APULEIO - QUESTIONARIO - SAGGIO

 Apuleio

Raccontare, lo sanno bene gli affabulatori, è trasformare. Il passaggio dall’avvenuto al raccontato contiene micro e macro variazioni che dipendono dalla memoria dei soggetti, dalla loro capacità di esprimersi, in parte anche dalla loro volontà di essere fedeli a quell’originale che è la vita vissuta. Gli affabulatori sanno essere infedeli senza parere, sanno mistificare con coraggio e passione, talvolta persino con impudicizia.  Come nel film di Tim Burton  intitolato Big Fish, gli affabulatori possono essere scomodissimi padri, che mettono in imbarazzo i figli con le loro esibizioni, non di rado ripetute di fronte a pubblici diversi, ma senza prevedere contributi da parte degli ascoltatori, doverosamente tali e necessariamente passivi.  In effetti gli affabulatori, anche questo può renderli scomodi nel ruolo genitoriale, sono qualche volta narcisisti. Le storie che raccontano hanno sempre loro al centro, che così trovano il modo di moltiplicarsi: come narratori e come narrati. Lo specchio rimanda la loro immagine continuamente. Affabulatori, infedeli e narcisisti, ma pieni di fascino, che quando si unisca a sapienza e conoscenza del mondo può produrre i miracoli di una narrazione come le seconde Metamorfosi della letteratura latina, altro vertice di bellezza regalatoci dall’Antico. Il periodo in cui vengono composte è quello che suscita il desiderio d’esser nato allora di Pietro Citati (documentato nell’articolo di Maurizio Bettini): uno splendore ancora fulgente, non ancora appannato, splendore di parole che s’inanellano apparentemente senza sforzo; virtù della seconda sofistica che non ha bisogno di esibirsi perché le basta essere com’è, le basta guardare al passato per trovarvi il mito che le serve, ossia il mito da rielaborare e trasformare, inanellando metamorfosi su metamorfosi, affabulazioni su affabulazioni. Il mito è anche il cuore dell’opera di Apuleio, africano di Madaura, dove nell’età antonina, 125 d. C. nasce da famiglia agiata, per spostarsi prima a Cartagine e poi ad Atene, compiendo studi grammaticali, filosofici, coltivando scienze naturali, matematica, astronomia, musica, poesia e viaggiando per l’Asia greca e poi a Roma, dove esercita l’avvocatura e conquista fama di straordinario oratore. Tornato in Africa intorno ai trent’anni, a Oea (Tripoli) sposa la madre d’un suo amico conosciuto alla scuola di filosofia di Atene, vedova da anni, molto ricca, e più anziana di lui. I parenti della sposa sono del tutto contrari al matrimonio, mentre il figlio e amico di Apuleio appoggia il progetto. Poi però cambia idea, quando ormai i due sono sposati e, poiché da lì a poco muore, nei confronti di Apuleio si scatena una vera pioggia di calunnie, la più grave delle quali mossagli dal fratello minore del suo amico: viene accusato di aver gettato un sortilegio sulla donna per indurla a sposarlo. L’accusa di magia era molto grave, equivalendo a un tentativo di avvelenamento e prevedendo pene severe. Apuleio è trascinato in tribunale, dove si difende da solo redigendo una difesa che, successivamente rimaneggiata dall’Autore, ci è pervenuta  col titolo di Apologia o De magia liber. Vince la causa e si ritira a Cartagine: l’anno della morte non è noto, forse il 180. La sua opera principale sono le Metamorfosi o asino d’oro, un romanzo ante litteram, per le stesse ragioni per cui lo è il Satyricon di Petronio: sono entrambi intrisi di realismo, persino quando inanellano vicende fantastiche.  Il romanzo di Apuleio è costituito da undici libri, in cui il protagonista Lucio narra in prima persona casi straordinari occorsigli; la struttura è a cornice: la vicenda di Lucio, infatti, è inframmezzata da novelle che vengono raccontate da altri personaggi e da lui ascoltate e riportate. Proprio al centro del romanzo è incastonata la favola di Amore e Psiche. Iniziamo allora a indicare non uno ma più fili rossi, con cui tessere la trama di questo fantasioso autore. Il primo filo è l’affabulazione, la passione del racconto che può trasformare (il principio metamorfico che si manifesta così); il secondo è la magia, che rappresenta uno dei contenuti di rilievo di quest’opera di Apuleio, oltre che una protagonista indiscussa di una parte della sua vita; il terzo è la religione, in particolare quella misterica e ancor più in particolare il culto di Iside, associata a Osiride, ma celebrata da Apuleio, nella poetica pagina dell’Inno e dell’epifania  a lei dedicata alla fine dell’opera, come divinità sincretistica, summa di tutte le divinità femminili da Occidente a Oriente dell’orbe conosciuto. 

Ma ora, per entrare nello spirito della narrazione, ascoltiamo l’inizio, in cui il narratore e protagonista, Lucio, si presenta. 

Eccomi a raccontarti, o lettore, storie d'ogni genere, sul tipo di quelle milesie e a stuzzicarti le orecchie con ammiccanti parole, solo che tu vorrai posare lo sguardo su queste pagine scritte con un'arguzia tutta alessandrina. E avrai di che sbalordire sentendomi dire di uomini che han preso altre fogge e mutato l'essere loro e poi son ritornati di nuovo come erano prima. Il narratore avverte: quelle che narrerà son storie d’ogni genere, affabulazioni come si è detto, fatte per stuzzicare ammiccando, con arguzia e leggerezza. Storie di cui meravigliarsi, storie di mutazioni e di  metamorfosi, reversibili e irreversibili, che non di rado culminano con qualche morte.

Dunque, comincio. Certo che tu ti chiederai io chi sia; ebbene te lo dirò in due parole: le regioni dell'Imetto, nell'Attica, l'Istmo di Corinto e il promontorio del Tenaro nei pressi di Sparta sono terre fortunate celebrate in opere più fortunate ancora. Di lì, anticamente, discese la mia famiglia; lì, da fanciullo, appresi i primi rudimenti della lingua attica, poi, emigrato nella città del Lazio, io che ero del tutto digiuno della parlata locale, dovetti impararla senza l'aiuto di alcun maestro, con incredibile fatica. Perciò devi scusarmi se da rozzo parlatore qual sono, mi sfuggirà qualche barbarismo o qualche espressione triviale. Del resto questa varietà del mio linguaggio ben si adatta alle storie bizzarre che ho deciso di raccontarti.

Una dichiarazione di stile: la lingua che l’Autore intende usare è quel latino che si presta al mimetismo pur di rendere la realtà, come già abbiamo appreso da Petronio. I barbarismi e le espressioni triviali a questo si riferiscono. 

Incomincio con una storiella alla greca. Stammi a sentire, lettore, ti divertirai. Ero diretto in Tessaglia per affari (la mia famiglia per parte di madre, è originaria di quella regione e per il fatto che fra i suoi antenati vanta il celebre Plutarco e suo nipote, il filosofo Sesto, è per me titolo di gloria), dunque, ero diretto in Tessaglia e m'ero già lasciato alle spalle montagne ripide, valli impervie, umide pianure, campagne fertili e coltive e il bianco cavallo indigeno che montavo era stanchissimo. Così decisi di fare un po' di strada a piedi per sgranchirmi le gambe, stanco com'ero anch'io di star seduto in sella. Smontai, asciugai con cura la fronte del cavallo madida di sudore, gli accarezzai le orecchie, gli tolsi il morso e lo lasciai andar libero, al passo, perché smaltisse un po' la stanchezza e si svuotasse del peso naturale del ventre. E mentre quello a muso all'ingiù pascolava lento fra l'erba, io mi unii, come terzo, a due viandanti che in quel momento mi passavano accanto. Tesi l'orecchio per sapere di che cosa parlassero e sentii che uno dei due, scoppiando in una gran risata, diceva all'altro: «Ma la pianti di raccontar simili balle?» Io che sono sempre smanioso di novità, intervenni: «Non è per essere un ficcanaso, ma perché mi piace sapere un po' tutto o per lo meno quanto più è possibile, vi prego di mettermi a parte di quello che state dicendo; oltretutto ci vuol proprio qualche allegra storiella per farci sembrare meno scoscesa e impervia la strada che abbiamo davanti.» III «Sono frottole queste,» continuava, intanto, quello che aveva parlato per primo, «vere come quelle di chi vorrebbe far credere che basta una formuletta magica per fare andare i fiumi all'insù, rendere il mare una massa solida, impedire ai venti di soffiare, fermare il sole, far svaporare la luna, staccare le stelle dal cielo, oscurare il giorno e rendere eterna la notte.» Io, allora, incoraggiato, ripresi: «Ehi, tu, che evidentemente hai avviato il discorso, non prendertela, non badargli, continua il tuo racconto.» E all'altro: «In quanto a te fai male a tapparti le orecchie e a rifiutarti cocciutamente di credere a delle cose che potrebbero anche esser vere. Capita, sai, per una sciocca prevenzione però, di ritenere falso ciò che non si è mai visto o udito o che cade fuori della nostra comprensione; ma se poi ci pensi un po' su ti accorgi che tutto è spiegabilissimo, non solo, ma che è anche realmente possibile. IV «Per esempio, l'altra sera, a tavola fra amici feci la bravata di mandar giù un boccone troppo grosso di polenta e formaggio e per poco non mi strozzavo, tanto quella roba molliccia mi s'era attaccata al palato e mi impediva di respirare. Eppure, non molto prima, proprio con questi occhi, ad Atene, davanti al portico Pecile, avevo visto un giocoliere infilarsi nella gola, per la punta, una spada affilata, di quelle che usano in cavalleria, e, per poche monete, ficcarsi fin giù nelle budella, una lancia da cacciatore, proprio dalla parte della punta mortale: ed ecco che al legno dell'asta, la cui punta di ferro introdotta nella gola sbucava dietro la nuca, si attaccò un ragazzino leggiadro e agilissimo e cominciò a far capriole e volteggi tali da parer tutto snodato e senz'ossa e noi lì a bocca aperta a guardarlo. Pareva il provvidenziale serpente che s'attorciglia al bastone nodoso di Esculapio. «Dài, allora, ti lascio la parola, riprendi il racconto che stavi facendo. Ti basti che sia soltanto io a crederti, anche per lui; in cambio, alla prima locanda che incontreremo, ti offrirò da mangiare, parola mia.»  «Mi va bene e ci sto» mi fece. «Avevo appena iniziato e, comunque, ricomincerò dal principio. Ma prima voglio giurarti, per questo dio sole che tutto vede, che le cose che sto per narrarti sono tutte vere e controllabilissime; del resto, voi stessi non avrete più dubbi una volta arrivati alla più vicina città della Tessaglia dove questi fatti sono accaduti alla luce del sole e tutti ancora ne parlano. «Ma prima lasciate che io vi dica da dove vengo e chi sono: mi chiamo Aristomene e sono di Egio. Mi guadagno da vivere vendendo miele e formaggio e prodotti simili, su e giù per le osterie della Tessaglia, dell'Etolia e della Beozia. «Fu così che venni a sapere che a Ipata, la città principale della Tessaglia, si vendeva formaggio fresco, di buona qualità e a un prezzo d'occasione. Subito mi ci precipitai per acquistarne l'intera partita. Ma si vede che partii sotto cattiva stella perché Lupo, il grossista, mi aveva preceduto e il giorno prima aveva fatto incetta di tutto. Così, sfumata la speranza del guadagno, innervosito e stanco per quel viaggio fatto in fretta e furia e per nulla, non mi restò, che andarmene alle terme. 

Si determina fin dall’inizio l’associazione alla quale non ho ancora fatto riferimento, che può bene diventare un ulteriore filo rosso della narrazione: quella fra viaggio e racconto. I racconti possono avere come oggetto viaggi,  ma possono anche accompagnare un viaggio: nel viaggio, infatti, ci si incontra e, se ci si ritrova fra affabulatori, si racconta. Così nasce, non di rado, il tipo della narrazione a cornice, quella concentrica, con l’anello grande che rappresenta la storia principale e gli anelli via via più piccoli che sono storie dentro a storie. Il modello boccaccesco è ancora differente, dato che il primo anello è per così dire statico, i narratori sono sedentari, ma questa può rappresentare appunto una variante originaria. In secondo luogo troviamo espresso il filo già citato della magia, e il problema ch’essa pone di partenza: se crederci o meno. Ma la pianti di raccontar simili balle è l’esclamazione che sollecita l’interesse del narratore, qui connotato per la prima volta (ossia prima di palesarsi  motivo dominante) come curioso, desideroso di novità, nonché disposto ad assegnare all’affabulazione quella funzione distraente che risale alla cultura popolare (le culture contadine che utilizzano le stalle alla sera per riunirsi e raccontare vicino al fuoco). Il narratore di secondo grado qui introdotto, si presenta come Aristomene, ma prima che inizi a raccontare Lucio s’intrattiene ancora sul tema della magia e della credulità (per non usare impropriamente il termine fede) che comporta: ci sono cose che sembrano false e invece sono vere e spiegabili. L’affermazione è subito confermata da Aristomene, originario di Egio, che dichiara preliminarmente di raccontare solo eventi che possono essere confermati da chiunque a Ipata, in Tessaglia, dove la vicenda s’ambienta e dove Lucio è diretto.

 «Ma pensa un po' chi vidi: Socrate, un vecchio amicone. Se ne stava seduto per terra, ravvoltolato a mala pena in un mantellaccio sbrindellato, irriconoscibile, tanto era pallido e smagrito; pareva uno di quei poveri disgraziati perseguitati dalla malasorte che si riducono a chiedere l'elemosina alle cantonate. «Nonostante la confidenza e la familiarità, mi avvicinai a lui con una certa titubanza: 'Ohilà, Socrate,' gli feci, 'cos'è questa storia? Com'è che sei in questo stato? Che t'è capitato? A casa ti piangono per morto e ai tuoi figli i giudici hanno già dato un tutore; con tua moglie, che t'ha fatto il funerale e che s'è consumata in lacrime e che per il pianto le si sono seccati gli occhi, i suoi parenti insistono perché si consoli della tua perdita e rallegri la tua casa con nuove nozze. E tu, intanto, te ne stai qui che mi sembri proprio un fantasma. È proprio un avvilimento!' «'Ah, Aristomene,' mi rispose, 'come si vede che non conosci i colpi mancini della fortuna, i suoi capricci, i suoi tranelli' e, arrossendo per la vergogna, si tirò sulla faccia quel suo mantello sbrindellato; ed io vidi che sotto era nudo dal ventre al pube. «Non reggendo alla vista di tanta miseria, gli tesi la mano e feci per tirarlo su. VII «Ma lui, col viso coperto: 'No, no, che la malasorte continui a godersela la sua vittoria.' «Finalmente riuscii a tirarmelo dietro e intanto gli feci indossare uno dei miei indumenti per coprirlo alla meglio e me lo portai alle terme, rifornendolo di tutto l'occorrente per ungersi e asciugarsi; anzi io stesso lo strofinai ben bene per togliergli quel dito di sudiciume che aveva addosso. Dopo averlo ripulito, benché fossi stanco anch'io, lo portai di peso alla locanda, ché a mala pena si reggeva in piedi, e qui lo ficcai in un letto caldo, gli diedi da mangiare e da bere, lo tenni su con qualche storiella, tanto che in breve ritornò loquace e allegro e si lasciò perfino andare a qualche battuta. A un tratto, però, dette in un sospiro profondo, doloroso, e picchiandosi la fronte con una gran manata: 'Ma si può essere più iellati di me' cominciò a lamentarsi 'se soltanto per aver voluto correre dietro a uno spettacolo di gladiatori di cui, si dicevano meraviglie, mi sono ridotto in questo stato. Ricordi che ero andato in Macedonia per il mio lavoro? Ebbene gli affari m'erano andati a gonfie vele e così, dopo nove mesi, stavo tornando a casa, ben fornito di quattrini, quando poco prima di giungere a Larissa, mi venne in mente di fare una capatina a quel famoso spettacolo, ma, in una valle impervia e deserta, fui assalito da una banda di briganti ferocissimi che mi lasciarono completamente al verde: per fortuna non ci rimisi la pelle e riuscii a raggiungere la locanda di una certa Meroe, una donna matura ma ancora belloccia, alla quale raccontai dei miei lunghi viaggi, del mio desiderio di tornare a casa e, infine, della rapina subita. Ella fu molto gentile, mi preparò gratis una graditissima cena e, alla fine, andata in fregola, mi portò a letto con lei. Scalogna maledetta, perché bastò che dormissi una sola notte con lei per impegolarmi in una di quelle relazioni che poi ti tiri dietro per anni: le diedi quei pochi stracci che i briganti mi avevano lasciato addosso, e pefino gli spiccioli che, facendo il facchino (allora ero ancora in gamba) mi venivo guadagnando. Ed ecco in quale stato tu l'hai visto, quella buona donna e la mia cattiva stella, mi hanno ridotto.' VIII «'Perdio, te la meriti proprio una fregatura simile, e anche di peggio se fosse possibile, dal momento che invece di pensare alla tua casa, ai tuoi figli, ti sei messo a fare il galletto, e con una vecchia baldracca.' «'Zitto, per carità, zitto' fece quello tutto spaventato, portando l'indice alle labbra e volgendo il capo all'intorno come per assicurarsi che nessuno ascoltasse 'non parlare male di quella donna perché è una maga; questa tua linguaccia potrebbe procurarti qualche guaio.' «'Ma che stai dicendo? Che razza di donna è costei, questa tua bellezza da taverna?' «'È una maga, un'indovina' insistette 'capace di tirar giù la volta celeste e di sollevare la terra, di far diventare le fonti di sasso e liquefar le montagne, di riportare alla luce gli dei dell'inferno e inabissare quelli del cielo, di spegnere le stelle, di illuminare perfino il Tartaro.' «'Ma piantala, dài, con questa messinscena da tragedia, smettila di recitare e parla chiaro e naturale.' «'Vuoi che te ne racconti una o due o anche molte delle cose che ha fatte? Che gli uomini delle nostre parti si innamorino pazzamente di lei, anzi tutti gli indiani e gli africani dell'uno e dell'altro oceano e perfino le genti che abitano agli antipodi, è solo un piccolo segno della sua magia, una bazzecola. Ma sta a sentire quello che ha fatto, testimone un sacco di gente. IX «'Con una sola parola ha mutato in castoro un suo amante che s'era messo con un'altra. E sai perché proprio in castoro? Perché questa bestia, quando è inseguita e teme di essere catturata, si stacca da sé i testicoli. Questo lei voleva che capitasse anche a quel suo amante che l'aveva piantata per un'altra. «'E ancora: ha trasformato un oste che era suo vicino e le faceva concorrenza, in un rospo: ora quel povero vecchio sguazza in una botte del suo vino immerso nella feccia fino alla gola e chiama con suoni rochi che vorrebbero essere amabili i suoi avventori di un tempo. «'Un altro l'ha trasformato in montone: era un avvocato che l'aveva calunniata e da montone ora difende le cause. «'Alla moglie di un suo amante che le aveva indirizzato una paroletta pepata ha tappato l'utero e poiché quella era incinta le ha bloccato il feto in corpo condannandola a una perpetua gravidanza. La gente ha fatto i conti, dice che sono otto anni ormai che la poveretta si porta dentro quel peso ed è gonfia come se dovesse partorire un elefante. X «'Per queste e per tante altre vittime l'indignazione popolare crebbe a tal punto che un giorno venne deciso, senza tanti complimenti, di condannarla alla lapidazione. Ma lei con le sue arti magiche prevenne la sentenza; un po' come la famosa Medea che, ottenuta da Creonte una sola giornata di dilazione, con la fiamma sprigionata da una corona magica mise a fuoco tutta la reggia con dentro lui stesso e la figlia. Così questa Meroe, fatti alcuni sortilegi sopra un sepolcro (come mi confidò poco dopo tra i fumi del vino) ed evocando misteriose potenze soprannaturali, chiuse tutti nelle loro case tanto che per due interi giorni nessuno riuscì a sbloccare le serrature, a scardinare le porte, a sfondare le pareti. «'Questo finché, per consiglio comune, non la supplicarono ad una voce giurandole solennemente che non le avrebbero torto un capello, pronti, anzi, a proteggerla da chi avesse osato qualcosa contro di lei. «'Solo così' ella si rabbonì e liberò dall'incantesimo la città. Ma l'ideatore del complotto lasciò serrato in casa e questa, così com'era, pareti, pavimento, fondamenta, di notte tempo, fece volare cento miglia lontano, in un'altra città, posta in cima a una montagna dirupata e priva d'acqua. E poiché le case erano addossate le une alle altre e non c'era spazio per quella del nuovo venuto, te la scaraventò davanti a una porta della città e se ne andò.' XI «'Certo, caro Socrate, che le cose che mi racconti hanno dello straordinario e fanno venire i brividi. M'hai messo un'agitazione addosso, anzi proprio un bello spavento. Altro che pulce nell'orecchio, questo è un colpo di lancia se penso che quella vecchia, valendosi delle sue arti divine può benissimo venire a sapere di questi nostri discorsi. «'Perciò ficchiamoci subito buoni buoni sotto le coperte e, appena ci siamo un po' tolti di dosso la stanchezza, prima che faccia giorno, filiamocela di qui, quanto più lontano è possibile.' «Gli stavo ancora parlando per convincerlo, che quel buon Socrate già dormiva e russava di grosso, stanco della giornata e intontito dal vino cui non era più abituato. Così, chiusa la porta e bloccati i chiavistelli, anzi avvicinato il letto all'uscio e addossatovelo ben bene contro, mi coricai anch'io. «All'inizio, per la paura, non riuscii a chiudere occhio, poi verso mezzanotte mi appisolai.

S’avvia la tecnica del racconto nel racconto. Aristomene, a Ipata, incontra un vecchio amico, Socrate. Ridotto malissimo, quasi irriconoscibile, dato per morto a Egio, a detta di Aristomene, dai suoi familiari, Socrate prende a raccontare una storia tutta intrisa di magia. Ritorna il motivo della curiositas negativa, che lo induce a voler vedere uno spettacolo di gladiatori magnificato da tutti. Così incorre in una rapina e trova ricetto in una locanda, gestita da una tal Meroe, donna matura ma di bell’aspetto, che lo accoglie gentilmente e poi lo porta a letto. Da qui inizia la sventura, racconta Socrate, perché si trova invischiato in una relazione. Dapprima Lucio intende solo la componente realistica della faccenda, che poi però si rivela ben più drammatica, in quanto la donna è una maga. Apuleio sta qui già anticipando la maggior parte della tematiche, ma anche degli intrecci fra tematiche, che costituiscono la trama fittissima delle sue Metamorfosi: curiosità, sesso e magia, sono implicate in questa vicenda di Socrate, così come lo saranno in quella di Lucio e nella gran parte delle fabulae di cui è costituita la trama. Fermiamoci anche un attimo a considerare i piani della narrazione: c’è quello di partenza (Lucio che si sta recando in Tessaglia), un secondo (scaturito dall’incontro con Aristomene), un terzo (Aristomene che incontra Socrate) e un quarto ulteriormente suddiviso in cinque livelli narrativi, con Socrate che, per provare come Meroe sia una potentissima maga, racconta, sempre portando a conferma quello che la gente vede e sostiene, casi di persone che si sono imbattute nella sua potente magia, in un crescendo per arrivare al coinvolgimento della città intera. L’effetto del cumulo narrativo è emotivo: produrre spavento, tensione, aspettativa, che vengono esplicitate da Aristomene, il quale sta tentando di salvare Socrate, portandolo il più lontano possibile da Ipata. Poi, Aristomene e Socrate s’addormentano in una locanda fuori città. 

 Ma avevo appena preso sonno che con un fracasso tremendo, certo assai maggiore di quello che avrebbero potuto fare dei ladri, i battenti della porta si spalancarono, i cardini si spezzarono e volarono via. Il mio lettuccio, piccoletto com'era e traballante e tarlato per giunta, a quel gran colpo si ribaltò rovinandomi addosso e io, finito per terra, vi rimasi sepolto.  «Come è vero che certe impressioni, a volte, producono reazioni contrarie. Capita spesso, per esempio, di piangere per la gioia; così, nonostante il terribile spavento io non potetti trattenere il riso vedendomi da Aristomene mutato in tartaruga. Steso per terra, coperto dal provvidenziale lettuccio, sbirciavo cosa stesse accadendo ed ecco che vidi entrare due donne di età piuttosto avanzata: l'una reggeva una lucerna accesa, l'altra una spugna e una spada ignuda. Con quel loro armamentario si avvicinarono a Socrate che se la dormiva placidamente: «'Caro il mio Endimione' esclamò quella che portava la spada 'eccolo qui, sorella Pantia, il mio Ganimede, quello che giorno e notte ha abusato della mia innocenza e che ora non soltanto mi diffama vigliaccamente ma si accinge a squagliarsela. Ma io, allora dovrei fare la fine di Calipso abbandonata dallo scaltro Ulisse e piangere la mia eterna solitudine?' «Poi con la mano tesa indicò me a sua sorella Pantia 'Ma guardalo là, Aristomene, questo bel consigliere, che ha avuto la bella pensata della fuga e che ora se ne sta mezzo morto accucciato sotto il letto a guardare illudendosi di passarla liscia dopo che mi ha coperto di improperi. Costui te lo servirò dopo a dovere, anzi no, all'istante si dovrà pentire della sua linguaccia e della sua curiosità, questo impenitente ficcanaso.'  «Come intesi quelle parole cominciai a sudar freddo e presi a tremare tutto fin nelle viscere, tanto che anche il letto mi si mise a traballar sulla schiena, mentre l'amabile Pantia continuava: 'Allora, sorella, cominciamo con questo? Facciamo come le Baccanti? Lo riduciamo a pezzettini, oppure lo leghiamo e poi gli tagliamo i testicoli?' «'Ma no,' replicò Meroe (a quel che me ne aveva detto Socrate, questo nome le si addiceva proprio), 'che resti vivo, invece, così getterà una manciata di terra sul corpo di questo miserabile' e, così dicendo, rovesciata la testa di Socrate da un lato, gli immerse la spada nel collo fino all'elsa; poi accostò alla ferita un piccolo otre e ne raccolse il sangue che sgorgava a fiotti, senza farne cadere nemmeno una goccia. Con questi occhi io vedevo tutta la scena. Poi l'ottima Meroe, per adempiere, credo, in tutto e per tutto al rituale di un sacrificio in piena regola, affondò la mano in quella ferita, frugò dentro fino alle viscere e trasse il cuore di quel povero amico mio che, dalla gola tutta squarciata per la violenza del colpo, ancora mandava una voce, un sibilo indistinto, un gorgoglio. «'O spugna nata dal mare' intanto cantilenava Pantia e tamponava con la spugna la ferita là dov'era più larga 'acqua di fiume non sorpassare.' «Compiuta ogni cosa se ne andarono; prima però mi tolsero il letto di dosso, si piazzarono sopra di me a gambe divaricate e mi pisciarono in faccia inondandomi tutto del loro fetore.  «Avevano appena varcata la soglia che i battenti della porta si drizzarono e si rimisero intatti al loro posto, i cardini ciascuno nel loro buco, i chiavistelli negli infissi, i catenacci nei loro anelli, tutto come prima. Io solo, invece mi ritrovai disteso per terra senza fiato, nudo e gelato, fradicio per giunta di piscio come se fossi appena uscito dal ventre di mia madre, più morto che vivo, eppure, nonostante tutto, un sopravvissuto, un relitto di me stesso e un sicuro candidato alla croce. «'Che ne sarà di me' gemevo 'quando domani mattina troveranno quest'uomo scannato? Chi mi crederà quando racconterò per filo e per segno come sono andate le cose? Avresti per lo meno potuto gridare, mi ribatteranno, chiedere aiuto se ti mancava il coraggio, grande e grosso come sei, di tener testa a una donna. Ma come, si sgozza un uomo sotto i tuoi occhi e tu te ne stai in silenzio a guardare? E poi come mai delinquenti di tal razza non hanno fatto fuori anche te? Perché nella loro ferocia ti avrebbero risparmiato? Un testimone per giunta così compromettente del loro delitto? Comunque visto che sei scampato alla morte, va a fare compagnia all'amico tuo.' «Questi pensieri rimuginavo dentro di me e intanto cominciava a far giorno. La cosa migliore era quella di filarmela prima che venisse chiaro, fare della strada anche se le gambe mi tremavano. Così presi il mio sacco, infilai la chiave nella serratura e, gira e rigira, dovetti fare una fatica boia prima di riuscire ad aprire quella porta sicura e amica che durante la notte s'era spalancata da sé.  «'Ohilà, dove sei?' cominciai a gridare, 'aprimi il portone, che voglio andarmene prima di giorno.' «II portinaio che era disteso giusto dietro l'uscio della locanda, mezzo addormentato mi fece: 'Ma come? Vuoi metterti in cammino a quest'ora di notte? Non sai che le strade sono infestate dai briganti? Se hai scelto di morire perché hai la coscienza sporca io non sono mica tanto, grullo da fare la stessa fine per causa tua.' «'Tra poco è giorno,' gli risposi 'e poi, ché cosa possono prendergli i briganti a un viandante così al verde come me? Ma ti rendi conto, balordo che sei, che nemmeno dieci campioni di lotta possono spogliare uno che è già nudo?' Ma quello, voltandosi dall'altra parte, morto di sonno e intontito com'era, mi rimbeccò: 'E che ne so io se tu non hai scannato il tuo compagno di viaggio col quale sei giunto ier sera, ed ora cerchi di metterti in salvo?' «Allora sì che la terra mi parve spalancarsi sotto i piedi e io precipitare giù fin nel Tartaro in bocca all'affamato Cerbero; e capii che la buona Meroe non per misericordia aveva risparmiato la mia gola ma per riservarmi, nella sua ferocia, alla croce. XVI «Così tornai in camera pensando al modo più spiccio di darmi la morte. Ma non mettendomi la sorte a portata di mano alcuna arma mortale se non il mio letto, così a lui mi rivolsi: 'Caro lettuccio mio che dividesti con me tutti i miei guai, che sei stato testimone oculare di quanto è accaduto stanotte, tu che solo potrei citare a prova della mia innocenza, porgimi l'arma liberatrice che mi mandi alla svelta all'inferno.' «Così dicendo sciolsi la reticella di corda che formava il piano del letto e legatone un capo a una trave che sporgeva sopra la finestra, feci con l'altra estremità un nodo scorsoio, salii sul letto ormai votato alla morte e infilai la testa nel cappio. Ma non appena, con una pedata, scaraventai lontano il sostegno che mi sorreggeva perché, per il peso del corpo, il cappio stringesse la gola e mi togliesse il respiro, la corda, marcia com'era, si spezzò ed io precipitai addosso a Socrate che giaceva lì accanto e con lui rotolai per terra.  «In quel mentre irruppe in camera il portinaio, urlando: 'Dove diavolo sei tu che, in piena notte, avevi tanta furia di partire e ora te ne sei tornato a russare fra le coperte?' «In quel momento, non so se per il mio ruzzolone o per il gran baccano di quell'uomo, Socrate saltò su esclamando: 'Quanta ragione hanno quei viaggiatori che non possono soffrire gli albergatori. Questo rompiballe ti vien dentro magari con l'intenzione di fregare qualcosa, e col suo blaterare mi sveglia, sfinito com'ero, proprio nel sonno migliore.' «Anch'io balzai in piedi, preso da una gioia insperata: 'Eccolo, bravo portinaio, eccolo qui l'amico mio, il mio fratellino, quello che tu, stanotte, ubriaco fradicio com'eri, andavi insinuando che avevo assassinato.' E, intanto, baciavo e abbracciavo Socrate che però, protestando, mi respingeva con violenza schifato dal fetore di piscio che quelle streghe mi avevano lasciato addosso: 'Va via' mi diceva 'che puzzi peggio di un fondo di latrina.' «Poi, scherzandoci su, mi chiese la ragione di quel fetore. Io, poveretto, gli inventai una frottola per sviare il discorso e con una manata sulle spalle: 'Che aspettiamo ad andarcene?' gli dissi 'Perché non approfittiamo del fresco del mattino?' «Presi quel po' di roba che avevo, pagai il conto all'albergatore e ci mettemmo in cammino.  «Avevamo già fatta un bel po' di strada e il sole, ormai alto, illuminava ogni cosa all'intorno. Io, intanto, non facevo che guardare con curiosità e apprensione la gola del mio compagno, là dove avevo visto penetrare la spada e mi dicevo: 'Ma guarda un po' che matto. Ne devi aver scolati di bicchieri ed essere stato ben sbronzo per fare sogni così assurdi. Eccotelo qua Socrate, sano e vegeto. E dov'è la ferita, dove la spugna e quell'orribile piaga sanguinante?' «Poi rivolto a lui: 'Non hanno mica torto quei gran dottori quando dicono che chi mangia molto e alza troppo il gomito poi fa brutti sogni. Prendi me, per esempio ieri sera mi son lasciato andare alle libagioni e così ho passato una notte infernale, piena di incubi spaventosi, tanto che mi sembra ancora di esser tutto imbrattato di sangue umano.' «'Ma che sangue e sangue,' mi sogghignò, 'pieno di piscio sei. Però ho fatto un sogno anch'io mi pareva che mi sgozzassero; sentivo un gran dolore qui alla gola e come se mi strappassero il cuore; pure ora mi manca il respiro, mi tremano le ginocchia e mi par di cadere. Sento proprio il bisogno di mettere qualcosa sotto i denti per riprendere le forze.' «'Eccoti servita la colazione' e, detto fatto, mi tolsi il sacco dalle spalle e gli offrii del pane con del formaggio. 'Anzi,' gli feci, 'sediamoci la, sotto quel platano.' «Così facemmo e anch'io trassi fuori qualcosa da mangiare per me e intanto lo osservavo. Ed ecco che mentre mangiava avidamente lo vidi, tutto a un tratto, impallidire, farsi livido livido come uno stecco. Man mano che perdeva colore io rivedevo l'orribile scena della notte e, per lo spavento, il pezzo di pane che avevo messo in bocca, benché piccolo, mi si piantò nel gozzo, tanto che non riuscivo a mandarlo né su né giù. «Non passava di lì molta gente e questo accresceva il mio terrore. Chi avrebbe creduto che di due compagni uno era morto senza che l'altro ne sapesse nulla? Socrate, intanto, che s'era ingozzato di pane e aveva fatto fuori quasi tutto il formaggio, ora si sentiva bruciare dalla sete. Poco lontano dal nostro platano scorreva un filo d'acqua ma così lento da formare una pozza limpida e chiara come argento o vetro. «'Eccoti là dell'acqua' gli dissi 'bianca come il latte.' «Egli si alzò, s'accostò alla riva là dove questa era più bassa e fece per inginocchiarsi e bere con avidità ma non aveva ancora accostato le labbra all'acqua che il collo gli si aprì in un largo e profondo squarcio e ne venne fuori la spugna e un po' di sangue. Era morto, e sarebbe caduto in acqua se io, appena in tempo, afferrandolo prontamente per un piede, non lo avessi tirato su a fatica. E lì, su quella riva, come potetti, date le circostanze, piansi l'infelice compagno: scavai una fossa nella sabbia e ve lo chiusi per sempre. «Ero pieno di paura, temevo guai peggiori e così mi misi a fuggire qua e là per luoghi desolati e deserti e, quasi avessi sulla coscienza un delitto, lasciai la mia patria, la mia casa e scelsi un volontario esilio. «Ora vivo in Etolia e mi sono fatta uma nuova famiglia.» Questo il racconto di Aristomene, ma il suo compagno, che fin dall'inizio s'era rifiutato di credere a una sola parola, esclamò: «Non c'è storia più fantastica, più assurda di questa.» E rivolto a me: «E tu che mi sembri una persona seria almeno dall'apparenza, ci credi a questa storia?» «Mah,» feci io, «veramente tutto è possibile a questo mondo e quello che capita agli uomini è scritto nel destino: a me, a te, a tutti possono succedere cose strabilianti, inaudite, che se le vai a raccontare a chi non ne è stato toccato, nessuno ti crede. Io invece ci credo a quello che ha raccontato l'amico, e come, e per di più lo ringrazio perché con la sua storia, col suo fare piacevole ci ha un po' svagati e mi ha fatto sembrare meno noioso e lungo questo viaggio. Se n'è giovato anche il mio cavallo che non ha poi fatto una gran fatica, dal momento che sono arrivato alle porte della città non sulla sua schiena ma con le mie orecchie.» Così finì il viaggio e anche la nostra conversazione. I due, infatti, svoltarono a sinistra, verso una casupola lì vicino, io, invece, tirai dritto e m'infilai nella prima taverna che vidi.

Fantastica e assurda sono gli aggettivi che l’ascoltatore, il compagno di Aristomene che ha seguito insieme a Lucio la narrazione, applica alla vicenda  raccontata. La quale esplica, ribadisco, per cominciare la funzione di valorizzare l’importanza dell’affabulazione come divertimento, distrazione, piacevole svago. Lo rimarca infatti anche il narratore di primo grado, Lucio, che manifesta la sua riconoscenza nei confronti di Aristomene in questi termini. In secondo luogo, però, si può avviare nei confronti del testo riportato un’analisi che metta in luce una relazione anticamente impostatasi. Quella fra mito e orrore. Sappiamo da Ovidio, nelle sue Metamorfosi¸ che nelle relazioni del tutto sproporzionate, quanto a potere dispiegato,  fra dimensione divina e dimensione umana, l’orrore è uno degli scotti da pagare. Capitano  cose terribili agli umani/semidivini sfidanti, cose che implicano la perdità della propria identità originaria, che si annulla, scompare, si somma, si fonde, con nuove identità, in una confusione di atomi e di sostanze, di psicologie e sentimenti,  sbalorditiva, sconcertante, temibile e temuta, anche se qualche volta (comprensibile contraddizione) desiderata. Qui l’orrore dilaga, con un compiacimento per i dettagli realistici che la prosa  e l’epoca, ma anche il carattere e la formazione, consentono ad Apuleio. Con una sapienza che nei tempi mutueranno scrittori del fantastico e della fantascienza, l’Autore contamina di realismo una situazione onirica, sospende la tensione con un siparietto realistico, non lesina battute e trovate (quella della tartaruga in cui  si trova, si fa per dire dire, trasformato Aristomene, tutto schiacciato sotto la porta) per poi riprendere l’agghiacciante narrazione col suo culmine (è un climax) tragico e intriso appunto di orrore: la vicenda di Socrate è, a tutti gli effetti, una storia di zombie, in una delle sue possibili variazioni. La strega Meroe, infatti, fa in modo che la sua morte sia sospesa e protratta al tempo stesso, togliendogli la vita vera durante la notte, ma facendo in modo che egli ne diventi consapevole solo una volta superato (la formula magica che pronuncia lo impone) il limite del fiume, ossia dell’abbeverarsi. 

Per quanto riguarda il filo rosso della magia che diventa religione, ci si può soffermare su due passi del testo, ovvero l’ampia favola di Amore e Psiche e la pagina dell’epifania di Iside. Riguardo alla prima, non deve sfuggire il nesso evidente ricercato dal geniale affabulatore, con la storia di Lucio. Amante dei dettagli e dei giochi a incastro, Apuleio fa in modo che il contenitore e il contenuto si richiamino, così che oltre a manifestarsi un intento didascalico, sia anche l’ammirazione per uno stile raffinato a sortire l’effetto d’incatenare l’attenzione. La corrispondenza che risalta maggiormente fra contenente e contenuto, per quanto attiene alla fabula incastonata nel tessuto narrativo (precisamente al centro: alla fine del III libro l’asino Lucio è divenuto proprietà di briganti che hanno rapito una fanciulla, Carite, alla quale, a partire dal IV libro e fino al VI, una vecchia incaricata di sorvergliarla racconta appunto la favola di Amore e Psiche), si può riassumere nel fatto che l’anima debba imparare a riconoscere la sua condizione di prigionia per poter ascendere a livelli superiori, di rivelazione del divino. Mi soffermo su questo concetto, quindi, inserendo riferimenti più precisi. Nella vicenda di Lucio si possono riconoscere le tracce del mito di Iside e Osiride, contrapposti a Seth, tutti figli della dea del cielo Nut e del dio della terra Geb.  Il mito è molto articolato  ma, ridotto alla sua essenza, narra dello smembramento di Osiride da parte di Seth e della ricomposizione del suo corpo da parte della fedele sposa e sorella Iside, che gli rende possibile un’esistenza eterna nell’aldilà. Da questa ossatura è possibile ottenere una traccia utile per intendere qualche (non tutti certamente, dato che sono moltissimi) simbolismo connesso con la metamorfosi asinina di Lucio: come Osiride, egli perde le sue caratteristiche umane fisiche (lo smembramento del secondo può certo richiamare la degradazione asinina del primo), ma poi riacquista la forma originaria e grazie a questa può accedere all’iniziazione ai misteri di Iside e, si può supporre, pervenire come Osiride a una dimensione ultraterrena definitiva. Analogamente Psiche, in quanto anima, dal greco psyché, è vittima di una sorta di prigionia mentale, che le impedisce di comprendere quanto sia fondamentale lasciarsi guidare dalle indicazioni del dio (Amore, lo sposo invisibile) e non tradire il patto (come avviene per via delle sorelle, cattive consigliere). Saranno quindi le punizioni inflitte da Venere (corrispettivo della metamorfosi in asino di Lucio e dello smembramento di Osiride) a consentirle di ottenere il passaggio definitivo al divino, per quanto non meritato ma donato generosamente (nel caso di Lucio da Iside stessa, nella citata epifania conclusiva). Anche solo mantenendosi a questo livello d’interpretazione, che non prende in esame molti dettagli, si coglie un’ulteriore analogia: quella con la Divina commedia, nella quale l’agens compie un percorso d’iniziazione che lo conduce dall’inferno (corrispettivo delle esperienze degradanti rispettivamente destinate a Lucio diventato asino e a Psiche dopo aver tradito il patto nuziale) e solo in conclusione in paradiso, ovvero in una dimensione in cui è definitivamente sollevato il velo d’ignoranza che offusca gli occhi e inibisce comportamenti consoni alla natura dell’anima, non certo destinata subito al volo (come promette a Lucio la magia bassa o a Dante, nella selva oscura, la visione iniziale del colle illuminato dai raggi del sole), ma a un percorso di raffinamento doloroso, che le permetta di capire cosa sia l’umano in tutte le sue sfaccettature, comprese quelle più degradanti e malvage. Insomma, una volta di più sembra che nel cuore del mito e dell’ispirazione poetica, anche collocata a notevoli distanze temporali, vi sia l’intuizione di un doppio livello di realtà, ciascuno dei quali necessita però dell’altro per definirsi. Da una parte la realtà fisica, dall’altra una metafisica che è sempre presente ma non sempre percepibile, vista la condizione di ottundimento dei sensi che caratterizza per gran parte della vita la maggioranza degli umani. Per via di quest’ultimo riferimento, arrivo dunque all’ultimo filo narrativo, quello che ci porta direttamente all’analisi dell’epifania di Iside, pagina di prosa poetica di elevatissima raffinatezza, che merita una citazione integrale in latino, seguita da mia traduzione. 

Circa primam ferme noctis vigiliam experrectus pavore subito, video praemicantis lunae candore nimio completum orbem commodum marinis emergentem fluctibus; nanctusque opacae noctis silentiosa secreta, certus etiam summatem deam praecipua maiestate pollere resque prorsus humanas ipsius regi providentia, nec tantum pecuina et ferina, verum inanima etiam divino eius luminis numinisque nutu vegetari, ipsa etiam corpora terra caelo marique nunc incrementis consequenter augeri, nunc detrimentis obsequenter imminui, fato scilicet iam meis tot tantisque cladibus satiato et spem salutis, licet tardam, subministrante, augustum specimen deae praesentis statui deprecari; confestimque discussa pigra quiete alacer exsurgo meque protinus purificandi studio marino lavacro trado septiesque summerso fluctibus capite, quod eum numerum praecipue religionibus aptissimum divinus ille Pythagoras prodidit, [laetus et alacer] deam praepotentem lacrimoso vultu sic adprecabar: "Regina caeli, sive tu Ceres alma frugum parens originalis, quae, repertu laetata filiae, vetustae glandis ferino remoto pabulo, miti commonstrato cibo nunc Eleusiniam glebam percolis, seu tu caelestis Venus, quae primis rerum exordiis sexuum diversitatem generato Amore sociasti et aeterna subole humano genere propagato nunc circumfluo Paphi sacrario coleris, seu Phoebi soror, quae partu fetarum medelis lenientibus recreato populos tantos educasti praeclarisque nunc veneraris delubris Ephesi, seu nocturnis ululatibus horrenda Proserpina triformi facie larvales impetus comprimens terraeque claustra cohibens lucos diversos inerrans vario cultu propitiaris, ista luce feminea conlustrans cuncta moenia et udis ignibus nutriens laeta semina et solis ambagibus dispensans incerta lumina, quoquo nomine, quoquo ritu, quaqua facie te fas est invocare: tu meis iam nunc extremis aerumnis subsiste, tu fortunam collapsam adfirma, tu saevis exanclatis casibus pausam pacemque tribue; sit satis laborum, sit satis periculorum. Depelle quadripedis diram faciem, redde me conspectui meorum, redde me meo Lucio, ac si quod offensum numen inexorabili me saevitia premit, mori saltem liceat, si non licet vivere." Ad istum modum fusis precibus et adstructis miseris lamentationibus rursus mihi marcentem animum in eodem illo cubili sopor circumfusus oppressit. Necdum satis conixeram, et ecce pelago medio venerandos diis etiam vultus attollens emergit divina facies; ac dehinc paulatim toto corpore perlucidum simulacrum excusso pelago ante me constitisse visum est. Eius mirandam speciem ad vos etiam referre conitar, si tamen mihi disserendi tribuerit facultatem paupertas oris humani vel ipsum numen eius dapsilem copiam elocutilis facundiae subministraverit. Iam primum crines uberrimi prolixique et sensim intorti per divina colla passive dispersi molliter defluebant. Corona multiformis variis floribus sublimen destrinxerat verticem, cuius media quidem super frontem plana rotunditas in modum speculi vel immo argumentum lunae candidum lumen emicabat, dextra laevaque sulcis insurgentium viperarum cohibita, spicis etiam Cerialibus desuper porrectis multicolor, bysso tenui pertexta, nunc albo candore lucida, nunc croceo flore lutea, nunc roseo rubore flammida et, quae longe longeque etiam meum confutabat optutum, palla nigerrima splendescens atro nitore, quae circumcirca remeans et sub dexterum latus ad umerum laevum recurrens umbonis vicem deiecta parte laciniae multiplici contabulatione dependula ad ultimas oras nodulis fimbriarum decoriter confluctuabat. "En adsum tuis commota, Luci, precibus, rerum naturae parens, elementorum omnium domina, saeculorum progenies initialis, summa numinum, regina manium, prima caelitum, deorum dearumque facies uniformis, quae caeli luminosa culmina, maris salubria flamina, inferum deplorata silentia nutibus meis dispenso: cuius numen unicum multiformi specie, ritu vario, nomine multiiugo totus veneratus orbis. Inde primigenii Phryges Pessinuntiam deum matrem, hinc autochthones Attici Cecropeiam Minervam, illinc fluctuantes Cyprii Paphiam Venerem, Cretes sagittiferi Dictynnam Dianam, Siculi trilingues Stygiam Proserpinam, Eleusinii vetusti Actaeam Cererem, Iunonem alii, Bellonam alii, Hecatam isti, Rhamnusiam illi, et qui nascentis dei Solis inlustrantur radiis Aethiopes utrique priscaque doctrina pollentes Aegyptii caerimoniis me propriis percolentes appellant vero nomine reginam Isidem. Adsum tuos miserata casus, adsum favens et propitia. Mitte iam fletus et lamentationes omitte, depelle maerorem; iam tibi providentia mea inlucescit dies salutaris. Ergo igitur imperiis istis meis animum intende sollicitum. Diem, qui dies ex ista nocte nascetur, aeterna mihi nuncupavit religio, quo sedatis hibernis tempestatibus et lenitis maris procellosis fluctibus navigabili iam pelago rudem dedicantes carinam primitias commeatus libant mei sacerdotes. Id sacrum nec sollicita nec profana mente debebis opperiri.

A inizio della notte, mi sveglio all’improvviso, in preda al terrore. Una luna splendida sta sorgendo dal mare, inondando ovunque  di luce scintillante. Sento di essere giunto nel cuore segreto della notte, dove si manifesta l’immane potenza della dea che controlla e provvede a ogni cosa, animata o meno, creature domestiche e belve feroci; tutto l’esistente ne percepisce l’influsso irresistibile e luminoso, corpi celesti, terrestri e marini, che respirano in consonanza con lei. E sento allora  che il destino, dopo tanto accanimento di sventure inflittemi, mi offre, benché tardivamente, una speranza di salvezza. Allora decido di pregare l’augusta immagine della dea apparsa. Senza più indugi, scossomi dal sonno, balzo in piedi e mi tuffo in mare per purificarmi. Seguendo Pitagora, sette volte (numero sacro delle cerimonie) immergo il capo nell’acqua e, saturo di lacrime, prego così l’onnipotente dea. “O regina del cielo, che tu sia Cerere, antica  nutrice di messi, prezioso dono da parte tua, per la gioia della figlia ritrovata, in luogo delle ghiande adatte ai porci, tu, che rendi belle le terre eleusine, o che tu sia Venere, madre di Amore e propagatrice della specie umana, onorata a Pafo, circondata dal mare, o che tu sia la sorella di Febo, che allevia i dolori del parti e sei venerata a Efeso, o che tu sia Proserpina, dea che riempie di terrore le notti coi suoi ululati, tu la triplice che quieti le ombre dei morti, serri le porte dell’oltretomba e vaghi per i boschi sacri venerata con diversi nomi, tu che illumini città di virginea luce, inondi di umidi raggi le feconde sementi, solitaria vagabonda spandi incerto chiarore,  sotto qualsiasi nome, con qualsivoglia rito, sia lecito invocarti, soccorrimi in queste terribili sventure, poni fine agli affanni e ai pericoli. Liberami dalle spoglie quadrupedi, restituiscimi alla vista dei miei cari, rendimi di nuovo Lucio. Se poi si tratta della crudele e accanita persecuzione di una  divinità offesa, mi sia dato di morire, se non è più lecito che io viva davvero.” Le mie preghiere, intrise di lacrime e lamenti, spossano l’animo e io ricado nel sonno come prima. Ho appena chiuso gli occhi, quand’ecco che appare dal mare un’immagine divina, un volto venerabile dagli dei stessi. La luminescente parvenza esce dalle acque e a me sembra di vederla ferma innanzi a me. Povera è la lingua umana e inadatta a descrivere il divino, ma chiedo ora il dono d’un’efficace eloquenza. Capelli folti, lunghi e ondulati le ricadono sul collo, una corona di fiori variopinti le cinge la testa e in mezzo alla fronte un disco piatto, riflettente, come fa la luna invia candidi raggi di luce. Serpenti guizzanti ai lati, spighe di grano di sopra. Indossa una tunica di leggero bisso, dal colore cangiante, dal bianco scintillante al giallo del croco, al rosso delle rose, ma a confondere lo sguardo, un mantello nero cupo, che passandole intorno alla vita, risale dal fianco destro alla spalla sinistra, ricadendo in ampio drappeggio ondulato, guarnito leziosamente di frange. Tutto il tessuto è disseminato di stelle, e in mezzo a esse una luna piena diffonde vivida luce: lungo tutta una balza del magnifico manto, una ghirlanda di fiori e di frutti d’ogni specie. Svariati gli attributi della dea: nella destra un sistro di bronzo, le cui verghe pendenti, al moto del suo braccio, producono un suono argentino. Alla mano sinistra un vasetto d’oro, a forma di barca con manico ornato da un aspide a testa ritta e collo rigonfio. Ai piedi, sandali intessuti di foglie di palma, simbolo della vittoria. Maestosa e spirante profumi d’Arabia, la dea si degna di parlarmi.

Lucio-asino è giunto allo stremo delle forze, quando la dea concede per cominciare il dono della sua bellezza, congiunta a assolutezza. L’assoluto, nel sincretismo cui attinge Apuleio, si manifesta così: attraverso un panismo che, a livello immaginativo, si riassume in questa rappresentazione del tutto in tutto, natura che al contempo è  e si riflette  nello sguardo di chi la contempla. Il pianto offusca costantemente lo sguardo del narratore, si legge più volte, ma non gli impedisce di vedere il volto della divinità. Che deve assumere una parvenza definita (la condizione del vedere umano lo impone) ma al tempo stesso può permettersi di, e essere davvero tutto. Intuizione sublime del panismo, di nuovo resa possibile da una competenza stilistica magistrale in questo scrittore. Le risonanze nel tempo sono multiple, ma ne cito una in particolare, che conduce  fino al 1902. In Meriggio, ciclo di  Alcyone, nel vasto progetto delle Pleiadi, D’Annunzio declina la componente visionaria e il panismo che pervadono la pagina di Apuleio, invece che in una direzione simbolico-religiosa, in una superomistica, nell’intendimento che ne dà il Vate rispetto alla delineazione di Nietzsche.  Il metamorfismo è infatti reso funzionale dal poeta  a una celebrazione del divino ch’è in noi, mentre la pagina di Apuleio, anche solo basandosi su quanto sopra riportato, risulta piuttosto esprimere un sentimento in parte ancestrale, per quanto poi nutrito di filosofia neoplatonica, di risonanza con gli elementi naturali. L’epifania di Iside, oltre a consentire una celebrazione del tema metamorfico in chiave misterica, per cui la dea è un eterno femminino che al contempo si fonde con e si manifesta attraverso la natura, consente all’Autore di esplicitare l’ultimo passaggio della formazione di Lucio, al tempo stesso epifanico e liberatorio. In D’Annunzio, invece, la metamorfosi in natura celebra senza soluzione di continuità, come s’addice a indistinti confini, l’umano naturale, o la natura umana, nella fattispecie quella dell’io lirico strabordante di energia, in un tripudio di vitalismo perfettamente consonante con lo spirito che informa alcuni componimenti in particolare di Alcyone.  Differenza d’intenti e distanza  epocale non ostacolano la percezione d’una sostanziale affinità: con accenti diversi, è il mito,  davvero mythos ossia racconto fondativo, leggenda, a manifestare la sua verità indimostrabile, il suo statuto autonomo e, questo sì,  distinto rispetto al logos

------------------------------------------------------------------------------------------------------

Eleonora

4) 1)       Fra il protagonista delle Metamorfosi, Lucio, e la protagonista della più lunga fabula raccontata e incastonata al centro della narrazione, ovvero quella di Amore e Psiche, c’è una sostanziale affinità. Spiega in che cosa consista entrando in qualche dettaglio di entrambe le trame (per rispondere serviti anche dei testi corrispettivi proposti in traduzione nella sezione specifica).

 Il protagonista del racconto, Lucio, e il personaggio di Psiche sono accomunati da una forte curiositas, caratteristica che li porterà a cacciarsi nei guai in diverse situazioni, in particolare al cospetto degli dei. Lucio è bramoso di imparare l’arte della magia, oltrepassando i limiti naturali imposti all’uomo in quanto tale. Il suo ricorso è però soggetto a punizione. Il protagonista delle Metamorfosi, riconoscendo che la sua curiositas lo spingerebbe persino a buttarsi giù da un dirupo, in maniera impulsiva e irrazionale, vuole a tutti i  costi provare l’ebrezza del volo e non esita a utilizzare l’unguento magico fornitogli dalla serva Fotide che lo trasforma invece in un asino. La sua è una ‘’sete illecita di conoscenza’’ paragonabile a quella dell’ Ulisse al quale, intorno al 1300,  Dante darà vita nella sua prima cantica. Anche la protagonista del lunghissimo racconto inserito all’interno del romanzo, Psiche, è caratterizzata da una irresistibile curiositas, che la spinge a infrangere il patto con Amore, e quindi a vederlo in viso, procurandogli anche un’ustione. Anche per lei il mondo divino provvede a una punizione, di cui si incarica sostanzialmente  la dea Venere, già originariamente gelosa della sua bellezza, e in più adirata per il dolore inflitto al figlio: ella  le impone quattro prove difficilissime da superare, non fosse per l’intervento di inopinati aiutanti.  Psiche sfida con il suo gesto il mondo divino e compie una trasgressione che le procurerà molti danni e disavventure, proprio come accade a Lucio nella vicenda principale. Apuleio rappresenta un elemento ricorrente nell’epica classica: la  reazione collerica degli dei, i quali, capricciosi e con vizi umani, intervengono nelle vicende del mondo animati da un senso di  giustizia non sempre indiscutibile. È il caso di Venere che, anche nell’Eneide di Virgilio, troviamo impegnata ad immischiarsi nelle vicende umane, o il caso di Poseidone nell’Odissea e di Apollo nell’Iliade i quali, con le loro iniziative punitive, fungono da motori che innescano l’inizio del racconto. I protagonisti delle Metamorfosi di Apuleio sono, inoltre, in preda all’hybris, sentimento caratterizzante di molti personaggi dell’epica classica, che li porta ad andare oltre e infrangere ciò che gli è stato imposto dall’alto, conducendo quella che gli dei interpretano come una sfida contro di loro.

2)        Nel passo La preghiera a Iside,  che si colloca proprio in conclusione della narrazione, Lucio ottiene dalla dea l’agognata metamorfosi da asino a essere umano. Servendoti del testo in traduzione a p. 586, presenta il passo in questione, descrivendo l’ambientazione e soffermandosi sull'epifania della dea, di cui devi fornire una spiegazione servendosi anche del focus a p. 587.

Il passo La preghiera a Iside, appartiene all’ XI e ultimo libro delle Metamorfosi. Lucio, ancora asino, si sveglia di soprassalto in piena notte, dopo sfuggito a un’incresciosa vicenda e aver provato un’intensa disperazione, , e vede la luna piena. L’ambiente, totalmente silenzioso e buio,  suscita nel protagonista un senso di misteriosa serenità che lo porta ad effettuare un rito religioso in onore dell’ eccelsa dea. Lucio è, così, in preda ad un’ondata di ottimismo; capisce, infatti, che il suo destino gli ha offerto ancora una speranza di salvezza e intende sfruttarla. Inizia, infatti, a purificarsi attraverso un rito propiziatorio, consistente nell’ immerge la testa in un lavacro per sette volte, numero ritenuto  perfetto dai pitagorici, e successivamente prega a gran voce la dea. Quest’ultima viene riconosciuta come Iside, dea di origine egizia, ma identificata nel paganesimo romano con diverse divinità femminili (e nel cristianesimo, ma non certo da Apuleio) assimilata alla Vergine Maria. Lucio, da parte sua,  la identifica prima come Cerere, madre e creatrice delle messi che ha insegnato agli uomini a coltivarle, successivamente si chiede se la dea corrisponda, invece a Venere, dea dell’Amore, oppure Diana, sorella di Apollo e dea protettrice delle partorienti, oppure ancora Proserpina, figlia di Cerere e dea degli inferi, in quanto rapita e fatta moglie con l’inganno da Plutone. La dea Iside ha perciò diversi volti e viene onorata secondo vari riti differenti, ma sotto qualunque aspetto è lecito invocarla. Lucio perciò le chiede di porre fine alle sue sofferenze, portate dalla metamorfosi in asino icautamente e erroneamente prodotta,  ai suoi affanni e ai pericoli a cui è stato esposto. Il protagonista è così disperato che scongiura persino di farlo morire, se non fosse possibile farlo tornare alle sue solite sembianze umane.

La preghiera di Lucio ricalca il linguaggio del sistema liturgico; la religione dell’antico Egitto, infatti, influenzò prima il paganesimo romano e successivamente, per via di sincretismo, persino il simbolismo della chiesa cattolica. Iside, secondo il mito egiziano, è la moglie dell’amato dio Osiride, il quale portò la civiltà agli uomini. Quest'ultimo fu ucciso, per gelosia, dal fratello Seth e gettato all’interno di una bara nel Nilo. La dea cercò il marito da tutte le parti e, trovatolo, lo riportò in vita ricorrendo alle arti magiche. Il culto di Iside giunse così a Roma già al tempo di Silla, ma non fu ben accetto e ci furono vari provvedimenti di soppressione che prevedevano lo smantellamento dei suoi altari. Soltanto poi con Caligola il culto della dea si diffuse all’interno della città e si espanse in tutto l’impero, influenzando anche le religioni successive.

--------------------------------------------------

Virginia

Il prezzo da pagare per arrivare alla luce…con lo zampino delle divinità

L’opera Le Metamorfosi, o L’asino d’oro, viene composta dallo scrittore Apuleio, considerato la più notevole personalità della letteratura latina del periodo in cui visse, nel tardo II secolo d.C. È importante, nell’analisi del romanzo apuleiano, considerare il suo rapporto con la fabula Milesia1, seppur l’opera non possa essere ricondotta a quest’unica matrice, e la presenza della tecnica della storia nella storia che prevede l’inserimento della fabula di Amore e Psiche nei libri centrali, dal IV al VI, la quale presenta notevoli analogie con la trama della vicenda principale.

Prima fra tutte la curiositas, che nella vicenda di Lucio si manifesta a partire dal principio, quand'egli si reca a Ipata, in Tessaglia, dove, ospite presso la dimora di Milone, per mezzo della servetta Fotide, con la quale intesse una relazione amorosa, riesce a ottenere di provare le arti magiche della padrona Panfile. La curiositas si presenta nell’opera di Apuleio, attraverso Lucio, come una sete illecita di conoscenza, paragonabile a quella dell’Ulisse dantesco2, e spinge l’uomo a oltrepassare i divieti naturali attraverso la magia: perciò è sempre soggetta a punizione. Lucio, anche se ammonito svariate volte, in particolare da Birrena, presso la cui casa viene ospitato a cena 

 ut anxie tibi metuo et ut pote pignori meo longe provisum cupio, cave tibi, sed cave fortiter a malis artibus et facinorosis illecebris Pamphiles (come sono in ansia per te, come vorrei proteggerti, più che se fossi mio figlio)

tuttavia, al posto di mostrarsi impaurito si dimostra ancora più propenso all’iniziazione alle arti magiche, definendo se stesso curiosus alioquin (curioso per natura), e connotando, nel III libro, le domande poste a Fotide riguardo la maga come curiosità abituale. Il desiderio di Lucio di trasformarsi in uccello, indizio massimo della  sua curiosità, dato che gli consentirebbe di vedere tutto dall’alto, non viene esaudito; anzi, come punizione alla sua curiositas, gli viene imposta la degradazione, e le arti magiche di Panfile  servono a renderlo un asino.         

Anche la bella Psiche, per certi versi alter ego di Lucio, è vittima della sua sacrilega (libro V) e temeraria (imprudente, libro VI) curiositas. La ragazza, di una bellezza fulgida e indiscussa, viene adorata dagli abitanti del suo villaggio al punto da suscitare l’ira di Venere, la quale chiede a suo figlio Amore di fare innamorare Psiche di un mostro. Il dio alato, però, ammaliato dalla bellezza della giovane, per errore lascia cadere la freccia preparata per lei sul suo piede. Psiche diviene quindi, inconsapevolmente, sposa di Amore, il quale le impone come unica condizione quella di non poterlo mai vedere, e quindi non conoscere l’aspetto del suo sposo. La giovane però, un po’ a causa delle provocazioni delle maliziose sorelle che si dicono sicure che il marito sia un mostro, un po’ a causa della sua indole curiosa, una notte illumina con una lanterna lo sposo immerso nel sonno, scoprendo così di condividere il talamo nuziale con il dio dell’amore. La curiositas di Psiche viene punita istantaneamente: la ragazza, nell’estrarre dalla faretra una freccia per osservarla meglio, si ferisce, e subito ignara Psyche (l’innocente Psiche) in Amoris incidit amorem (si innamorò di Amore), il quale però si sveglia bruciato da una goccia di cera sfuggita dalla lanterna e vola via, sottraendosi alle carezze infelicissimae coniugis (dell’infelicissima sposa), la quale, ormai preda di un amore struggente, è condannata a perdere il suo sposo.

Entrambi i protagonisti, dopo il fatale errore, saranno obbligati a un percorso di redenzione che li porterà a passare attraverso prove difficilissime. Nel caso di Lucio, si tratta di esperienze degradanti; la punizione che subisce il ragazzo e che perdura per quasi tutto il romanzo, è proprio quella di essere stato trasformato in asino. È la costrizione in un corpo animale, seppur lui interiormente sia ancora a tutti gli effetti un essere umano, a costituire la prova maggiore per Lucio, che in ogni situazione continua a vedere, sentire e ragionare come un umano.

Seppur Lucio venga trattato dagli altri personaggi, ignari della sua condizione, come un vero asino, la sua indole umana spicca soprattutto in alcune situazioni, che talvolta mostrano uno spiccato carattere comico. Una tra queste è contenuta nel libro IX, nel quale Lucio asino, appena sfuggito al macello, irrompe in un banchetto, ottenendo così di essere rinchiuso nella stalla del padrone di casa. Convinto di averla scampata, l’asino tira un sospiro di sollievo; ma ecco che si pone il problema di una cagna rabbiosa che poco prima era entrata in casa mettendo in questo modo a rischio tutto il bestiame presente. La sorte, rivelatasi essere fortunata, che tocca a Lucio è quella di essere rinchiuso nella stanza da letto dei padroni, dove, afferma lui, libertatem nanctus, solitariae fortunae munus amplexus, super constratum lectum abiectus, post multum equidem temporis somnum humanum quievi (riacquistai la libertà e cogliendo l'occasione propizia d'esser rimasto finalmente solo, mi buttai lungo sul letto già sprimacciato e dopo tanto tempo potetti dormire come un uomo).

Lucio passa attraverso una serie di esperienze che lo portano, in realtà, a realizzare il suo desiderio di vedere tutto. Ha le sembianze di un asino, e quindi viene trattato da tale: Lucio, che voleva vedere tutto dall’alto, vede tutto dal basso. Attraverso i libri delle Metamorfosi Lucio asino viene costretto a lavori pesantissimi e a non poter intervenire in momenti cruciali, provando così una profonda frustrazione. L’acme del processo di degradazione verrebbe (salvo che la sorte non porta a compimento il progetto)iene raggiunto quando l’asino è costretto ad avere un rapporto sessuale con una condannata a morte di fronte a un pubblico convenuto per l’evento.

Apuleio, attraverso la storia di Lucio, si fa portatore di un’idea di formazione umana che, per poter risalire verso la luce, deve prima scendere verso il basso e conoscere quanto di più degradato ci sia.

Anche le sfide di Psiche la portano a dover scendere verso il basso, nel suo caso addirittura negli inferi. La giovane, infatti, viene obbligata da Venere a superare quattro complicatissime sfide, prima tra tutte il dover riordinare per tipologia un gran miscuglio di semi. Eppure Nec Psyche manus admolitur inconditae illi et inextricabili moli, sed immanitate praecepti consternata silens obstupescit (Psiche neppure provò a metter mano a quell’ammasso informe e imbrogliato: muta e istupidita dalla paura di non riuscire a portare a termine quell’impresa smisurata, se ne stava lì senza muovere un dito); ma ecco che accorrono in suo aiuto le laboriose formiche e in un attimo riordinano i molti semi. Non sarà l’unica volta che Psiche, durante le prove a lei imposte verrà aiutata: l’harundo virdis (canna verde) la ammonisce sulle rive del fiume dove Psiche deve raccogliere un fiocco della preziosa lana degli arieti; l’uccello di Giove, rapax aquila (aquila rapace), raccoglie per lei l’acqua che sgorga dalla sorgente che va a ingrossare le acque del Cocito; la torre, infine, le suggerisce come scampare a tutti i pericoli nei quali potrebbe incorrere negli inferi, dove Venere la manda con la richiesta di riportarle indietro un cofanetto pieno della bellezza di Proserpina. La quarta e ultima prova ha però un infelice esito, a causa della curiositas di Psiche, che stavolta non viene alimentata da nessuno, la quale decide di sbirciare dentro il cofanetto e immediatamente viene avvolta dall’infernus somnus (sonno infernale).

A salvarla è proprio Cupido, che la libera dal sonno mortale con la leggera puntura di freccia. Quanto a  Lucio, una volta fuggito dal teatro dove avrebbe dovuto accoppiarsi con la donna condannata a morte, viene accolto benevolmente dalla dea Iside, la quale, impietosita dalla sua condizione, gli suggerisce di recarsi, il giorno seguente, a una festa in onore della dea stessa, dove potrà mangiare le rose e tornare finalmente alla sua condizione umana. Le prove che devono superare i due protagonisti, in ultima analisi, non possono essere comparate a quella di Dante, che invece compie realmente un viaggio attraverso la degradazione con l’obiettivo di purificarsi, passando anche dal Purgatorio, e giungendo in Paradiso, dove lo aspettano ulteriori prove. Lucio e Psiche vengono aiutati l’uno dalla pietà della dea, e l’altra dall’amore smisurato di Cupido nei suoi confronti.

Seppur ci sia di mezzo l’intercessione di altre figure, alla fine del romanzo Lucio ottiene di poter intraprendere il percorso di iniziazione ai misteri della dea Iside; Psiche, invece, ottiene il connubio con Amore, da cui nasce Eros e l’immortalità. Nella fabula compare ancora una volta il binomio eros-thanatos3 (amore e morte): Psiche, che, si può intuire già dal nome, rappresenta l’anima, ha bisogno di un percorso di purificazione, che la porta a passare anche attraverso la morte, per ottenere finalmente l’amore vero, il perfetto connubio tra componente fisica e spirituale.

1.         Così chiamate da Aristide di Mileto, iniziatore del genere tra la fine del II e l’inizio del I secolo a.C., erano racconti piacevoli e leggeri, di solito di argomento erotico, noti per la loro licenziosità. Fanno il loro ingresso nella letteratura latina con la traduzione di Sisenna nel I secolo a.C.

2.         Noto per la sua curiositas, che lo porta alla morte al ritorno dal lungo viaggio che, dopo la guerra di Troia, lo riporta a Itaca. Ulisse riparte immediatamente con il suo equipaggio, con l’intenzione di arrivare sino ai confini del mondo, le colonne d’Ercole. Lì Ulisse e i suoi compagni vedono ciò che agli uomini è proibito vedere, e sprofondano immediatamente nei meandri dell’Inferno.

3.         Binomio presente nell’inno a Venere contenuto nel De rerum natura di Lucrezio. Venere, dea dell’amore, viene accostata a Marte, dio della guerra, che in gremium qui saepe suum se reicit aeterno devictus vulnere amoris (spesso nel suo grembo si abbandona vinto dall’eterna ferita dell’amore).



Commenti

Post popolari in questo blog

IL SORRISO - RIASSUNTO MODELLO (CIRCA 200 PAROLE)

LA CARRIOLA DI PIRANDELLO: RIASSUNTO E COMMENTO

DOMANDE E RISPOSTE ODISSEA VOSTRE (corretto)