DANTE: ESAMI E PREGHIERE

 ESAMI E PREGHIERE: DAGLI ULTIMI CANTI DEL PURGATORIO ALL’ULTIMO DEL PARADISO

Gli ultimi canti del Purgatorio dantesco, dal XXX al XXXIII, ospitano un incontro fatale, quello desiderato e presagito fin dalla Vita nuova, varie volte sfruttato da Virgilio per spronarlo ad andare avanti, a non avere paura a non ricredersi sulle proprie forze e sull’opportunità del viaggio. L’incontro è quello con Beatrice, il cui nome  è stato una parola magica in grado di mettere le ali ai piedi dell’agens. Un incontro in quattro canti, perché tanto occorre all’inflessibile Grazia, Fede, Teologia (le tre allegorie condensate in Beatrice) per indagare a fondo nell’animo di colui che provò l’antica fiamma e riconoscerne la buona fede. Nel XXX canto Beatrice appare circonfusa di luce rosata e inondata da una pioggia di fiori, nonché vestita di rosso come nel primo incontro (quando ella aveva  nove anni) nella Vita nuova:

Io vidi già nel cominciar del giorno
la parte orïental tutta rosata,
e l’altro ciel di bel sereno addorno;
24

e la faccia del sol nascere ombrata,
sì che per temperanza di vapori
l’occhio la sostenea lunga fïata:
27

così dentro una nuvola di fiori
che da le mani angeliche saliva
e ricadeva in giù dentro e di fori,
30

sovra candido vel cinta d’uliva
donna m’apparve, sotto verde manto
vestita di color di fiamma viva.

La solennità del momento è ulteriormente rimarcata dal fatto che, come avevo già preannunciato, è in tale occasione che l’agens si rende conto di essere stato lasciato solo per sempre da Virgilio. Non indugio più sull’evento, proprio come accade di dover fare, suo malgrado, a Dante medesimo, al quale Beatrice si rivolge con cipiglio austero, che rende del tutto motivata la similitudine  (pirandellianamente umoristica, posso sollecitarvi a pensare a questo punto) dell’ammiraglio utilizzata in tale occasione:

"Dante, perché Virgilio se ne vada,
non pianger anco, non piangere ancora;
ché pianger ti conven per altra spada".
57

Quasi ammiraglio che in poppa e in prora
viene a veder la gente che ministra
per li altri legni, e a ben far l’incora;
60

in su la sponda del carro sinistra,
quando mi volsi al suon del nome mio,
che di necessità qui si registra,
63

vidi la donna che pria m’appario
velata sotto l’angelica festa,
drizzar li occhi ver’ me di qua dal rio.
66

L’ammiraglio-Beatrice non è incline alla generosità, e nemmeno al perdono immediato: sottopone Dante a un’indagine accurata, condotta di fronte a tutti, in modo tale da promuovere in lui una profonda vergogna. I tutti cui mi riferisco sono le innumerevoli figure di un corteggio che comprende angeli e patriarchi, figure dell’Antico Testamento e del Nuovo, allegorie, insomma una specie di ampio consesso chiamato ad assistere a un rituale penitenziale, al quale l’agens si sottopone permettendo che gli angoli più segreti del suo cuore siano portati alla luce e, soprattutto, il suo tradimento multiplo sia rivelato. Beatrice ricorda quanta buona predisposizione vi fosse in lui, quanta grazia fosse piovuta dal cielo al momento della sua nascita e quanto egli, dopo la sua (di Beatrice) dipartita dal mondo abbia volontariamente fatto per traviare il suo animo, dedicandosi a una donna gentile (e ad altre donne dello schermo, come si è appreso già dalla Vita nuova) che gli hanno fatto dimenticare la vera unica ossia lei. Il tradimento al quale fa riferimento è, sembra di capire, di carattere intellettuale e filosofico, con riferimento al fatto che Dante abbia cercato di accedere alla Verità per vie che non contemplavano l’affidamento alla fede o alla teologia, ma alla ragione e alla filosofia. Una ricerca dell’assoluto, potremmo dire, condotta per vie non ortodosse, che lo porta molto vicino alla morte secunda. Beatrice rievoca anche lo stato di necessità, prossimo alla perdizione, in cui si è trovato, costringendola, lei, beata, a scendere in inferno per ordinare a Virgilio il salvataggio in selva oscura. Tutte occasioni di analessi, quindi, che l’auctor non manca di cogliere, mentre per l’agens si tratta di protrarre una sofferenza che forse s’immaginava finita, dato che alla fin fine il luogo in cui si trova è pur sempre l’eden, il paradiso terrestre dove i primi umani furono veramente felici. A essere preso di mira, si capisce, è pur sempre il peccato di superbia, variazione sul tema dell’hybris sempiterna, la quale sembra caratterizzare la specie umana che l’individuo Dante è qui chiamato a rappresentare. L’accigliata Beatrice chiede di piangere infine, di piangere davvero, perché a tutti si mostri quanto profondo, e vero e definitivo sia il pentimento:

Tanto giù cadde, che tutti argomenti
a la salute sua eran già corti,
fuor che mostrarli le perdute genti.
138

Per questo visitai l’uscio d’i morti,
e a colui che l’ ha qua sù condotto,
li preghi miei, piangendo, furon porti.
141

Alto fato di Dio sarebbe rotto,
se Letè si passasse e tal vivanda
fosse gustata sanza alcuno scotto
144

di pentimento che lagrime spanda".

 

Quanto all'ultimo canto del Paradiso, sopraggiunge al termine di una vera e propria sequela di esami: l’agens viene interrogato, nei canti XXIV, XXV e XXVI,  sulle tre virtù teologali, fede, speranza e carità rispettivamente da San Pietro, San Giacomo e San Giovanni, tre apostoli di Cristo. Superata la faticosa sessione, procedendo nell’empireo, nel XXXI la seconda guida viene sostituita dalla terza e ultima, Bernardo da Chiaravalle:

La forma general di paradiso
già tutta mïo sguardo avea compresa,
in nulla parte ancor fermato fiso;
54

e volgeami con voglia rïaccesa
per domandar la mia donna di cose
di che la mente mia era sospesa.
57

Uno intendëa, e altro mi rispuose:
credea veder Beatrice e vidi un sene
vestito con le genti glorïose.
60

Diffuso era per li occhi e per le gene
di benigna letizia, in atto pio
quale a tenero padre si convene.
63

E «Ov’ è ella?», sùbito diss’ io.
Ond’ elli: «A terminar lo tuo disiro
mosse Beatrice me del loco mio;
66

e se riguardi sù nel terzo giro
dal sommo grado, tu la rivedrai
nel trono che suoi merti le sortiro».
69

E ora, il XXXIII.  Una preghiera. Un momento sacro, di quelli che si vivono in piena solitudine, anche se ci si trova in mezzo agli altri. Non per volerli escludere, ma per poter sentire fino al fondo dell’essere cosa significa trovarsi in armonia col tutto. Poi si ritorna nella collettività, Dante certo torna alla dimensione collettiva, anzi universale, della chiesa dei credenti¸ ma prima prega così, e questa è senz’altro una preghiera solitaria, un solus ad solam dal momento che a essere colti in questa dimensione orante sono uno (San Bernardo, è lui a proferire quanto si legge nelle terzine dal verso 1 al 39) e una, la Vergine Madre,  evocata in concatenazione d’ossimori come tale e poi come figlia del figlio, nonché al contempo umile  e alta e termine fisso d’eterno consiglio:

«Vergine Madre, figlia del tuo figlio,
umile e alta più che creatura,
termine fisso d'etterno consiglio,3


tu se’ colei che l’umana natura
nobilitasti sì, che ’l suo fattore
non disdegnò di farsi sua fattura.
6

Nel ventre tuo si raccese l’amore,
per lo cui caldo ne l’etterna pace
così è germinato questo fiore.
9

Qui se’ a noi meridïana face
di caritate, e giuso, intra ’ mortali,
se’ di speranza fontana vivace.
12

Donna, se’ tanto grande e tanto vali,
che qual vuol grazia e a te non ricorre,
sua disïanza vuol volar sanz’ ali.
15

La tua benignità non pur soccorre
a chi domanda, ma molte fïate
liberamente al dimandar precorre.
18

In te misericordia, in te pietate,
in te magnificenza, in te s’aduna
quantunque in creatura è di bontate.
21

Dopo l’omaggio reso ai misteri della religione (l’immacolata concezione è dogma solo dal 1854) riprende la personalizzazione dell’evento finale al quale il XXXIII canto dà espressione: si parla del questi, l’agens, con un’ennesima analessi che riproduce in terzina il lungo viaggio dall’infima lacuna de l’universo al luogo in cui sono ospitate le vite spiritali. Colpisce la formula descrittiva prescelta: per l’inferno un luogo liquido (lacuna), in basso in basso (infima) e per il paradiso (il purgatorio s’elide da sé) le vite spiritali, le anime in sé, che fanno luogo da sole. L’obiettivo dei versi però si palesa subito dopo: le ultime parole compitate dal poeta devono condurlo all’excessus mentis in Deum, devono traghettare la ragione nel grande mare dell’essere fino al punto in cui lei stessa ammetta la sua impotenza e lasci spazio, luogo, tempo, all’ineffabile. L’ultima salute, ‘l sommo piacer, sono altrettante perifrasi per l’empireo, al quale il poeta agogna, al punto da presagire una sorta di deliquio, una cessazione per estenuazione dell’ardor del desiderio.

Or questi, che da l’infima lacuna
de l’universo infin qui ha vedute
le vite spiritali ad una ad una,
24

supplica a te, per grazia, di virtute
tanto, che possa con li occhi levarsi
più alto verso l’ultima salute.
27

E io, che mai per mio veder non arsi
più ch’i’ fo per lo suo, tutti miei prieghi
ti porgo, e priego che non sieno scarsi,
30

perché tu ogne nube li disleghi
di sua mortalità co’ prieghi tuoi,
sì che ’l sommo piacer li si dispieghi.
33

Ancor ti priego, regina, che puoi
ciò che tu vuoli, che conservi sani,
dopo tanto veder, li affetti suoi.
36

Vinca tua guardia i movimenti umani:
vedi Beatrice con quanti beati
per li miei prieghi ti chiudon le mani!».
39

Li occhi da Dio diletti e venerati,
fissi ne l’orator, ne dimostraro
quanto i devoti prieghi le son grati;
42

indi a l’etterno lume s’addrizzaro,
nel qual non si dee creder che s’invii
per creatura l’occhio tanto chiaro.
45

E io ch’al fine di tutt’ i disii
appropinquava, sì com’ io dovea,
l’ardor del desiderio in me finii.
48 

Come se la preghiera avesse sortito uno di quegli effetti che i poeti da sempre si sono augurati nel rivolgersi alle muse ispiratrici, o direttamente a Apollo, quel soggetto che è ormai contemporaneamente agens e auctor (anche questo momento è arrivato, la riunificazione dei due) sente potenziato ogni suo senso, si sente persino superiore a quello che mai potrebbe essere un auctor  da solo: la poesia, è questo l’evento che presuppone ed è garantito dall’excessus mentis in Deum, è nata in quel momento, dato che la memoria dietro non può ire, è fallace e falsificatrice, come tutti noi ben sappiamo. Se nemmeno la memoria ce la fa, significa che a sopperire deve essere il poieìn, la creazione poetica che sa ricorrere a misteriosi processi assimilabili a quelli del sogno: nel cuore restano tracce di quello che si è sognato, così come la penna del poeta riesce a trascrivere quello che la visione paradisiaca gli ha restituito di sé. Non ora ma allora.

Bernardo m’accennava, e sorridea,
perch’ io guardassi suso; ma io era
già per me stesso tal qual ei volea:
51

ché la mia vista, venendo sincera,
e più e più intrava per lo raggio
de l’alta luce che da sé è vera.
54

Da quinci innanzi il mio veder fu maggio
che ’l parlar mostra, ch’a tal vista cede,
e cede la memoria a tanto oltraggio.
57

Qual è colüi che sognando vede,
che dopo ’l sogno la passione impressa
rimane, e l’altro a la mente non riede,
60

cotal son io, ché quasi tutta cessa
mia visïone, e ancor mi distilla
nel core il dolce che nacque da essa.
63

Una vittoria sulla dispersione delle memorie nel tempo, quella che si celebra nelle terzine successive: non parole scritte su foglie destinate a perdersi nel vento, non neve disciolta al sole: l’ispirazione divina invocata dal poeta una volta di più è proprio il soffio delle spirito che unde vult spirat. La somma luce  rende possente la lingua, il poeta vede l’essenza del divino: un volume che racchiude tutte le pagine mai scritte e che mai si scriveranno, cerchi di colore diverso che si sovrappongono e si vedono distintamente, e il volto umano impresso al loro interno. In immagini che diventano parole, i misteri della religione, l’infinito del divino, la trinità e l’incarnazione di Cristo.

Così la neve al sol si disigilla;
così al vento ne le foglie levi
si perdea la sentenza di Sibilla.
66

O somma luce che tanto ti levi
da’ concetti mortali, a la mia mente
ripresta un poco di quel che parevi,
69

e fa la lingua mia tanto possente,
ch’una favilla sol de la tua gloria
possa lasciare a la futura gente;
72

ché, per tornare alquanto a mia memoria
e per sonare un poco in questi versi,
più si conceperà di tua vittoria.
75

Io credo, per l’acume ch’io soffersi
del vivo raggio, ch’i’ sarei smarrito,
se li occhi miei da lui fossero aversi.
78

E’ mi ricorda ch’io fui più ardito
per questo a sostener, tanto ch’i’ giunsi
l’aspetto mio col valore infinito.
81

Oh abbondante grazia ond’ io presunsi
ficcar lo viso per la luce etterna,
tanto che la veduta vi consunsi!
84

Nel suo profondo vidi che s’interna,
legato con amore in un volume,
ciò che per l’universo si squaderna:
87

sustanze e accidenti e lor costume
quasi conflati insieme, per tal modo
che ciò ch’i’ dico è un semplice lume.
90

La forma universal di questo nodo
credo ch’i’ vidi, perché più di largo,
dicendo questo, mi sento ch’i’ godo.
93

Un punto solo m’è maggior letargo
che venticinque secoli a la ’mpresa
che fé Nettuno ammirar l’ombra d’Argo.
96

Così la mente mia, tutta sospesa,
mirava fissa, immobile e attenta,
e sempre di mirar faceasi accesa.
99

A quella luce cotal si diventa,
che volgersi da lei per altro aspetto
è impossibil che mai si consenta;
102

però che ’l ben, ch’è del volere obietto,
tutto s’accoglie in lei, e fuor di quella
è defettivo ciò ch’è lì perfetto.
105

Omai sarà più corta mia favella,
pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante
che bagni ancor la lingua a la mammella.
108

Non perché più ch’un semplice sembiante
fosse nel vivo lume ch’io mirava,
che tal è sempre qual s’era davante;
111

ma per la vista che s’avvalorava
in me guardando, una sola parvenza,
mutandom’ io, a me si travagliava.
114

Ne la profonda e chiara sussistenza
de l’alto lume parvermi tre giri
di tre colori e d’una contenenza;
117

e l’un da l’altro come iri da iri
parea reflesso, e ’l terzo parea foco
che quinci e quindi igualmente si spiri.
120

Oh quanto è corto il dire e come fioco
al mio concetto! e questo, a quel ch’i’ vidi,
è tanto, che non basta a dicer ’poco’.
123

O luce etterna che sola in te sidi,
sola t’intendi, e da te intelletta
e intendente te ami e arridi!
126

Quella circulazion che sì concetta
pareva in te come lume reflesso,
da li occhi miei alquanto circunspetta,
129

dentro da sé, del suo colore stesso,
mi parve pinta de la nostra effige:
per che ’l mio viso in lei tutto era messo.
132

Qual è ’l geomètra che tutto s’affige
per misurar lo cerchio, e non ritrova,
pensando, quel principio ond’ elli indige,
135

tal era io a quella vista nova:
veder voleva come si convenne
l’imago al cerchio e come vi s’indova;
13

La conclusione è una folgore: il desiderio e la volontà si uniformano al moto celeste, il motore immobile, la poesia che non può fare a meno di esso, come nient’altro di quello che esiste:

ma non eran da ciò le proprie penne:
se non che la mia mente fu percossa
da un fulgore in che sua voglia venne.
141

A l’alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disio e ’l velle,
sì come rota ch’igualmente è mossa,
144

l’amor che move il sole e l’altre stelle.

 


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