RIPASSO ITALIANO MODULO 4 Baudelaire, scapigliati, Carducci - miei appunti su quasi tutto Baudelaire
MODULO 4: Baudelaire, gli scapigliati, Carducci.
Dettagli: Henri Murger, Scène de la vie de bohème; Charles Baudelaire, da Les fleurs du mal: Correspondances, La Beauté, Spleen, Moesta et errabunda; Arrigo Boito, Dualismo, Giosuè Carducci, Alla stazione in una mattina d’autunno.
Dal libro di testo 3b pp. 17-18; 26-34, 38- 43; 58-61, 67-71; 88-93, 102-105; 112-115.
MURGER
Louis-Henri Murger nasce a Parigi il 27 marzo 1822, figlio di un immigrato dalla Savoia, di professione sarto e portiere di uno stabile a Rue Saint Georges, e di un’operaia. Comincia a studiare gli scrittori francesi, in particolare Victor Hugo, dipinge acquerelli e scrive poesie. Presto Murger passa alla prosa, scrivendo per la prestigiosa rivista “L’Artiste”, alla quale collabora in quel periodo anche Charles Baudelaire, e per l'altrettanto importante “Revue des Deux Mondes”, nel XIX secolo vera fucina culturale per i giovani scrittori e critici della generazione romantica. Nel 1849, in collaborazione con Thèodore Barrière, attore e drammaturgo, trae da una serie di racconti già pubblicati sulla rivista “Le Corsaire-Satan”, che descrivono la vita di graziose grisettes (sartine) e di giovani artisti poveri ma pieni di speranze, un’opera teatrale dal titolo La vie de Bohème. L’editore Michel Lévy chiede allora a Murger di riunire i racconti che erano stati alla base dell’opera teatrale per farne un romanzo. Così lo scrittore arriva a pubblicare la sua opera più nota Scènes de la vie de Bohème (Scene della vita di Bohème) (1851). La vita romantica, senza sicurezza nel domani ma fondata su solidissime basi di amicizie sincere e disinteressate, diviene un tema congeniale a tutta la sua produzione letteraria. Per il suo temperamento umano, secondo il suo contemporaneo, scrittore e critico, Théophile Gautier, egli era veramente un poeta nella sua opera e nella vita. Sia l’opera sia il romanzo riscuotono molto successo e garantiscono un'effimera agiatezza all’autore. In Italia il primo ad appassionarsi alla vita e all’opera di Murger è il giornalista e critico letterario scapigliato Felice Cameroni (Milano 1844 – 1913). Grazie a lui e alla sua traduzione delle Scene della vita di Bohème, il pubblico italiano conosce l’opera di Murger, così come quella di Émile Zola, con il quale l'autore milanese intrattiene anche un interessante carteggio, poi pubblicato.
DA LEOPARDI ALLA BOHÈME A BAUDELAIRE
Se si vuole seguire una strada precisa nell’indagare un secolo, nel riconoscere le caratteristiche dominanti di una generazione che ha dato vita a un modo nuovo di creare e al contempo di sentire e interpretare il mondo in cui viveva, una delle possibilità che si propongono è quella di scegliere un tema, oppure una rappresentazione, o anche un’immagine, e rintracciare in diverse personalità artistiche la sua espressione. Per evitare l’insidia della superficialità, occorre determinare i contesti di appartenenza, in via preliminare, e poi ritornare all’occorrenza a considerarli mentre si procede con l’analisi, l’intendimento delle creazioni in sé. Esse, tra l’altro, dicono sempre qualcosa, qualcosa di nuovo, intendo, anche quando si trascuri di ricondurle al contesto di cui dicevo. La storicizzazione, insomma, è ineludibile, eppure talvolta metterla da parte può favorire intuizioni sorprendenti, alle quali ci si può autorizzare, per poi sottoporle a un vaglio successivo da parte della ricostruzione storica più canonica.
Questa premessa, per consentire appunto di percorrere la via insidiosa di un accostamento di anime poste di fronte a un tema senza tempo, che è anche un’immagine e una rappresentazione, ma pure una chiave di volta per capire la relazione con il reale e con l’idea di mondo detenuta da chi ne rende partecipi gli altri attraverso la poesia, se non, più estesamente, attraverso l’arte in qualsiasi forma.
Il tema prescelto è la bellezza. A definirla si sono impegnati i Greci, per vie di canone e di regole. La bellezza è apollinea, è perfezione, equilibrio e armonia. Sono i pilastri dell’estetica classica, che nel romanticismo non vengono sostituiti ma affiancati da quella che di solito indichiamo, un po’ confusamente, come una nuova sensibilità: quella che induce a sostituire l’ideale apollineo (che pure, appunto, si precisa in forme e misure) con la testa di Medusa.
Shelley vide esposto il quadro così intitolato, attribuito all’epoca a Leonardo da Vinci, nel 1819 a Firenze presso la Galleria degli Uffizi. Al principio del Novecento, lo storico dell’arte Corrado Ricci stabilì si trattasse dell’opera di un Anonimo Fiammingo. Agli Uffizi si trova attualmente esposta la più celebre rappresentazione della testa del mostro realizzata da Caravaggio, mentre il quadro che ispirò Shelley fu riposto nei magazzini del museo, dove si troverebbe tuttora. A proposito della bellezza medusea scrive pagine illuminanti Mario Praz, nel suo La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, un saggio che negli anni Trenta del Novecento ha contribuito a riconoscere una continuità fra il primo e il secondo romanticismo, e in particolare il precoce sorgere, già con Shelley, di una sensibilità di tipo decadente. Praz è uno studioso dei fenomeni letterari in grado di ampliare straordinariamente gli orizzonti di là dalle congiunture epocali: per esempio riconosce tracce di questa sensibilità medusea già in Tasso o in Shakespeare. Entrando ora in qualche dettaglio di essa, mi soffermo su qualche passaggio della poesia di Shelley: ad esempio sul verso che suona, tradotto, l’orrore e la bellezza sono in lei divini, che permette di cogliere il primo connotato distintivo di questa bellezza medusea, in cui i due opposti orrore e bellezza sono accostati al punto di fondersi nella comune determinazione di divini. Il divino è il bell’orrore, ovvero la bellezza è nell’orrore, come ben si può intendere per via dell’impatto visivo col quadro, al quale risale infatti l’ispirazione poetica di Shelley. E ancora, la grazia si posa sul volto della Gorgone come una grazia, la karis antica che era una dea, e da essa promana uno splendore livido, nel quale angoscia e morte celebrano il trionfo che le caratterizza, ovvero un’agonia. S’intende, in questo passaggio del componimento, che la sensibilità che sottende la raffigurazione è agli antipodi in effetti rispetto a quella classica, che ama riflettersi in specchi limpidi, in aurei equilibri, celebrando l’armonia anche quando al di sotto di essa si celano sconvolgimenti profondi. Non possiamo dimenticare, a questo proposito, che un modello originario di classicismo, il poeta trecentesco Petrarca, limava il verso, dal sonetto alla canzone, in modo che potesse far risuonare con le stesse note limpide le sofferenze dell’anima come le celebrazioni della natura raffigurata come locus amoenus, ovvero due opposti della sensibilità umana, collocati sotto lo stesso sigillo stilistico. Viceversa la bellezza medusea rende manifesta, per una scelta di stile, la scompostezza che brulica nel profondo, e che ben valgono a rappresentare, plasticamente, i serpenti che vorticano dalla testa di una Medusa, la quale non può mai essere del tutto morta, dal momento che resta attivo di lei, oltre al groviglio serpeggiante, anche lo sguardo mortale, in grado di impietrire per sempre (questa è una vera morte) chi non sia abbastanza forte da sfuggirgli. A tale proposito, nei versi successivi, la categoria dell’orrore viene evocata e resa inferiore rispetto alla grazia, che evidentemente agisce anche più di esso, nell' impietrire lo spirito dell’osservatore: è pur sempre karis, la dea, ad agire in modo che i lineamenti del volto diventino attraenti al punto da impedire allo sguardo di distogliersi, promuovendo in questo modo l’effetto di irretire: il pensiero si smarrisce, un po’ come accada a chi (la memoria è leopardiana a questo proposito) s’abbandoni al naufragio nell’infinito, ma col poeta inglese è il melodioso colore della bellezza, gettato/attraverso le tenebre e il bagliore della pena,/che fa umana e armoniosa l’impressione. Il termine grazia continua a ricorrere nel componimento, sempre associato a suoi opposti: nell’ultima strofa è tempestosa l’aggettivo, e terrore il sostantivo: poi tutto culmina nella bellezza avvertita come un segno distintivo del volto femminile, che nella morte fissa gli occhi al cielo. Immobile eppure sempre in movimento, come le serpi i cui corpi guizzano e lampeggiano di bagliori ramati.
A metà del secolo, troviamo una nuova espressione, sentimento, percezione della bellezza nella raccolta di Baudelarie, Les fleurs du mal. Baudelaire è ossessionato dalla bellezza, tormentato da essa. Il tormento nasce indubbiamente anche, ma non solo, dal periodo. Come Leopardi, il poeta francese è in conflitto con il proprio tempo. In linea, sotto questo profilo, ma con altra profondità, con i bohémiens. La percezione da cui si può partire è quella di un tramonto o addirittura di una fine avvenuta: la bellezza come ideale assoluto non c’è più, è stata travolta dalla temperie storica. La bellezza classica, che incarna anche per definizione un assoluto, un ideale, è stata travolta dalla modernità. Il componimento dei Fleurs du mal che risulta a lei dedicato, giacché la propone nel titolo e le dà la parola, può a questo punto guidarci nel comprendere il punto di vista estetico e creativo del poeta.
La Beauté
Je suis belle, ô mortels! comme un rêve de pierre,
Et mon sein, où chacun s'est meurtri tour à tour,
Est fait pour inspirer au poète un amour
Eternel et muet ainsi que la matière.
Je trône dans l'azur comme un sphinx incompris;
J'unis un coeur de neige à la blancheur des cygnes;
Je hais le mouvement qui déplace les lignes,
Et jamais je ne pleure et jamais je ne ris.
Les poètes, devant mes grandes attitudes,
Que j'ai l'air d'emprunter aux plus fiers monuments,
Consumeront leurs jours en d'austères études;
Car j'ai, pour fasciner ces dociles amants,
De purs miroirs qui font toutes choses plus belles:
Mes yeux, mes larges yeux aux clartés éternelles!
—
Charles Baudelaire
LA BELLEZZA
Sono bella, o mortali, una chimera
di pietra!Tutti il mio seno ha estenuato,
ma al poeta un amore ha ispirato
tacito, eterno come la materia.
Ho il trono nell'azzurro, sfinge oscura,
ho il cuore di neve, del cigno il biancore,
odio il gesto che le linee scompone,
al riso e al pianto estranea è la mia natura.
Vedendomi in atteggiamenti fieri
ispirati a scultorei monumenti,
i poeti si danno a studi austeri,
Per stregare così docili amanti
ho, specchi dove il bello si discerne,
gli occhi, i miei occhi dalle luci eterne.
Trad. di Antonio Prete
Nel sonetto (che, da notare, è forma classicissima) Baudelaire immagina le parole che la Bellezza rivolgerebbe agli artisti, poiché la questione estetica è al principio di ogni atto creativo. Il testo non lascia speranza, poiché è la Bellezza stessa a dichiarare la propria inaccessibilità. Dunque si tratta di una dichiarazione di impotenza artistica? No, questa allegoria veicola un sentimento importante e centrale in Baudelaire, ossia la nostalgia per qualcosa che non sappiamo se esista, ma in ogni caso è oggetto di un desiderio inesauribile, che non trova realizzazione nel mondo della modernità. Altera e distante, la Bellezza sa però dar voce al lamento dell’artista, alla dolente supplica che quest’ultimo rivolge per superare questa gelida distanza. Questa forma di Bellezza, che racchiude in sé l’eterno e l’assoluto e che è forse nostalgia di un’unità con il trascendente, esiste solo sotto forma di postulazione (ovvero di richiesta, aspirazione). Essa coincide con il canone di Bellezza dell’età Classica (odio il gesto che le linee scompone) caratterizzata dall’armonia, dalla simmetria, dall’ideale, dall’universale e dal perfetto accordo della bellezza con la morale.
Per proseguire ancora un poco nel percorso attraverso la poesia di Baudelaire (1821-1867), occorre ora definire i contorni dell’opera complessiva cui ho fatto solo accenno, prima di trattare direttamente il sonetto di nostro interesse. Les fleurs du mal nascono con altri titoli, Les Lesbiennes, Les Limbes e approdano nel 1855, la pubblicazione definitiva è del 1857, a questo titolo, nel quale riecheggia il simbolismo medievale degli erbari, con fiori che si presentano come rappresentazioni di un assoluto malvagio, del male appunto. La collocazione dei componimenti all’interno del Livre è frutto di una sistemazione dell’Autore, che cerca di comporre col disegno finale una sorta di biografia poetica, che non segue l’ordine compositivo (viene così respinta qualunque identificazione corriva fra biografia e vita). Nella prima parte del libro entra la figura del poeta stesso come angelo decaduto, cui sarà riservato un atroce destino. Spleen et ideal, Tableaux Parisiens, Le vin, Les Fleurs du mal, Révolte, e La mort sono le sezioni. Segnalo, di passaggio, le sei liriche incriminate per immoralità che gli costarono un processo e una condanna: Lesbos, Femmes damnées, Le Léthé, À celle qui est trop gaie, Les Bijoux e Les Métamorphoses du vampire.
La dissoluzione dell’ideale provoca nel Poeta un sentimento di tedio, chiamato spleen, dal quale nessun dio potrà salvarlo. Si tratta di uno stato d’animo che si manifesta peculiarmente in questo periodo e che non è sufficiente far coincidere con la noia o con la malinconia: è una passione per il nulla mai provata prima con tale intensità e per la quale è necessaria al poeta francese una parola straniera: appunto spleen. Parola mutuata alla lingua di quel paese che aveva incarnato meglio di qualunque altro il materialismo della modernità. La parola, che risale al Trecento, designava la milza, organo deputato alla secrezione della bile nera, responsabile , secondo la Teoria degli Umori, della melanconia. La parola straniera (in una lingua che però Baudelaire conosceva perfettamente per aver tradotto Poe) sottolinea il carattere inedito di questa passione che, come una sorte di maleficio, si abbatte sullo spirito lasciandolo disorientato. Nella raccolta dei Fiori del Male, 4 poesie intitolate Spleen sono dedicate a questo male che opprime l’anima del poeta. Compaiono nella sezione della raccolta Spleen et Idéal, la prima delle sei sezioni (Spleen et Idéal, Tableaux Parisiens, Le Vin, Fleurs du Mal, Révolte et la Mort) Nel titolo della prima sezione, la congiunzione ha un valore disgiuntivo: solo l’ideale può salvarci dallo Spleen e la mente privata dell’ideale è destinata ad essere travolta da questo stato di angoscia profonda.
SPLEEN LXXVIII
Quand le ciel bas et lourd pèse comme un couvercle
Sur l'esprit gémissant en proie aux longs ennuis,
Et que de l'horizon embrassant tout le cercle
Il nous verse un jour noir plus triste que les nuits ;
Quand la terre est changée en un cachot humide,
Où l'Espérance, comme une chauve-souris,
S'en va battant les murs de son aile timide
Et se cognant la tête à des plafonds pourris ;
Quand la pluie étalant ses immenses traînées
D'une vaste prison imite les barreaux,
Et qu'un peuple muet d'infâmes araignées
Vient tendre ses filets au fond de nos cerveaux,
Des cloches tout à coup sautent avec furie
Et lancent vers le ciel un affreux hurlement,
Ainsi que des esprits errants et sans patrie
Qui se mettent à geindre opiniâtrement.
- Et de longs corbillards, sans tambours ni musique,
Défilent lentement dans mon âme ; l'Espoir,
Vaincu, pleure, et l'Angoisse atroce, despotique,
Sur mon crâne incliné plante son drapeau noir.
SPLEEN LXXVIII
Quando il cielo discende greve come un coperchio
sull'anima che geme stretta da noia amara,
e dell'ultimo orizzonte stringendo tutto il cerchio
ci versa un giorno cupo più della notte nera,
quando la terra è fatta un'umida segreta,
entro cui la Speranza, pipistrello smarrito,
con le sue timide ali sbatte sulle pareti,
e va urtando la testa sul soffitto marcito,
quando la pioggia spiega le sue immense strisce
imitando le sbarre di un carcere imponente,
e un popolo di ragni, silenzioso e viscido,
tende le reti in fondo a queste nostre menti,
d'improvviso campaneesplodono furiose,
lanciando verso il cielo un gridìo tremendo,
come anime che,erranti, senza patria, pietose
mandino un inatteso, ostinato lamento.
-Funebri cortei, senza la musica e i tamburi,
lenti solcano l'anima. La Speranza, lo sguardo
vinto piange, e l'Angoscia, che è dispotica e dura,
sul mio capo già chino pianta ora il suo stendardo.
(Traduzione di Antonio Prete)
Le prime tre strofe sono costituite da una concatenazione di sei proposizioni temporali che descrivono il contesto nel quale appare lo spleen e contribuiscono ad amplificare la sensazione di soffocamento e di chiusura. La successione delle subordinate riproduce anche il procedere dell’angoscia che invade l’anima per ondate fino a prenderne definitivamente possesso. La proposizione principale dirompe solo nella quarta strofa Des cloches [...]. In questo mondo privo di orizzonte teologico, non è possibile nessuna elevazione: il cielo è paragonato ad un oggetto pesante e prosaico “il coperchio” (v.1), la luce livida lascia intravedere una prigione nella quale il movimento ascensionale della Speranza è negato e costringe l’anima nello spazio angusto e insalubre del reale. Anche lo spazio si riduce progressivamente: dall’orizzonte alla terra alla mente del Poeta dove la visione si trasforma in un’allucinazione uditiva simile a un grido di disperazione lanciato al Cielo che ha abbandonato l’uomo e l’ha consegnato al reale. Al fragore delle campane segue un silenzio funereo ; è il silenzio della resa del Poeta che vinto si consegna all’Angoscia.
Siamo entrati in un’era decrepita dell’umanità, poiché l’artista, avendo inibito le sue facoltà creative, si consegna al reale e non sa più creare. Allora, bisogna allora ritrovare la bellezza anche all’interno della modernità. Inventare una bellezza che sia quella della città, della sua miseria, la bellezza paradossale di un mondo privato dell’ideale. Una bellezza che nasca dallo stesso spleen e dalla vertigine che esso provoca, una bellezza strana, sempre bizzarra che farà sbocciare i suoi fiori non in un’utopia celeste, alta nella quale più nessuno crede, ma nel male stesso, nell’infinita sofferenza che l’uomo moderno prova nell’aver abbandonato definitivamente Dio.
Nel poema in prosa che chiude Lo Spleen de Paris, I Buoni cani, Baudelaire scrive: Arrière la muse académique! Je n'ai que faire de cette vieille bégueule. J'invoque la muse familière, la citadine, la vivante, pour qu'elle m'aide à chanter les bons chiens, les pauvres chiens, les chiens crottés, ceux-là que chacun écarte, comme pestiférés et pouilleux, excepté le pauvre dont ils sont les associés, et le poète qui les regarde d'un œil fraternel
ovvero
Indietreggi la musa accademica! Non so che farmene di quella vecchia schifiltosa. Io invoco la musa alla mano, cittadina, vivente, perché mi soccorra a cantare i buoni cani, i poveri cani, i cani inzaccherati, quelli che ognuno scaccia come impestati e pidocchiosi, -tranne il povero, di cui sono i compagni, e il poeta, che li guarda con occhio fraterno.
Questo testo contiene l’esplicitazione di una poetica nuova, che intende ricercare la bellezza tra i rifiuti, gli scarti che si accumulano sui marciapiedi delle grandi città. La musa cittadina rifiuta i sentimenti incolori, gli idilli campestri, e per un breve istante Baudelaire ha pensato che avrebbe potuto persino ispirare i moti popolari e la poesia, intesa come inno delle barricate. Baudelaire ricorda per questi tratti Delacroix che dipinge nel 1830 La Liberté guidant le peuple, il primo quadro romantico che propone un’immagine nuova per un’epopea moderna. Baudelaire ha 9 anni nel 1830, ma ne ha 27 nel 1848 e i moti di febbraio lo entusiasmeranno più di quanto les Trois Glorieuses non avessero entusiasmato Delacroix, la cui partecipazione agli avvenimenti era stata solamente di natura sentimentale. Baudelaire, invece, sarà dapprima galvanizzato dall’insurrezione di febbraio 1848, poi atterrito in ugual misura dalla violenta repressione e infine, terrificato dal Colpo si Stato del 2 dicembre 1851. Baudelaire si è battuto sulle barricate di giugno 1848. In una lettera del 1852 scriverà Le 2 décembre m’a physiquemment dépolitiqué. Il n’ y a plus d’idées générales (Il 2 dicembre mi ha del tutto depoliticizzato. Non ci sono più idee generali. Il fallimento della rivoluzione del 1848 è per Baudelaire un fallimento interiore ovvero un fallimento della poesia. Infatti Baudelaire aveva identificato l’insurrezione repubblicana con la missione della poesia: il poeta è colui che ha ricevuto l’ispirazione e il suo canto fa sentire la voce del popolo. L’utopia rivoluzionaria del 1848 avrebbe potuto conciliare reale e ideale, la società e la poesia. E la delusione è ancora più profonda per il fatto che è stato il popolo ad eleggere mediante il suffragio universale il proprio tiranno. Il colpo di stato del 2 dicembre 1851 conduce Baudelaire ad una sorta di nichilismo la cui facciata è l’atteggiamento provocatorio del dandy.
La domanda iniziale di che cosa resti della poesia in un mondo separato dall’Ideale si può declinare anche in termini storici: come essere poeti durante il Secondo Impero? Il crollo dell’utopia politica ha messo a nudo il male insito nella natura umana e ha confutato l’ottimismo illuminista.
Se la realtà rifiuta la poesia, la poesia dovrà rinnegare la realtà, l’arte dovrà sostituire una natura irrimediabilmente corrotta con una finzione che incanta. In altre parole, Baudelaire chiede all’arte di trasfigurare il reale nel sogno e nell’utopia.
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