RIPASSO ITALIANO MODULO 3 MANZONI E DIBATTITI

MODULO 3: ripresa di Manzoni (dibattiti inerenti al romanticismo nazionale).

Dettagli: M.me de Stael, Delle traduzioni, Giovanni Berchet. La lettera semiseria di Giovanni Crisostomo al suo figliuolo, Alessandro Manzoni, La lettera al Marchese d’Azeglio.

 Vita di Manzoni e opere per punti

·        Nato a Milano nel 1785, dal conte Pietro e da Giulia Beccaria (figlia di Cesare, autore del trattato Dei delitti e delle pene) che presto si separano, trascorre fanciullezza e adolescenza in collegi religiosi, maturando una forte avversione nei riguardi dell’educazione formale e dei contenuti culturali trasmessi in questi contesti caratterizzati da ristrettezza ideologica.

·        Nel 1805 la svolta esistenziale: va a vivere a Parigi presso la madre, che dopo la separazione dal marito aveva iniziato a convivere con Carlo Imbonati, morto qualche mese prima. A Parigi Manzoni, oltre a riconoscere nella madre, fino a quel momento scarsamente frequentata, un’anima affine con cui intratterrà fino alla morte (di lei) un intenso scambio affettivo e intellettuale, frequenta gli ambienti degli ideologi, intellettuali dell’ultima generazione illuminista, tra cui Claude Fauriel, il cui pensiero liberale influenzerà molto le visioni politiche e economiche presenti nei Promessi sposi.

·        Sempre a Parigi, insieme alla madre inizia un percorso di approfondimento di temi religiosi e spirituali e entra in contatto con ecclesiastici di orientamento giansenista (da Giansenio, XVI secolo, perseguitati dall’inquisizione; il loro monastero di  Port Royal viene distrutto nel 1712; sono rigoristi sul piano morale, credono che l’uomo dopo il peccato originale non si possa riscattare e sia necessaria la grazia, predestinata, come i calvinisti) che promuoveranno quella che si definisce la sua conversione religiosa. Di essa non sappiamo molto, se non che coinvolge Giulia, Alessandro e la giovane moglie, inizialmente calvinista, Enrichetta Blondel.

·        Nel 1810 la famiglia torna a Milano (alla tenuta di Brusuglio), dove Manzoni abbandona completamente l’ispirazione classicista della giovinezza e si dedica agli Inni sacri (1812-1815), di orientamento romantico per l’ispirazione storica e religiosa.

·         Rispetto agli eventi storici di quegli anni, Manzoni si mantiene in disparte, pur manifestando sentimenti patriottici e unitari nella sua produzione artistica. Ferve la sua attività letteraria:  scrive le odi Marzo 1821 (pubblicata però nel 1848)  e Il cinque maggio, le due prime redazioni dei Promessi sposi, le Osservazioni sulla morale cattolica, il Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia, le due tragedie Il conte di Carmagnola e Adelchi, oltre a saggi sulle unità drammatiche e sul romanticismo.

·         Con l’edizione del 1827 dei Promessi sposi si conclude il periodo più creativo di Manzoni che in seguito si dedica per lo più  alla riscrittura del romanzo storico, da lui ritenuto l’unica forma di espressione vera e morale possibile in arte. Circondato di ammirazione per le sue opere, viene eletto senatore del Regno d’Italia, vota a favore dello spostamento della capitale da Torino a Firenze e poi a Roma, di cui nel 1872 accetta la cittadinanza onoraria. Muore a Milano nel 1873, con funerale di Stato e presenza del principe ereditario Umberto.

Come Leopardi, anche Manzoni vive a cavallo tra due epoche e non solo fra due secoli: neoclassicismo, illuminismo e romanticismo sono anche per lui, che al secondo contribuisce sia in termini di discussioni sia di elaborazione di modelli, altrettanti stili compositivi, sensibilità e visioni del mondo da attraversare e di cui servirsi nelle diverse fasi del suo percorso umano e di scrittore. Dalla biografia e bibliografia sommaria si coglie infatti come, dopo giovanili esperienze neoclassiche e dopo una fase di forte ripudio della religione confessionale, Manzoni si accosti allo studio della religione cattolica, compiendo al contempo un percorso interiore che lo conduce, oltre che alla cosiddetta conversione familiare, a concepire la maggior parte delle opere della sua maturità: dagli Inni Sacri  alle Osservazioni sulla morale cattolica, alle due tragedie e ai Promessi sposi nelle varie riscrittureAd accomunare queste  produzioni letterarie, che spaziano dalla poesia alla saggistica al romanzo, può essere indicata la volontà da parte sua di elaborare una visione del mondo che affondi le sue radici nella storia, da intendersi in particolare come cultura e tradizione italiane conciliate con un universale, certo anche storicizzabile,  identificato dallo scrittore nella religione cattolica. Questo può spiegare, tra l’altro, come mai I promessi sposi siano stati prescelti come testo di narrativa curricolare nella scuola italiana, a partire dall’Unità d’Italia, nel 1871: possono prestarsi a una lettura appiattita sull’unico livello della trasmissione di valori patriottici e religiosi di stampo genericamente liberale, utili a promuovere obbedienza e subordinazione ai poteri costituiti, a accettare senza soprassalti ribellistici tanto quello che accade per vie naturali quanto gli eventi, pur luttuosi e ingiusti, determinati dagli esseri umani. Preciso che si tratta di un appiattimento, e che ben altro si può ottenere da uno studio mediamente approfondito del romanzo di Manzoni, ma è indubbio che già solo la formula restrittiva con cui lo si è descritto per decenni, definendolo il romanzo della provvidenza (cristiana, ovviamente), ne fa un monumento alla religione che più ha influenzato la nostra cultura nazionale e, fino a un certo punto, anche le scelte di politica scolastica pubblica.

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DIBATTITI NEL PRIMO OTTOCENTO

Nel gennaio del 1816, sulla “Biblioteca italiana” il letterato classicista Pietro Giordani, già a noi noto come amico di Leopardi, pubblica  la traduzione di un lungo articolo, presentato in forma di lettera, dal titolo Sulla maniera e la utilità delle traduzioni, firmato da Madame de Staël, intellettuale francese di origini svizzere. Nelle intenzioni dell’autrice, la lettera era un invito rivolto ai letterati italiani affinché si dedicassero a leggere, appunto traducendole, opere dei contemporanei europei. L’autrice, che ammette di ammirare profondamente l’arte classica, suggerisce che tuttavia fossilizzarsi nell’ispirazione esclusiva in quella direzione, può rendere ripetitiva e poco creativa la vena poetica. Viceversa, tradurre i moderni potrebbe fornire nuova materia anche ai poeti italiani. Il primo a replicare alla scrittrice francese è lo stesso Giordani, convinto classicista proprio come il giovane Leopardi, ma nello stesso anno compare anche un’altra lettera, destinata a diventare il manifesto del romanticismo nostrano: si tratta della Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliuolo, di Giovanni Berchet, in cui  l’autore consiglia al figlio di seguire i dettami della nuova letteratura romantica,  definita poesia dei vivi e contrapposta alla poesia dei morti, quella di stampo neoclassico,  salvo poi fingere di aver scherzato, come suggerisce lo stile semiserio dichiarato nel titolo, e esibire quindi una ritrattazione, in cui l’arte classica è nuovamente esaltata. In questo quadro sommariamente evocato, da cui si comprende tuttavia che in Italia ormai il dibattito è aperto, si inserisce l’intervento di Manzoni con la sua Lettera al marchese d'Azeglio sul Romanticismo. Il marchese  aveva pubblicato, sulla rivista "L'amico d'Italia", uno degli Inni di Manzoni, precisamente La Pentecoste. Pur elogiando l'autore, avanzava   sostanziali riserve sulla possibile durata delle istanze compositive, stilistiche soprattutto, del movimento romantico. La risposta manzoniana  risale al 1823, e la lettera sarà oggetto di pubblicazione, non voluta dall’autore, nel 1846, mentre l’edizione del 1870, quella che leggiamo oggi, compare col suo consenso. Il resto di questo capitolo è quindi dedicato a una sintesi dei contenuti concettuali della lettera-manifesto di Manzoni. Come ci si può attendere da una rivoluzione¸ sia pure letteraria, il romanticismo si delinea secondo Manzoni per via di contrasti e di opposizioni: la prima riguarda il patrimonio mitologico, fonte quasi esclusiva di immagini per i poeti dell’Arcadia neoclassica; la seconda il principio cardine del classicismo, ovvero l’imitazione, che comprende anche il ricorso a canoni, primi fra tutti quelli desunti arbitrariamente dalla Poetica di Aristotele, ovvero le unità di tempo e di luogo imposte alle opere tragiche. Conclusa questa pars destruens, Manzoni passa a considerare come si debbano orientare gli scrittori della nuova corrente e concepisce alcune linee di pensiero destinate a loro volta a trasformarsi in nuovi canoni di scrittura. Propongo la formulazione più didascalica di questa parte del contenuto della lunga lettera: gli scrittori romantici devono scegliere il vero come oggetto, l’utile come scopo e l’interessante come mezzo. In altri termini, la letteratura deve attenersi alla verità, avere uno scopo morale e educativo e servirsi della piacevolezza (nelle forme, nella scelta d’una trama accattivante) per tenere accesa l’attenzione dei lettori e corrispondere a uno dei motivi originari per cui è nata l’arte, promuovere il piacere. Si tratta di un programma che risente della formazione illuministica di Manzoni: il richiamo al vero, che poi è essenzialmente quello storico, ad esempio, in contrasto con l’ispirazione mitologica della poesia neoclassica, si armonizza perfettamente con lo storicismo prevalente nel periodo della rivoluzione francese; anche la vocazione utilitaristica è un cavallo di battaglia di molti scrittori illuministi, dall’avo di Manzoni Cesare Beccaria, autore del celebre saggio Dei delitti e delle pene, a Parini con le sue Odi civili che contengono denunce d’ispirazione persino ecologica ante litteram. Da notare, anche, il fatto che risuoni in questa sintesi dei principî dell’arte romantica un rimando al classicissimo Orazio e alla sua Ars poetica, nota anche come Epistola ai Pisoni, in cui in piena epoca augustea ricorda ai contemporanei come una forma d’arte che aspiri a essere armonica e perfetta deve miscere utile dulci, mescolare l’utile al dilettevole, ovvero esattamente quanto suggerisce Manzoni agli scrittori del suo periodo e, ovviamente, a sé stesso. In perfetta coerenza con queste concezioni espresse nella comunicazione con d’Azeglio, I Promessi sposi, nonché la scelta della forma romanzo, rispondono all’esigenza di rendere la letteratura vera, interessante e utile (ossia morale). Lo scrittore si pone come un maestro, intenzionato a comunicare notizie storiche, ideali politici, principi morali, compresa l’eredità illuminista, in una veste stilistica che risulti interessante e moralmente costruttiva. Di qui il fatto che i personaggi del romanzo siano tratteggiati come tipi psicologici unici, calati in un contesto reale e storico. Nel romanzo, inoltre, Manzoni cerca di evitare il più possibile la trasfigurazione della realtà, la sua manipolazione, attenendosi appunto alla verità  a scapito della componente romanzesca, quella più accattivante, che però poteva nuocere al vero. Da questo sono derivati i profondi cambiamenti apportati alla configurazione della vicenda nel passaggio dalla prima edizione, ancora intitolata Fermo e Lucia e risalente agli anni Venti, all’ultima, del 1840. La revisione del romanzo è una vera e propria riscrittura: oltre a eliminare intere parti del medesimo (riducendo, per esempio, la storia della monaca di Monza e racchiudendone una parte nell’ellissi contenuta nell’espressione la sventurata rispose...), procede a un  mutamento linguistico cospicuo, assumendo come lingua letteraria, il fiorentino parlato dalle persone colte, ossia una lingua viva, non imbalsamata da una tradizione ormai logora ovvero, ritornando al punto della polemica di partenza, quella del classicismo. 

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