RIPASSO ITALIANO MODULO 8 - CREPUSCOLARI E FUTURISTI - GOZZANO E PALAZZESCHI (SIGNORINA FELICITA/E LASCIATEMI DIVERTIRE
MODULO 8: crepuscolari (Gozzano) e futuristi (Palazzeschi)
Dettagli: Guido Gozzano, La signorina Felicita ovvero la felicità; Tommaso Marinetti, Manifesto del futurismo, Manifesto tecnico della letteratura futurista, Aldo Palazzeschi, E lasciatemi divertire.
Dal vol. 3b 640-642; 688- 693; 697-705; 717-724
Il Novecento comincia (anche) quando gli scrittori con gli occhi, con la mano e con la bocca deformata dal riso, aggrediscono e sbeffeggiano i naturalisti e i decadenti: è una sintesi che coglie, suggestivamente, l'affinità tra crepuscolari e futuristi, che presentano poi, a conoscerli meglio, caratteristiche molto diverse.
GOZZANO
Gozzano (1883-1916 Torino), ha scritto Eugenio Montale, entra sulla scena letteraria con le mani in tasca: il poeta degli Ossi di seppia coglie, con questa efficace sintesi metaforica, l'insieme di ironia e colloquialità con cui l'autore della Signorina Felicita ovvero la felicità e di Totò Merùmeni (entrambi compresi nei Colloqui pubblicati nel 1911) si esprime come dissacratore di d’Annunzio, caposcuola della linea crepuscolare, romantico poeta ottocentesco e maestro del Novecento. I Colloqui, alla loro prima comparsa, sono apprezzati da Giuseppe Antonio Borgese (che aveva coniato l’anno prima il termine crepuscolare) sul “Corriere della sera”, mentre altri contemporanei li criticano, come espressioni d'un dannunzianesimo minore. Discorsività, colloquialità e ironia sono le caratteristiche dominanti della sua poetica, che si possono sicuramente leggere anche (ma non solo) in chiave antidannunziana), ma è certo riduttivo sottolineare solo questa componente, facendo di lui un poeta ripiegato e incline all'autocompatimento, dal momento che il registro ironico di per sé concorre a correggere del tutto questa possibile deriva della poesia del crepuscolo.
COMMENTO DELLA SIGNORINA FELICITA
Poemetto in otto sezioni, composte di sestine di endecasillabi, sviluppa un racconto ricostruito sul filo della memoria (in esergo il poeta riporta il giorno onomastico, 10 luglio, di santa Felicita) e ambientato nella zona del canavese, nei pressi di Agliè, in cui Gozzano era solito trascorrere periodi estivi. Qui vive, in una magione antica (forse, ancor più, vecchia) e decadente, ormai declassata a casa di campagna, la giovane Felicita, figlia di un benestante del luogo, che l'inchiostro dell'ironia di Gozzano dipinge così: quel tuo buon padre, quasi bifolco e in fama d'usuraio (vv. 49 e 50). Gozzano trascorre giorni piacevoli in compagnia di persone che non appartengono al suo mondo, quello cittadino e intellettuale, ma soprattutto assiste con un misto di tenerezza e compassione, non scevre di autocompiacimento, al sorgere di una intensa simpatia (se non amore) nei suoi riguardi da parte della giovane. Felicita rappresenta evidentemente per lui un sogno di felicità impossibile, resa tale dal tipo di esistenza da lui condotta fino a quel momento (e alla quale comunque è inesorabilmente destinato), ovvero appunto quella di un intellettuale, interiormente segnato da quella malattia dello spirito che abbiamo imparato a conoscere a metà secolo con Baudelaire, e alla quale sono stati dati i nomi di ennui, spleen, o si sono trovate formule utili a esorcizzarla, come le corrispondenze (sempre baudeleriane) o in generale come l'intero afflato simbolista, predisposto a rendere il poeta un interprete unico e insostituibile, alleviando così il senso di inanità esistenziale o, addirittura, rendendolo uno strumento di redenzione. Gozzano è certo ancora un interprete di questo sentire, ma per via della collocazione a inizio del nuovo secolo la sua voce diventa meno sentenziosa (in questo senso è un anti vate) e soprattutto si carica di ironia. Nel poemetto, dunque, la signorina Felicita, quasi brutta, priva di lusinga (v. 73), con l'iridi sincere azzurre d'un azzurro di stoviglia (vv. 83-84) ha amato il poeta (tu m'hai amato, v. 85), che da parte sua può soltanto (ed è una consapevolezza che attraversa tutta la poesia) renderla protagonista, oltre che della poesia (sappiamo che non è poco, il caso della Beatrice di Dante insegna...) di un sogno impossibile di vita normale: Mia cara Signorina, se guarissi ancora, mi vorrebbe per marito? (vv. 269-270) Se un giorno guarissi (e sappiamo dalla biografia che si tratta di un periodo ipotetico dell'irrealtà, dato che Gozzano muore a trentadue anni di tubercolosi), domanda il poeta tra il serio e il faceto, Felicita lo sposerebbe? La dichiarazione dà luogo, nella quinta sezione, a una scena che potrebbe essere romanticamente sentimentale, persino stucchevole, ma che l'ironia leggera del poeta rende invece molto eloquente: la Signorina piange (sul serio) ma presto il pianto volge al riso, come uno scherzo infantile, e ottiene la promessa di non sentir più simili discorsi. tenuti a una che si ritiene brutta e poveretta (v. 272). D'altronde il poeta, anzi l'avvocato, come viene appellato da tutti nel contesto campagnolo, non può pensare davvero di diventare il marito di una Signorina Felicita, e questo anche se si sente profondamente tediato dal tipo dell'intellettuale gemebonda (v. 313) e in fondo attratto (tu mi faresti più felice, v. 312) dalla ragazza di campagna vivace e trasparente come l'aria (v. 299) ma soprattutto provvista solo della seconda classe, ignara di poesia e di Nietzsche e per nulla convinta del fatto che la Terra sia tonda. Per il poeta si tratta quindi di uscire da se stesso, di rinnegare la fede letteraria che fala vita simile alla morte (v. 301): l'unica soluzione per uno che ha appena esclamato io non voglio più esser io! (v. 320). Così, alimentandosi del contrasto fra il vero innamoramento di Felicita e il sogno d'evasione in un'altra vita del poeta, il racconto poetico culmina nella conclusione che è un distacco amaro senza fine e anche un distacco d'altri tempi (vv. 434-424), con cui Gozzano ironizza con i poeti iper romantici (cita un cantico del Prati, v. 430), e indirizza così un ultimo elegante sberleffo alle convenzioni, all'epoca e a se stesso, dichiarandosi un buono sentimentale giovine romantico...Quello che fingo d'essere e non sono!
PALAZZESCHI
Palazzeschi (Firenze, 1885-Roma, 1974) subisce una rigida educazione familiare e l’indirizzamento agli studi tecnici per volere del padre. Precoce tuttavia la sua propensione letteraria: si dedica al teatro come strumento di conoscenza della vera vita (il padre lo appoggia in questa sua passione, pretendendo però che sia considerato solo uno svago) e trascorre gran parte delle lezioni scolastiche scrivendo commedie; finisce così per iscriversi alla Reale Scuola di Recitazione Tommaso Salvini di Firenze, dove conosce l’amico e collega letterato Marino Moretti con cui si dedica a letture varie, quali Nietzsche, Pascoli, D’Annunzio. Verso i vent’anni comincia a scrivere poesie e le pubblica a proprie spese nascondendosi dalla famiglia, perché questa non approva la scrittura come fonte di guadagno (per questo, tra l'altro, adotta come pseudonimo il cognome della nonna materna con cui lo conosciamo). Al 1909 risale il suo romanzo futurista, Il Codice di Perelà che gli permette di ottenere il primo apprezzamento del pubblico e del mondo intellettuale, grazie alla considerazione di Filippo Tommaso Marinetti. Da lui, però Palazzeschi inizierà a prendere le distanze, dopo che, per la pubblicazione dell'Incendiario, il primo scriverà un'introduzione volta a propagandare il movimento e non a riconoscere e sostenere i contenuti del testo. A Marinetti pertanto, già nel 1912, comunica di non voler più pubblicare versi, bensì novelle su giornali e riviste per poi raggrupparle in volumi: tale operazione gli avrebbe permesso di prepararsi maggiormente alla scrittura di romanzi ed attirare così un pubblico di persone serie. Un ulteriore passo in direzione dell'elaborazione di uno stile personale avviene nel 1914, anno del suo primo viaggio a Parigi, dove tornerà altre volte e dove conosce molte personalità importanti, nonché uno stimolante ambiente intellettuale: il ventinovenne scrittore esce così dal ristretto ambiente fiorentino per conoscere la turbinosa ed innovativa temperie culturale europea per poi allontanarsi definitivamente dal movimento futurista.
COMMENTO DI E LASCIATEMI DIVERTIRE
Marinetti, in un commento, redatto su volantino, relativo a E lasciatemi divertire! di Palazzeschi, inserita nell'Incendiario nel 1910, definisce la poesia sia un trattato di arte poetica sia un poderoso schiaffo ai passatisti italiani. Il fondatore del futurismo riconosce quindi al poeta che, come sappiamo, non sarà eternamente fedele né a lui né al futurismo, due qualità essenziali per trovarsi a buon diritto ascritto al movimento futurista: rendere la poesia un'azione (elidendo i confini fra teoria e pratica poetica) e investirla di potenza e energia, rivolte ambedue a distruggere quanto ancora resista (tanto) dell'antico e del passato. Di qui la possibilità, per condurre uno studio del componimento, di riconoscere al suo interno l'applicazione pratica di procedimenti teorizzati nei Manifesti, come il paroliberismo, la dissacrazione del linguaggio canonico della letteratura, nonché un diffuso intento parodistico, condotto a spese del simbolismo di matrice decadente.
Principio e fine del componimento (anche nel doppio significato di finalità nonché di conclusione) è senza dubbio il gioco: quel divertimento, cui s'allude a partire dal titolo, che è soprattutto uno spazio libero nel quale il poeta può esercitare il suo diritto sovrano d'inventare anche senza rispettare regole, oppure forgiandone di continuamente nuove e sorprendenti, talora persino per lui. L'importante, è il sottotesto che si può leggere già a questo punto, è non prendersi sul serio, non permettere che la funzione (quella di poeta ovviamente) condizioni la comunicazione, investendola di pretese quali quella di essere sempre seria e di riuscire a superare il vaglio degli accigliati professori che se ne stanno dietro a tutte le porte (vv. 84-85). Il ricorso sorprendente e comico alle continue onomatopee, dà luogo a un effetto straniante che fa da sottofondo a un contrappunto dialogico al quale Palazzeschi ricorre spesso nell'Incendiario, non solo in questa poesia: ad ascoltare le corbellerie del poeta è infatti un pubblico che interviene con commenti e giudizi, non lesinando critiche sferzanti al testo (strofe bisbetiche, spazzatura di altre poesie) e all'autore (fesso, somaro). L'effetto che ne consegue è quello di pervenire, per via antifrastica, alla manifestazione di una profonda insofferenza nei confronti della poesia accademica, ma anche di quella per così dire popolare, nel senso di apprezzata dal pubblico dell'epoca. L'urgenza alla quale dà voce questo componimento è quindi quella di una comunicazione non stereotipata, che sappia reagire all'evidente fine di una lunga stagione letteraria in cui ai poeti si chiedeva ancora qualcosa, mentre è arrivato il tempo in cui gli uomini non dimandano più nulla dai poeti (vv. 91-92).
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