente, uno spazio di tempo che, nel suo ripetersi, può anch’esso ricondursi all’eternità. La ricerca stilistica di Ungaretti che tende al nulla, allo spazio vuoto pregnante, raggiunge qui un suo vertice.

Vanità.

Sin dal titolo risuona l’evocazione biblica, ispirazione del componimento. Vanità delle vanità, tutto è vanità, scrive Qohèlet, discendente di David, ed è poi tutta una sequela di rappresentazioni nichiliste di quello che può fare e cercare di essere una persona. Niente di nuovo sotto il sole; fare è inseguire il vento; il riso è follia, la gioia è nulla; saggio e stolto muoiono allo stesso modo; meglio vedere con gli occhi che vagare con il desiderio. La lirica ungarettiana varia il tema a suo modo: il liquido stupore che si staglia alto sulle macerie è un’affermazione, e un’affermazione di forza, di significato, in un mondo peraltro percorso da violenza distruttrice (macerie), prossimo, è vero , alla perdita di senso. Così pure l’uono curvato sull’acqua, la quale maternamente culla e si prende cura di ciò che è stato spezzato (franto). Sempre l’elemento primordiale, evocato come curativo, come salvifico.

Soldati

La lirica della precarietà, che rintraccia nella celebre analogia (come le foglie sugli alberi nella stagione autunnale)  il senso di un’esistenza che sembra non essere più nulla, se non attesa della fine, in una sospensione che è solo espressione di fragilità.

Girovago

Siamo nel 1918, fronte francese. Si sente una consonanza con In memoria, è poesia dello sradicamento totale, dell’estraneità, di chi non si sente più in grado di sopportare, di abituarsi, preda di languori che indeboliscono. Poi viene l’invocazione: trovare, godere un momento di vita iniziale, in un paese innocente. Cosa cerca il poeta? Vuole tornare al paradiso terrestre, o a un tempo addirittura precedente alla creazione?

Natale

Lirica fuori dal fronte, oltre il fronte. Una maniera a sé stante di celebrare la ricorrenza, chiedendo di essere lasciato in pace, chiedendo di essere lasciato come una cosa posata in un angolo e dimenticata. Come sempre abbiamo notato nelle poesie di Ungaretti a ogni strofa s’affaccia l’io lirico, onnipresente nella dichiarazione dei suoi sentimenti, del suo sentire (non ho vogliaho tanta stanchezza, lasciatemi così, sto con le quattro capriole): si avverte però come una minima evoluzione, dalla negazione all’affermazione, alla percezione di un angolo di mondo in cui regna il caldo buono ed è possibile essere circoscritti, essere fermi, stabili, fissi in un punto. In un certo senso, agli antipodi degli alberi autunnali sui quali tremolano foglie prossime a morire. La poesia del focolare ritrovato, potremmo intitolarla, senza alcuna intenzione ironica, tuttavia.

Il sentimento del tempo è una raccolta posteriore, del 1933, in cui cambia la visione rispetto alle precedenti. Eloquente il titolo: il tempo è una durata, una messa in relazione dell’effimero con l’eterno nella dimensione della durata. Queste liriche dedicate al tempo hanno anche uno scenario d’elezione, che è Roma, disseminata di memorie e tempio del barocco, età in cui la riflessione sul tempo e il suo inesirabile scorrere ebbe particolare sviluppo. Il tempo come un’impronta che si imprime, recando con sé tracce del passato, segni del presente e presagi del futuro. Un’impronta tridimensionale, che si può ben immaginare impressa dal dio Crono in persona, in uno di quei momenti in cui non era intento a divorare i suoi figli. Camminava per le strade, in quei momenti, e lasciava tracce di sé.

L’isola

Si sente che lo stile è mutato. Un Ungaretti che utilizza la punteggiatura, non scava nel vuoto e nel silenzio, ma evoca e scompare come io lirico, mentre le immagini si inanellano vaporose, alla maniera simbolista, senza illuminazioni repentine a dettare icastiche epigrafi. Il soggetto di tutti i verbi, dal secondo verso sceses’inoltrò,  poi il pronome lo, quindi vide, ritornato a salire, vide, errando, giunse è il pastore dalle mani di vetro levigato da fioca febbre, figura ancestrale, arcaica, mitica, come mitica è tutta l’evocazione, di una ninfa ritta ad abbracciare un olmo, forse metamorfosi in atto o già realizzata o ancora da realizzare,  nel quadro bucolico e luminoso. Si nota in questa lirica un recupero di forme tradizionali, un periodare che di nuovo si lascia conformare dalla sintassi, che accoglie l’imperativo della descrizione attraverso la quale l’immaginazione può dipingere quadri, cogliere atmosfere.

Di luglio

Non è un’acquisizione definitiva, quella registrata nella lirica precedente, perché in questo componimento tornano, per quanto ormai spezzate dalla punteggiature, le affermazioni repentinamente chiuse, scalpellate nella roccia. L’estate tinge di colore triste le foglie. Fa di peggio: asciuga, inaridisce, estende, splende troppo e implacabilmente. L’estate personificata come un mostro, una creatura che divora tutto, spolpando lo scheletro della terra. L’immagine che si compone è quella di un processo inarrestabile e macabro, che ha come protagonista una natura mostruosa e una sua creatura, la terra, vittima immolata.

Il dolore

Di nuovo torna l’io lirico, in una dichiarazione di perdita totale: il tempo che passa, il sentimento del tempo che passa, porta con sé la nuda constatazione della cancellazione di tante possibilità. Non più smemorarmi in un grido.  Infanzia sotterrata, fratello perduto. Rivisitazione dell’antico tema del fratello morto, da Catullo a Foscolo a noi noto, pone qui di fronte a un abisso senza possibilità di colloqui dentro o fuori dal tempo. La vita che rimane arrestata in fondo alla gola, ed è solo una roccia di gridi, raggruma in un istante la disperazione e la rende atroce e niente altro. Il grido e i gridi rappresentano un anello significativo nella lirica: il grido dell’infanzia non puà essere ripetuto perché il poeta ha smarrito per sempre la stagione, e così i gridi di disperazione, unica maniera di liberarsi dal dolore, rimangono rappresi come una roccia.

Non gridate più

Anche qui il poeta si sofferma sul grido, espressione di dolore lacerante e intenso, ultima spiaggia espressiva quando le parole articolate non servono più a nulla. D’altronde, anche i morti non si potrebbero uccidere, eppure è necessario ribadirlo, a un’umanità che non riesce forse più a rendersi conto delle soglie e delle separazioni più comuni. I morti, che sono sul serio e nient’altro che morti, possono insegnare ai vivi a non morire, subito almeno. I morti possono sussurrare, per quanto impercettibilmente, parole di vita e di continuità. Le loro parole sono come il fruscio dell’erba che cresce, per questo si capisce che il loro è un messaggio vitalistico. Ma occorre saperlo ascoltare, occorre smettere di creare frastuono che sovrasti, grida che superino il sussurrare di morti. Il nesso con i Sepolcri di Foscolo è anche in questo caso evidente. Grida, nell’accezione ungarettiana del termine, chi non ha la minima cura dei sepolcri, nessun rispetto dei morti. Crea il silenzio necessario e sufficiente ad ascoltarne le parole civili chi conosce  e pratica il silenzio, sapendo che è solo nelle nella quiete che esso sa creare che si può condurre un discorso civile.

Vita e poetica di Eugenio Montale

·         Gli Ossi di seppia  sono stati composti fra il 1916 e il 1925. La situazione della poesia è la medesima già messa in luce per Ungaretti e Saba: D’Annunzio è l’idolo da combattere e, parole sue, da “attraversare” come già seppe fare Gozzano, perché fra i padri è il più ingombrante e innovatore. Per Montale, poi, il superamento avviene assumendo come riferimento l’ironia gozzaniana, il minimalismo antieloquente dei crepuscolari e il moralismo e l’espressionismo di alcuni poeti raccolti sotto la rivista Voce (da cui la denominazione di vociani per questo indirizzo poetico); infine la sua inclinazione alla discorsività lo differenza dal frammentarismo ungarettiano. Possiamo partire, per delineare la sua poetica, dal titolo della raccolta: gli ossi di seppia sono quegli ossi sottilissimi che rimangono sulla spiaggia a testimoniare dell’intensa vita del mare in una loro maniera particolare, attraverso l’esilità e la resistenza che li caratterizza. Ben rappresentano, anche, l’essenza del paesaggio ligure, col loro essere quanto rimane di un poderoso lavorio delle acque, di un eterno ritorno di onde che levigano e modellano le scogliere, che tanto caratterizzano la costa ligure, e soprattutto quella di levante nella quale visse e a lungo, come si è detto, si ispirò Montale. All’interno della raccolta è poi la lirica I limoni a rappresentare un testo chiave della sua poetica: in aperta polemica coi poeti laureati (in primo luogo D’Annunzio), che scelgono di esprimersi con termini desueti e altisonanti, Montale si colloca fra i poeti antiaulici e antiaccademici, palesando qui il suo accordo con i crepuscolari: di cui l’elezione di una pianta semplice, comune come i limoni, a simbolo della propria poesia. D’altronde è anche vero che parole poco usate entrano nella poesia monta liana (anche solo, come in questo caso, per venire rinnegate), ma il fatto è che all’anti eloquenza così manifestata viene assegnato un significato ideologico: quello di affermare come non sia possibile, nemmeno ai poeti, affermare una qualche verità, farsi portatore di una qualche scoperta metafisica. La poesia è anti eloquente perché non ci sono verità da affermare, la verità, la rivelazione, sfugge, al massimo può essere (come vedremo) intravista o sfiorata, ma mai afferrata nella sua integrità così da poter essere poi enunciata a chiare lettere. D’altro canto, questa conclamata impossibilità di affermare verità è consonante con la percezione della totale disarmonia col reale di cui si diceva all’inizio: la poesia può permettersi di esprimere “qualche storta sillaba, e secca come un ramo” (Non chiederci la parola), altro che rivelazioni e definizioni. Di qui anche la predilezione per forme scabre e essenziali (nelle quali, ripetiamo, il paesaggio ligure è un’ottima fonte di ispirazione), ovvero per uno stile poetico in cui dominano parole tematiche (arsura, arsicce, aride, sterpi, pietrisco, petraie, salmastro, scabro, arcuata, ripa, grovigli, tronchi, turbini, gorgo, chiostra, rupi, stride, sgretola, s’abbarbica) dal suono evocativo, onomatopeiche, anzi, con la volontà di alludere, appunto, all’aspra difficoltà di scrivere riuscendo a dire qualcosa di vero e utile. Evidente che il paesaggio rappresenta anche una realtà interiore, quella del poeta per cominciare, che conosce per prova diretta l’angoscia, l’aridità, il senso di solitudine le cui tracce si proiettano nel paesaggio e nelle parole poetiche. A questo proposito, occorre qui introdurre la definizione di correlativo oggettivo, un procedimento poetico che Montale condivide con il poeta inglese Thomas Stearns Eliot, consistente nella scelta di oggetti ispiratori per la poesia che svolgono la funzione di evocare sentimenti o idee provviste di particolare valore comunicativo. Nel caso del componimento I limoni, per esempio, questi alberi rappresentano il correlativo oggettivo della possibile felicità, di quella che si para all’improvviso di fronte allo sguardo che meno se l’aspetta, mentre passa per caso in luoghi che ha sempre visto, che sembrano poter esprimere solo grigiore e uniformità, e che invece celano dietro a portoni dischiusi improbabili felicità. Disarmonia, angoscia, male di vivere: su questi temi si fonda l’ispirazione di Montale, convinto come Leopardi che il dolore sia per lui una condizione ineludibile e che la vita, ovvero la vita felice, sia altrove, spetti ad altri, forse. Nascono così le metafore e i correlativi oggettivi (che possiamo anche considerare una variante moderna delle antiche simbologie, nonché  l’espressione della volontà di non rendere la poesia intrisa di sentimenti personali, oggettivando appunto le percezioni più profonde) più efficaci della raccolta: camminare lungo un muro invalicabile, vedere il cielo a pezzi, tra le cimase,    trovarsi impigliato nelle maglie di una rete, in una condizione, dunque, di sospensione, di incertezza dolorosa, cui si accompagna però anche la sensazione di essere a un passo dalla scoperta di qualcosa, di essere lì lì per afferrare un bandolo, di cogliere il senso (o il non senso) della vita: a siffatto svelamento alludono metafore come il varco, la smagliatura nella rete, lo sbaglio di natura, l’anello che non tiene e altre affini. Da qui, una volta di più, proviene anche per Montale il senso della poesia: i cedimenti e i varchi sono comunque percezioni del poeta, istanti perfetti che la penna può registrare. I momenti di grazia, comunque, come si legge anche nei Limoni giungono senza avvertimenti, in luoghi banali e poco adatti, almeno apparentemente, a ospitare rivelazioni: il vate non è più, infatti, l’officiante in un tempio gravido di sacralità, ma un uomo che guarda e ascolta, sente  e soprattutto sa aspettare che la realtà per qualche attimo riveli se stessa.  Prima di procedere a una lettura dei testi, passiamo in rassegna altre raccolte di Montale: dagli Ossi di seppia alle Occasioni a La bufera e altro c’è più sviluppo che frattura: restano validi gli originari postulati del pensiero, cambiano le circostanze storiche e personali, giacché si afferma la dittatura fascista, scoppia la guerra, sopraggiungono poi le tensioni del dopoguerra, mentre nella vita del poeta nascono e muoiono amori, cambiano i paesaggi. Nelle Occasioni, per esempio, il paesaggio non è più, salvo eccezioni come appunto La casa dei doganieri, non è più quello ligure, ma piuttosto quello toscano; più specificatamente, il paesaggio è meno protagonista di queste liriche, che sono piuttosto poesia della memoria e della rievocazione di situazioni relazionali: il motivo dell’amore è frequente, il poeta dialoga per lo più con una figura femminile assente (Dora Markus, Clizia), caricando la valenza simbolica di tale evocazione (l’amore lontano o impossibile è un’oggettivazione della solitudine esistenziale, del senso di isolamento che egli, disarmonico col reale, sente come condizione ormai assoluta). A Clizia Montale attribuisce caratteri stilnovistici, che diverranno esplicitamente cristiani in La bufera e altro. Considerata dal poeta la sua miglior raccolta, che comunque non può prescindere dalle precedenti, si arricchisce di richiami metafisico-religiosi, che però qui si esauriscono: alla fine Montale ritorna all’idea che il varco non esista, e che per questo non si manifesti, abbracciando una tesi che nuovamente lo connette con Leopardi, che la espresse nella Ginestra: ostinatamente l’uomo continua a cercare, pur andando incontro a continui fallimenti e smentite, lasciandosi in eredità, di generazione in generazione, questa volontà di ardimento e di sfida. Infine in  Satura si mescolano motivi diversi: colloqui con l’aldilà (la moglie amata è morta), epifanie di esseri salvifici e fantasmi, meditazioni sul senso dell’esistenza, registrazioni di eventi quotidiani e ironie sull’insensatezza del mondo.

Non chiederci la parola

    Sono dichiarazioni al negativo quelle che il poeta non-vate  può esprimere, uno  che sente profondamente la crisi del proprio tempo. La squadratura oggettiva della realtà è retaggio degli uomini sicuri di sé,  di quelli che non si curano della propria ombra e camminano sicuri sotto la canicola. L’”Ah” che apre al loro ingresso nella lirica è un’esclamazione ch’è pure una presa di distanza, ovviamente. Le nature poetiche  sono fondamentalmente disadattate, psicologicamente e moralmente, e da loro non ci si può attendere alcuna certezza.

I limoni

Il poeta  conduce nei luoghi preferiti della sua aspirazione antiaccademica, fra stradicciole frequentate da ragazzi scalzi che vanno a caccia di anguille, fra orti e alberi, dove regna un silenzio che placa qualsiasi passione. E’ nel silenzio che sembra di poter presagire qualcosa, che lo sbaglio di Natura pare sul punto di palesarsi, ed è lì che avverrebbe la scoperta. Ma sono inganni, miraggi: ogni ombra umana in lontananza, in questi casi, sembra una Divinità. La verità è un’altra, la realtà è un’altra: una città rumorosa e abitata da persone tediate e meschine (avara l’anima). Sembrerebbe non esserci salvezza, ma da qualche parte, dietro a un portone semichiuso, occhieggia un albero di limone, l’albero che dona profumo anche ai poveri, che squilla la sua canzone felice per occhi che sanno vedere.

Spesso il male di vivere ho incontrato

La visione è leopardiana: il male di vivere caratterizza l’universo interno, non risparmia né cuna né covile. Per il poeta ligure la sua manifestazione è simbolicamente  triplice: male è il ruscello che per un impedimento non riesce a scorrere, male è la foglia bruciata dal sole che s’accartoccia, male è il cavallo crollato al suolo. SI passa  da un elemento  originario (l’acqua), a un vegetale e un animale. L’uomo è solo sfiorato, ma se ne coglie la presenza come già nel giardino-ospedale-cimitero del noto pensiero leopardiano. Alla triade della sofferenza universale, l’icastico componimento che offre una specie di soluzione al problema del male nel mondo, contrappone la triade dell’Indifferenza, divina cura per ammalati cronici e irreversibili: una statua (di nuovo un elemento originario), una nuvola (secondo elemento originario) e un falco in volo. L’uomo è assente e la poetica degli oggetti regna sovrana.

Cigola la carrucola

Poesia del ricordo che reca con sé l’impossibilità del recupero. Niente di ciò che fu può essere ancora, perché nelle lontananze che solo il tempo può scavare si perde non solo la persona amata ma anche se stessi. In ogni istante si diventa altri, e quando si guarda nell’acqua del pozzo, i visi estranei non si contano, sono tutti quelli che abbiamo conosciuti, siamo noi stessi.

La casa dei doganieri, da Le occasioni 

L'ispirazione, l'eco,  è l’A Silvia di Leopardi:  a una casa dell’infanzia del poeta si collega una fanciulla, Annetta, morta molto giovane. Anche se le interpretazioni si sprecano, e pure  le illazioni su Annetta, è evidente che, come nel caso di Cigola la carrucola, ci troviamo di fronte a poesia del ricordo, come possibile evento miracoloso che generi un riscatto esistenziale portando felicità, vita autentica, liberazione dall’angoscia. Ma il filo del ricordo, fallato, diversamente da quello offerto da Arianna a Teseo per uscire dal labirinto, si ingarbuglia e finisce per non portare da nessuna parte. Il varco forse è lì, ma non arrivano i segnali metafisici che si vorrebbero e il ricordo illanguidisce e a poco a poco sfuma. Ogni significato si perde, perfino quello della vita e della morte, di chi sia vivo e chi morto e il poeta resta nella sua solitudine angosciosa.

Ho sceso, dandoti il braccio 

Commossa e affettuosa rievocazione della moglie morta: la consuetudine di vita con la Mosca è tragicamente interrotta e il poeta, con pudicizia, mantenendo un  tono dimesso da poeta non laureato, ne lamenta l’assenza, per lui catastrofica. La moglie non è la creatura angelicata cantata in altri suoi componimenti, ma una donna di ogni giorno, la donna di ogni giorno, e in lei Montale celebra l’unica vittoria che si possa celebrare in un mondo in cui non si riescono a trovare significati profondi: quella della vita quotidiana, del quieto e solido affetto grazie al quale si riescono ad affrontare meglio i dolori che accomunano tutti.

Ermetismo e Quasimodo

Quella di ermetismo è una nozione discussa. In discussione in particolare l’estensione del fenomeno da qualificare come ermetico. Iniziamo col termine, che risale a Ermete Trismegisto, ovvero a una dottrina filosofico-religiosa di tipo esoterico fiorita nella tarda età ellenistica e che da lui prese il nome di ermetismo. L’accezione con cui venne usata in ambito letterario in Italia risale al critico Francesco Flora, che nel 1936 associa al termine l’intero sviluppo della lirica italiana da Ungaretti a Montale a un gruppo di scrittori fiorentini legati a riviste come  "Frontespizio" e "Campo di Marte". Da anni ormai  però prevale un’interpretazione più riduttiva del fenomeno ermetico, che lo associa solo al gruppo fiorentino, escludendo Montale e Ungaretti. Dal punto di vista tecnico questa poetica affonda comunque le sue radici nel simbolismo (Verlaine, Mallarmé, Valéry,  Eliot). Si tratta di nuovo di poetica della poesia pura, animata dalla volontà di restituire  forza evocativa, senza preoccuparsi dell’immediata comprensione del messaggio poetico (di qui la definizione di ermetica, da intendersi soprattutto  nel senso di breve e oscura. Un fiancheggiatore, più che un caposcuola, dell’ermetismo è Salvatore Quasimodo, nato a Modica (Ragusa) nel 1901 e morto a Napoli nel 1968. Soprattutto nelle prime raccolte, come Oboe sommerso del 1930, esprime un’ansia metafisica che lo rende particolarmente affine ai poeti ermetici. Anche Quasimodo affronta come tema principale la pena di vivere dell’uomo moderno, trovando nelle memorie d’infanzia  e nel fascino perenne della terra materna, al contempo un motivo consolatorio e un orizzonte fisico e metafisico per il proprio dolore. 

Ed è subito sera (dall'omonima raccolta del 1942)

Tratti salienti del componimento brevissimo, riconducibili all'ermetismo e in grado di renderlo un egregio manifesto del medesimo, sono appunto la concisione espressiva a il ricorso all'analogia. Uno dei pregi dell'analogia, rilevati tanto dagli scrittori simbolisti dell'Ottocento quanto, con altre finalità comunicative, dai futuristi,  consiste nella possibilità di rendere vicino ciò che è lontano, se non annullare del tutto ogni distanza pur  mantenendone una tenue traccia. Si capisce che si sta parlando di un estremo di arditezza espressiva, dimostrabile passando al vaglio ogni singola parola della poesia: ognuno, pronome indefinito secondo la grammatica, è in sé scelta analogica, in quanto richiama al suo interno una moltitudine (tutti gli esseri umani o l'umanità in genere)  implicata, se non costretta e prigioniera,  nella inesorabile condizione di  solitudine esistenziale esplicitata in questo incipit che suona subito come un'epigrafe funeraria. Il secondo verso rende implacabile la sentenza di morte solitaria (evidentemente quella che si suole chiamare vita) evocata nel primo verso e solo tenuemente alleviata e corretta dalla presenza di un cuor della terra dove gli esseri stanno: l'ognuno infatti è anche trafitto da un raggio di sole, con subitaneo capovolgimento della positività assegnata di norma alla stella in questione, chiamata qui a svolgere una funzione violenta, a trafiggere addirittura come una freccia infuocata, come un dardo punitivo scoccato da un arciere malevolo e nemico (un Apollo infuriato come ai tempi dell'Iliade) il malcapitato cui capiti di vivere sulla Terra. La vessatoria, tormentata condizione cessa, con la complicità dei due punti a fine verso, nel momento in cui sopravviene la sera. Subito, si badi, ed è in sé una buona notizia, non fosse che il verso stringe nella cornice stretta delle sue quattro parole l'evento considerato più ineluttabile e pur sorprendente per tutti (quello al quale meno si è preparati) ovvero la morte, la fine di tutto. 



 




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