RIPASSO ITALIANO MODULI 6-7 - VERLAINE, DECADENTISMO, SIMBOLISMO, PASCOLI (DUE POESIE E POEMI CONVIVIALI) D'ANNUNZIO
MODULO 6: decadentismo e simbolismo (Verlaine, Huysmans). Dettagli:
Paul Verlaine, Langueur e Joris-Karl Huysmans. La realtà sostitutiva
(da A rebours, Controcorrente)
MODULO 7: Pascoli e D’Annunzio
Dettagli: Giovanni Pascoli, passi dal Fanciullino; due poesie
da Myricae e Ultimo viaggio dai Poemi
conviviali; Gabriele D’Annunzio passi da Il piacere, Le
vergini delle rocce, Il trionfo della morte, da Alcyone, La pioggia nel pineto,
La sera fiesolana, Meriggio
Dal vol. 3b pp. 337-365 ( solo Langueur), 380-390 e pp. 412-440,
458-460,475-487, 506-539, 543-549, 552-553, 559-564, 584-596.
Il Decadentismo da Langueur di Verlaine: QUASI UN
MANIFESTO (analisi)
Da Jadis et naguère, Allora e ora, Langueur, Languore
Il sonetto, tratto dalla raccolta Allora e ora, pubblicata nel
1883, associa lo stato d’animo di languore del poeta al quadro storico di
decadenza dell’Impero romano invaso dai barbari.
Je suis l'Empire à la fin de la décadence,
Qui regarde passer
les grands Barbares blancs
En composant des
acrostiches indolents
D'un style d'or où la langueur du soleil danse.
Sono l’Impero alla fine della
decadenza,
resto a guardare i
grandi Barbari bianchi mentre passano
componendo
indolenti acrostici
in uno stile aureo
in cui danza languidamente il sole.
L'ame seulette a mal au coeur d'un ennui dense,
Là-bas on dit
qu'il est de longs combats sanglants.
O n'y pouvoir, étant si faible aux voeux si lents,
O n'y vouloir fleurir un peu cette existence!
L’anima tutta sola ha un mal di
cuore in cui s’addensa noia,
laggiù si dice che ci
sono lunghe e sanguinose battaglie.
O, non potervi,
essendo così debole nei propositi,
O, non voler far
fiorire un po’ questa vita
O n'y vouloir, ô n'y pouvoir mourir un peu!
Ah! tout est bu!
Bathylle, as-tu fini de rire?
Ah! tout est bu,
tout est mangé! Plus rien à dire!
O non volervi, non potervi un
po’ morire !
Ah !tutto è bevuto
! Batillo, non hai più niente da ridere ?
Tutto bevuto,
tutto mangiato ! Niente da dire !
Seul un poème un peu niais qu'on jette au feu,
Seul un esclave un peu coureur qui vous néglige,
Seul un ennui d'on ne sait quoi qui vous afflige!
Solo un poema un po’
fatuo da dare alle fiamme,
Solo uno schiavo
un po’ frivolo che vi dimentica,
Solo una noia d’un
non soc osa che vi affligge !
Paul Verlaine (1844 - 1896)
Nota: Batillo è famoso attore di Alessandria caro a
Mecenate, il collaboratore dell’imperatore romano Augusto e protettore degli
artisti. L’interrogativa indica la crisi della poesia e il vanificarsi
dell’impegno intellettuale del poeta.
COMMENTO
Il poeta associa per analogia il proprio stato d’animo di languore al
periodo della decadenza dell’Impero romano, cioè a un’epoca di debolezza morale
e di evasione, effimera, nei piaceri della vita. La malattia che lo
affligge è multipla: si compone di senso di solitudine, di noia,
di passività, che non gli fanno desiderare né di vivere né di
morire. Una sorta di accidia di petrarchesca memoria, ma senza il possibile
conforto, alla portata del poeta trecentesco, di un ritorno o
approdo alla fede. Una condizione che si riflette nella sua poesia,
ridotta ad acrostici indolenti, svuotata di ogni contenuto morale o sociale,
diventata puro esercizio formale. Niente più da dire, in sintesi (Tutto è
bevuto, tutto è mangiato!); la sua poesia è da gettare alle fiamme. Se non
altri suoi testi Verlaine ribadisce il concetto che l'arte deve essere fine a
se stessa (l'arte per l'arte) in questo caso invece proclama piuttosto la morte
dell'arte. Il sentimento della decadenza pertanto avvicina, quasi
identificandoli nell'artificio immaginativo della poesia, due momenti storici
molto distanti, e acquista un significato universale, che fa della lirica un
manifesto del decadentismo europeo. Il languore, come già lo spleen
baudeleriano si palesa come malattia dell’anima e condizione di inerzia
intellettuale, esprimendosi per esempio nel Poema Paradisiaco e
nel romanzo Il piacere, entrambi di D’Annunzio.
NASCITA DEL DECADENTISMO
Il movimento dei décadents (decadenti) nasce a
Parigi nella prima metà degli anni Ottanta. Di Decadentismo si comincia a
parlare infatti in seguito alla pubblicazione di un sonetto di Paul Verlaine
sulla rivista «Le Chat Noir» [Il gatto nero], nel maggio 1883. Esso iniziava
con il verso Je suis l’Empire à la fin de la décadence (Io sono
l’Impero alla fine della decadenza). Affiora il concetto che la
raffinatezza e l’eleganza siano proprie delle epoche storiche di
decadenza. E in effetti la nuova tendenza è caratterizzata dalla sensazione di
un eccesso di civiltà, unita a percezione di imminente catastrofe e,
nello stesso tempo, dall’orgogliosa rivendicazione del valore positivo
dell’artificio e della raffinatezza tipici delle epoche al tramonto. Sono,
quindi, degli opposti che si incontrano: civiltà al suo massimo grado
espressivo e presaga della propria stessa fine.
Il movimento decadente avrà poi il suo organo ufficiale nella rivista «Le
Décadent», diretta da Anatole Baju nel 1886, ma già due anni prima, nel 1884, era
uscito il romanzo A rebours[Controcorrente] di un
transfuga del Naturalismo, Joris-Karl Huysmans. Il libro, fondato sulla
convinzione della superiorità di una vita basata sugli stimoli artificiali e
sull’estetismo, divenne la bibbia del Decadentismo. In esso
l’aristocrazia dello spirito è polemicamente contrapposta alla volgarità della
vita borghese. Controcorrente di Huysmans diventa anch'esso
un manifesto, suggerendo esiti analoghi in Inghilterra e in Italia:
la figura del dandy (personaggio eccentrico ed estetizzante)
creata da Huysmans è presente anche nel romanzo di Oscar Wilde, The
Picture of Dorian Gray (1890)] e nel Piacere di
D'Annunzio (1889). Il Decadentismo francese, di Huysmans come di
Verlaine, si caratterizza dunque per la percezione di una svolta della
storia, che si accompagna a un senso di estenuazione e di morte, di «senescenza
e stanchezza, saturazione culturale e degenerazione», a cui si unisce però
«un’idea di nobiltà spirituale» (come afferma tra gli altri il critico
novecentesco Hauser). Negli anni Novanta del secolo, inoltre, alle produzioni
che riconosciamo propriamente come decadenti si
affiancano quelle prodotte da un altro movimento, il Simbolismo,
nato all'incirca negli anni Ottanta e fusosi col Decadentismo.
IN SINTESI, i tratti fondamentali del Decadentismo come fenomeno
culturale e artistico sono i seguenti:
1. Rifiuto del metodo scientifico e razionale e predisposizione ad
atteggiamenti irrazionalistici, ispirati al sensualismo o al misticismo.
2. Soggettivismo e individualismo. L’arte deve esprimere le
sensazioni del soggetto, la sua vita interiore e sensuale. L’artista si
presenta come un soggetto isolato ed eccezionale, dotato di valori
aristocratici e raffinati che lo contrappongono alla prosaicità del mondo
borghese, alla volgarità della borghesia e della vita quotidiana. L’artista si
trasforma in dandy, che disprezza la massa e ispira la propria vita al gusto
della distinzione e dell’artificio.
3. Scoperta dell’inconscio. L’arte tende a esprimere le associazioni
profonde dell’io, la complessità dei pre-sentimenti, e a collegare il mistero
dell’anima a quello della vita stessa dell’universo.
4. Ricorso al simbolismo, sorta di poetica dominante del
Decadentismo: di qui la prevalenza dei procedimenti analogici, la ricerca delle
corrispondenze fra l’anima del soggetto e la vita dell’universo, il ricorso
alla metafora e soprattutto alla sinestesia.
5. Estetismo e religione dell’arte. I decadenti affermano non
solo l’autonomia dell’arte, ma la sua superiorità. Per sostenerne l’autonomia,
diffondono la teoria dell’arte per l’arte, già elaborata dai parnassiani in
Francia e da Walter Pater in Inghilterra: l’arte deve obbedire solo a se
stessa, liberandosi da qualsiasi criterio estrinseco di natura morale, politica
o sociale. Per sostenerne la superiorità, promuovono il culto della forma come
parte integrante del culto dell’arte, intesa come pura Bellezza, ragione di
vita, e vera e propria religione. La vita stessa deve ispirarsi a criteri
unicamente estetici, e deve risolversi in arte.
6. Concezione del poeta come artefice supremo o
come profeta e vate. Poiché la poesia è concepita come rivelazione
dell’Assoluto, il poeta è immaginato come il mediatore e il sacerdote di tale
rivelazione. L’artista è un inventore e un creatore: non deve più imitare la
vita, come facevano gli scrittori naturalisti, ma crearla.
In Italia il decadentismo si afferma all’inizio come reazione
spiritualeggiante, che contrappone i valori dell’anima a quelli materiali
promulgati dalla cultura positivistica e dalla letteratura veristica. Un
ruolo importante hanno le riviste «Il Convito» (1895-1907), diretta da
Adolfo De Bosis (vi collaborano d’Annunzio e Pascoli), e «Il Marzocco». Il
Decadentismo italiano fiorisce soprattutto nel quindicennio 1890-1905. Si
afferma infatti a partire da Il piacere di D'Annunzio nel 1889
e da Myricae di Pascoli nel 1891, mentre la pubblicazione
dell’Alcyone di D’Annunzio nel 1903 e dei Poemi conviviali di
Pascoli nel 1904 segnano il culmine, ma anche la conclusione, della
parabola decadente. Il decadentismo italiano presenta caratteri specifici. Si
differenzia da quello europeo per i suoi tratti spiccatamente umanistici e per
il legame, ancora forte, con la tradizione classica. Di qui la ripresa da parte
di Pascoli e di D’Annunzio di motivi tradizionali, quali quello del poeta-vate
risorgimentale, e la tendenza a riproporre un ruolo protagonistico, anche in
campo ideologico, della figura del poeta, che era invece improponibile nelle
altre nazioni. D’altronde, tale tendenza può sopravvivere in Italia per
l'arretratezza economica e sociale del nostro paese, che è ancora, alla
fine dell’Ottocento, lontano dalle forme di una moderna democrazia di
massa. Anche la capacità di approfondimento delle tematiche legate
all’inconscio appare, in Italia, limitata. Riprende tuttavia
indubbiamente dal romanticismo nordico l’individualismo, la tendenza al
simbolismo e all’irrazionalismo, l’opposizione io-società. Mentre però il
romanticismo aveva fatto dei sentimenti e delle passioni la propria materia
preferita, il decadentismo sceglie un’area più profonda: quella dei
pre-sentimenti e dell’inconscio. Inoltre, il romanticismo aveva esaltato
l’artista come eroe e ribelle, sottolineandone gli aspetti titanici e costruttivi;
invece i decadenti amano la figura del dandy, personaggio eccentrico ed
estenuato, ammalato di civiltà e rivolto all’artificio. Anche il rapporto delle
avanguardie novecentesche con il decadentismo è di continuità e, insieme, di
rottura. La continuità consiste nella comune cultura, profondamente segnata
dall’influenza di Nietzsche e di Bergson. La rottura, che è tuttavia
prevalente rispetto alla continuità, deriva dalla messa in discussione
della concezione dell’arte oracolare e superiore dei decadenti e
della figura del poeta come artefice creatore o dandy: il poeta espressionista
ha ormai introiettato la caduta dell’“aureola” e la fine dell’“aura” e si
colloca quindi in una prospettiva assai meno aristocratica. Tende inoltre a
rifiutare le poetiche del simbolismo contrapponendo a esse modalità di tipo
allegorico.
VITA DI PASCOLI
Il suo paese di nascita è S. Mauro di Romagna, in provincia di
Forlì-Cesena. L'anno è il 1855. Quarto di dieci figli, all'età di 12 anni, il
10 agosto del 1867, subisce insieme alla sua famiglia un terribile lutto: il
padre Ruggero, amministratore della tenuta La Torre dei
principi di Torlonia, viene ucciso con una fucilata mentre torna in calesse da
Cesena a San Mauro. Anche se sono avviate indagini, gli autori dell'agguato e
dell'omicidio non vengono mai arrestati. Fra il 1868 e il 1871 muoiono, per
cause diverse, un fratello, una sorella e la madre del
poeta, il quale riesce comunque a proseguire gli studi grazie al fratello
maggiore che trova lavoro a Rimini, dove si trasferisce quanto resta della
famiglia (otto, fra fratelli e sorelle). Il 1873 è l'anno della dispersione
della famiglia: Giovanni partecipa a un concorso per una borsa di studio
bandito dall'università di Bologna, viene esaminato dal poeta vate dell'epoca,
Giosuè Carducci, e lo supera, iscrivendosi così all'università. Gli anni fra il
1876 e il 1879 sono caratterizzati, oltre che dallo studio, dalla
partecipazione attiva alla politica: lo attrae il socialismo di Andrea Costa,
inizialmente anarchico, poi socialista rivoluzionario. Per aver partecipato a
una manifestazione viene arrestato insieme ad altri attivisti e resta in
carcere a Bologna per qualche mese, finché, processato, è assolto con formula
piena. Da questo momento cessa ogni forma di attivismo e si dedica interamente
allo studio: nel 1882 si laurea con una tesi sul poeta greco Alceo ed è
nominato professore presso il liceo di Matera. Le sue poesie iniziano ad
attrarre l'attenzione, ad esempio D'Annunzio lo invita a collaborare alla
rivista "Cronaca Bizantina". Trasferitosi per insegnare a Massa,
cerca di riunire quello che resta della famiglia, decimata dalle morti: le
sorelle Ida e Maria, che hanno terminato la loro educazione in convento vanno a
vivere insieme a lui, trasferendosi a Livorno dal 1887 al 1895. Sono gli anni
in cui inizia a scrivere Myricae e vince prestigiose gare di
traduzione poetica dal latino. Nel 1893 fa parte di una commissione
ministeriale incaricata di riformare l'insegnamento del latino nelle scuole. A
Roma conosce Adolfo De Bosis che gli chiede di pubblicare sue poesie sulla
rivista "Il convito", sul quale compariranno i Poemi
conviviali. Nel 1895 la sorella Ida tradisce il
nido familiare ricostituito sposandosi: così, con Maria egli si trasferisce a
Castelvecchio di Barga nei pressi di Lucca, che diventa la loro
stabile residenza. Nello stesso anno viene nominato professore straordinario di
grammatica latina e greca all'università di Bologna. Prosegue la sua attività
poetica e di riflessione sull'estetica di cui si fa portatore: concepisce il
saggio Il fanciullino, dal quale si possono ricavare molte
indicazioni di lettura delle poesie, ma anche analisi della poesia leopardiana
e di quella dantesca (Minerva oscura). Nel 1905 gli viene assegnata la
cattedra di letteratura italiana a Bologna ch'era stata di Carducci,
collocatosi a riposo (morirà l'anno dopo). Continua una fervida attività sia
come poeta sia come traduttore anche negli ultimi anni prima della morte,
avvenuta per un cancro allo stomaco nel 1912. La sua tomba si trova nel
cimitero di Barga.
NOTA SUL FONOSIMBOLISMO E SULLE ONOMATOPEE (ampio ricorso a entrambi da
parte di Pascoli soprattutto)
Il termine fonosimbolismo (o simbolismo
fonetico) si riferisce a una serie di fenomeni di varia natura e tipologia
nei quali da un suono o una sequenza di suoni si riconosce il valore
semantico in modo diretto e non mediato dalla grammatica. Ciò fa
sì che un suono venga ad assumere un significato e
che il poeta che si serve di questo specifico linguaggio possa confidare sulla
sovrapposizione di due livelli di comunicazione: uno è quello della lingua
naturale, l'altro quello della lingua nella sua espressione
esclusivamente fonica. Nell’accezione corrente del
termine, il fenomeno fonosimbolico più noto è l’onomatopea, ma i confini del
fonosimbolismo sono in realtà molto ampi, fino a rientrare a pieno diritto
nell’ambito del cosiddetto iconismo linguistico. Con quest'ultima
espressione s'intende un utilizzo della parole o delle associazioni di parole
volto a produrre un effetto comunicativo tutto concentrato nella
dimensione fonica, dalla quale scaturiscono poi significati. In pratica, a
una desemantizzazione (sottrazione di significato) segue una risemantizzazione,
che avviene con la complicità del suono (un esempio è rappresentato dai due
componimenti poetici riportati sotto, Temporale e Il
lampo, entrambi da Myricae)
Onomatopee
Il rapporto naturale, in quanto motivato su base mimetica, tra suono e
senso sembra trovare la sua massima espressione nelle onomatopee, segni
linguistici che riproducono direttamente suoni, rumori o voci di animali,
usando i mezzi fonetici e grafemici disponibili; ad es., in italiano, din don
per il suono delle campane, chicchirichì e coccodè per il verso del gallo e
della gallina.
Oltre alle onomatopee pure, tutte le lingue del mondo comprendono le parole
onomatopeiche, così dette in virtù del loro legame immediato e diretto,
prodotto dai suoni, con i referenti espressivi: la maggior parte dei
verbi che esprimono i suoni del mondo animale, ad esempio, sono onomatopeici
(chiocciare, garrire, pigolare, frinire, muggire, ragliare, barrire, uggiolare,
miagolare, abbaiare).
Tuttavia, le onomatopee non sono una pura e semplice mimesi dei versi
prodotti dagli animali, ma mostrano esse stesse aspetti convenzionali
(ossia culturali). Infatti, ogni lingua usa parole onomatopeiche diverse per lo
stesso referente: esemplare è il caso del canto del gallo, che è denominato in
italiano chicchirichì, in francese cocorico, in
inglese cock-a-doodle-doo, a conferma del carattere culturale,
dunque convenzionale, e non naturale, tra suono e senso anche in questo ambito.
NOTA SULLE TAMERICI (per il titolo della raccolta pascoliana Myricae)
Le tamerici sono arbusti, e alle humiles myricae il
poeta latino Virgilio, nel I secolo a. C. dedica l'incipit della IV
Ecloga, scrivendo Non omnes arbusta iuvant humilesque
myricae, non a tutti piacciono gli arbusti e le umili tamerici.
Nell'evocazione di questa pianta comune, nativa del Vecchio Continente, che ama
le vicinanze marine e non è danneggiata dai terreni sabbiosi, si cela
un'orgogliosa rivendicazione: Virgilio sente di essere tra i primi poeti romani
che abbiano osato intonare un canto pastorale, una lirica d'ispirazione bassa,
rispetto alla musa tragica o a quella epica, sa
bene che non tutti apprezzano e si appresta a innalzare, appunto nella IV
Bucolica il suo canto. Pascoli coglie il senso profondo,
l'omaggio precisamente, celato nel verso virgiliano, e lo rende titolo
della sua raccolta, "nata" il 10 agosto 1890, nell'anniversario della
morte del padre, con un nucleo di 9 poesie pubblicate sulla rivista fiorentina
"Vita nova". L'edizione definitiva, comprenderà, nel 1900, 156
poesie, alcune raggruppate sotto titolature uniche, altre proposte come singole.
TEMPORALE
Un bubbolìo lontano…
Rosseggia l’orizzonte,
come affocato, a mare:
nero di pece, a monte,
stracci di nubi chiare:
tra il nero un casolare:
un’ala di gabbiano.
L’impressione che il poeta vuole generare è essenziale, e per questo il
linguaggio raggiunge un notevole grado di rarefazione per via dello stile
nominale prescelto (un unico verbo predicativo, al verso 2, rosseggia);
la rappresentazione paesaggistica complessiva è ottenuta attraverso
l’accumulazione di notazioni isolate ma collegate analogicamente: la prima è
una notazione acustica, seguita da notazioni visive concatenate appunto fra
loro per via di contrapposizioni (affocato, nero, chiare, nero, ala di gabbiano),
con la conclusiva similitudine tra casolare e ala di gabbiano che è un esempio
illuminante della tecnica pascoliana in grado di annullare le distanze e di
stabilire inediti accostamenti, com’è proprio dello spirito del fanciullino, adamo col
compito di assegnare nomi alle cose del mondo. Se esaminiamo la poesia sotto il
profilo fonosimbolico notiamo che la prima comunicazione
semanticamente rilevante è proprio assegnata al sostantivo onomatopeico bubbolio:
in quanto termine onomatopeico esso è stato desemantizzato (riproduce
solo il suono, simile a un borbottio, del tuono in lontananza), ma il poeta
lo risemantizza poiché l'intero componimento volge nella
direzione di una comunicazione che dobbiamo ancora esplicitare: si tratta di
uno stato d'animo di timore e di attesa, che culmina con una visione in
lontananza, che potrebbe anche essere una momentanea allucinazione dei sensi,
d'un casolare. Dall'inquietudine del rumore lontano, solo vagamente minaccioso
(proprio perché rumore, tra l'altro) scaturisce quindi il
senso finale della visione fugace e forse ingannevole: un istante iconico della
vita umana in cui, da un momento all'altro, tutto può cambiare in peggio e ogni
sicurezza venir meno.
IL LAMPO
E cielo e terra si mostrò qual era:
la terra ansante, livida, in sussulto;
il cielo ingombro, tragico, disfatto:
bianca bianca nel tacito tumulto
5una casa apparì sparì d’un tratto;
come un occhio, che, largo, esterrefatto,
s’aprì si chiuse, nella notte nera.
Da un appunto del poeta risulta ch’egli pensava alla morte del padre quando
scrisse questi versi. Che in effetti sono gravidi di disperazione, non solo
evocativi e impressionistici, ma intensamente espressivi, rivelatori di
emozioni profonde, di un dramma incomprensibile e mai elaborato. Ci troviamo di
fronte a un improvviso e spaventoso svelamento: la terra come un animale
prostrato e in procinto di morire, il cielo prossimo a franare; con lo
splendido ossimoro che allude a un silenzio tumultuoso, l’unico che possa
addirsi a un simile spettacolo, l’immagine si completa con l’apparizione fugace
eppure sufficiente a produrre nuovamente uno spaventoso orrore della
casa biancheggiante, posta in similitudine con un grande occhio
sbalordito che si apre per chiudersi subito dopo sulla notte nera. Il
linguaggio sembra, in virtù delle cadenzate ripetizioni, voler riprodurre la
cantilena di un bambino, la semplicità del suo eloquio che ancor più mette in
rilievo l’orrore di quello che viene evocato.
PASCOLI – POEMI
CONVIVIALI (L’ULTIMO VIAGGIO)
INTRODUZIONE
Tutte le poesie hanno un legame tra loro. È l’enfant du siècle che si è
perduto nella notte dei secoli: sente voci strane e terribili e ad
ora ad ora una melodia di lire eolie. Tutto gli si vivifica attorno: le nuvole
sembrano guerrieri, gli alberi sembrano dei. Le memorie del passato brulicano
per dove passa e le ombre conversano con lui. Egli è oppresso da tanta vitalità
esteriore e si lascia trascinare fuori dal presente: egli si trova tra un sogno
e una visione, tra il passato e l’avvenire…. Così si esprime un Pascoli
molto giovane (1876, 21 anni), con parole che ben si addicono però alla
raccolta, di parecchi anni posteriore, dei Poemi conviviali (prima
edizione, 1904), concepita e scritta in un arco di tempo ampio (dal
1895 al 1904 appunto, trattandosi di componimenti che vennero presentati al
pubblico dapprima singolarmente sulla rivista, diretta da Adolfo De Bosis, “Convito”
, da cui il titolo della raccolta, e poi in edizione completa. Piccole
sinfonie, i poemi sono un tessuto polifonico di citazioni, talora intrecciate
tra loro secondo una tecnica contaminatoria che ricorda la maniera dei poeti
alessandrini, con i quali Pascoli condivide anche il sentimento nostalgico del
passato, al quale (proprio come i suoi antichi predecessori) associa un senso
del Nulla profondamente venato di tristezza. Sarà questa la nota dominante del
nostro discorso, che si concentrerà su uno dei poemi conviviali che ci sembra
particolarmente adatto a esemplificare questo tema (del passato come nostalgia,
come algos, dolore, del nostos,
ritorno): L’ultimo viaggio.
L’ULTIMO VIAGGIO
L’idea del poema conviviale (24 canti in endecasillabi sciolti) che reca
questo titolo ha un’evidente parentela con quella dantesca: l’Ulisse
pascoliano, come quello della Commedia, non si appaga del ritorno ad Itaca né
della prospettiva di una serena vecchiaia: la voce possente del mare riprende a
chiamarlo (“e l’inquieto mare, / mare infinito, fragoroso mare / su la duna
lassù lo riconobbe / col riso innumerevole dell’onde”, VIII, 47-50). I canti V
e VI, per fornire qualche rimando testuale, descrivono un Ulisse cui la
vecchiaia ha “rammollito le membra”, col “grigio capo tremante” (cfr. vv. V,5 e
40), seduto davanti al fuoco con l’altrettanto anziana Penelope, silenziosa
nella sua indefessa operosità (VI, 10-12 e 41-42). Un quadro di vita
apparentemente placida, dietro al quale si cela, però, l’intenso e costante travaglio
dell’Eroe che agogna un Altrove: esso si palesa nei suoi sogni (quelli ad occhi
aperti di cui si legge nel canto VII), è sempre vivo nella sua immaginazione ed
assume una parte attiva nell’indurlo a ripartire da Itaca. Fondamentale, per la
decisione, è però anche l’incontro con l’aedo Femio, il quale dichiara di aver
gettato la cetra (proprio come Ulisse ha rinunciato al remo, piantandolo nella
terra secondo un’immagine che già risale all’Odissea) ed essersi rassegnato al
silenzio. Ulisse riconosce in lui un
alter ego, condannato al silenzio della poesia come lui
all’inattività, e pronuncia parole presaghe di quella che sarà la conclusione
dell’ultimo viaggio: “sonno è la vita quando è già vissuta: / sonno; ché ciò
che non è tutto, è nulla.”(X, 30-31). L’Aedo e l’Eroe si dirigono insieme verso
la nave, che li condurrà all’ultimo viaggio, e trovano sulla riva tutti i
vecchi compagni di Ulisse, in attesa (da dieci anni!) della sua decisione di
ripartire. L’”orazion picciola” in questo caso suona come espressione della
volontà di Ulisse di ritrovare il proprio passato (“io vedo/ che ciò che feci è
già minor del vero”, XII, 38-39)), di riconoscere che sia accaduto davvero, che
non sia un sogno ma la vita vera di un uomo, anzi, di un Eroe. Alla seduzione
del Vero nessuno sa resistere e tutti i compagni si affrettano ad allestire la
nave, nella cui stiva si scopre a dormire, quando ormai la nave è salpata, il
pitocco Iro, personaggio minore dell’Odissea, occasionalmente latore di
messaggi (da cui il soprannome divenuto nome), chiamato qui a svolgere una
funzione che fra breve diremo. La prima meta del viaggio nel passato è l’isola
di Circe, dove l’Eroe cerca, portando con sé l’Aedo Femio e la sua muta cetra,
la casa della Maga amante delle metamorfosi ferine, ma soprattutto le memorie
del suo antico amore. Gli pare, a un certo punto, di sentire la voce della Dea,
così come un lontano ruggito di leoni, sicché propone a Femio di dividersi
nella ricerca e di chiamarsi (il cantore con la cetra, l’Eroe con un alalà
guerriero) in caso di successo. Ma non è questo il destino, ovvero non è
destino che Ulisse trovi l’amore antico: l’isola è vuota, se mai qualcuno (o
Qualcuna) l’ha davvero abitata. Al calar delle tenebre decide dunque di
riunirsi a Femio e gli pare di udire da lontano il suono della sua cetra:
“l’udiva, / sempre più mesta, sempre più soave, / cantar l’amore che dormia nel
cuore, / e che destato solo allor ti muore” (XVII, 31-34). La cetra che canta
queste parole mestamente soavi è lo strumento di un aedo morto: l’isola (non
ritrovata) di Circe diviene la tomba della poesia che non può più cantare.
Divenuto più triste (così recita l’incipit del XVIII canto), Ulisse
riprende il viaggio, avendo come meta l’isola dei Ciclopi, ove si palesò la sua
gloria di Eroe, capace di sconfiggere il mostro monocolo e antropofago. Questa
volta, nella perlustrazione del passato, porta con sé il pitocco Iro, lasciando
gli altri a custodire la nave. Nuovamente si tratta di una ricerca che porta a
scoprire il Nulla o, variante non meno dolorosa, la vaporosità di un ricordo
mitico: gli abitanti di quella terra selvaggia sono civilissimi allevatori, che
vivono pacificamente un’esistenza familiare e conservano un lontanissimo
ricordo di un tempo in cui un monte scagliava sassi nel mare. Alla domanda,
speranzosamente posta da Ulisse, se mai qualcuno avesse conficcato
un palo nell’occhio del monte, la voce pacata del pastore interpellato
risponde con una parola gravida di ironia per l’inesausto cercatore
di se stesso: “Nessuno” (XX, 44). Anche in questo caso, inoltre, la ricerca
inutile implica la perdita di un compagno: Iro decide di fermarsi presso il
pastore e diventarne il garzone. Sempre più triste, Ulisse riprende il viaggio,
mentre l’idea che la sua vita sia stata solo un sogno si consolida nella sua
mente: “Il mio sogno non era altro che sogno; /e vento e fumo. Ma sol buono è
il vero” (XXI, 15-16). L’ultima tappa dunque è il Vero, identificato col canto
delle Sirene incantatrici, che l’Eroe vuole sfidare senza l’ausilio delle funi,
libero e ritto sulla sua nave. Quando esse appaiono in lontananza egli inizia a
rivolgersi loro con appelli alla memoria, presentandosi come colui
che le ascoltò, senza potersi fermare. Poi, giunto nei pressi delle antiche
creature, rivolge la domanda che racchiude evidentemente il senso del Viaggio,
ma suona anche come l’appello disperato di un cuore stanchissimo:
“Chi sono?” (XXIII, 38). Ulisse vuole sapere dalle Sirene se la sua vita abbia
avuto un senso, se sia stata davvero, se non sia un sogno vaporoso, troppo
simile al nulla, e la risposta che ottiene è fragorosa ed eloquente: la nave si
frantuma fra due alti scogli, le Sirene appunto, personificazione della Verità
ricercata con accanimento, la quale altro non è che morte, fine, vita che si
rapprende un’unica volta, quando si muore.
Ma nemmeno questa è la fine. Per l’epilogo occorre giungere all’isola della
Solitaria Nasconditrice, l’amante che avrebbe regalato a Ulisse l’immortalità
se costui non l’avesse alla fine rifiutata… In un’aria carica di presagi
nefasti, la dea, che sembra riassumere in sé anche le fattezze di Penelope (si
presenta con la spola in mano), raccoglie il corpo dell’Eroe restituitole, nudo
come una creatura appena nata, dal mare che sa essere, al tempo
stesso, sterile e fecondo di morte. Mentre lo avvolge nella nube dei suoi
capelli, pronuncia parole senza risonanza per nessuno, giacché nessuno più
ascolta e anche la poesia è morta: “Non esser mai! Non esser mai! Più nulla,
/ma meno morte, che non esser più!” Pascoli ha qui riassunto uno degli approdi
della ricerca sapienziale greca: la cosa in assoluto preferibile per l’uomo
sarebbe non essere mai nato, unico modo per evitare la morte. Inoltre, con
l’intera rappresentazione del viaggio di Ulisse, ha espresso la sua poetica del
mito: esso è la dimensione perduta, il regno della poesia vivente (ovvero della
poesia che si identificava con la vita), al quale l’uomo del suo
tempo può guardare con l’occhio nostalgico che si riserva all’infanzia,
complice il fanciullino che vive pur sempre in qualcuno di noi.
D’ANNUNZIO
Vita
In
questo percorso attraverso il secondo romanticismo, in quella parte del secolo
assai movimentata nella quale si imposta un po’ tutto quello che diventerà
Novecento, la voce di D’Annunzio è sulla medesima lunghezza d’onda di
Pascoli e dei poeti maledetti francesi,
per quanto riguarda il fatto di sentirsi chiamati a cercare corripondenze, creare mondi e realtà
di là dal velame, a essere fanciullini o
vati, nel caso suo, comunque in grado di compiere operazioni evocative, per
quanto di rado salvifiche davvero (per i poeti e per chi legge). Il tono sentimentale prevalente sembra
infatti essere quello scuro della melanconia,
un color nero nel quale s’intingono le penne degli scrittori già dal primo
romanticismo e continuano ancora nell’ultimo scorcio del secolo. Però. C’è
sempre un però e me ne servo per introdurre a questo proposito il discorso su
D’Annunzio. Il nero della malinconia, che pure continua a rappresentare una
nota di fondo, nel suo calamaio si lascia ampiamente sfumare, se non piuttosto
marezzare di tinte brillanti, scintillanti, che catturano lo sguardo anche più
del colore in questione, che pure conserva la sua intensità. Dunque di nero e
d’oro mi servirò per parlare di questo poeta.
D’Annunzio il vate, il trascinatore di folle, l’affascinante affabulatore da salotto, il combattente che nel 1915 dirige l’occupazione di Fiume in Istria, nel 1918 a bordo di un motoscafo organizza sempre a Fiume la beffa di Bucccari, violando nella baia omonima le acque nemiche e lanciando missili e un messaggio irridente, e ancora lui a ideare e realizzare il volo su Vienna con cui, nell’agosto sempre del ’18 da uno degli aerei lancia sulla capitale austro-ungarica manifesti tricolori. E poi l’amatore instancabile, quasi un collezionatore di relazioni più o meno stabili e, talora, contemporanee: da Maria Hardouin, figlia dei duchi di Galles, che sposa nel 1883 a vent’anni, subito dopo essersi trasferito a Roma dalla natia Pescara, e dalla quale ha tre figli, a Barbara Leoni, conosciuta nel 1887 e amante per anni, a Maria Gravina, conosciuta a Napoli, che per lui abbandona il marito e da cui ha un figlio, a Eleonora Duse, conosciuta a Venezia nel 1896 e divenuta subito amante e musa fino alla tempestosa rottura avvenuta nel 1904. L’elenco, pur non raggiungendo la lunghezza di quello del celebre don Giovanni immortalato nel canto mozartiano di Leporello prosegue, ma io lo fermo qui. Lo faccio per introdurre altri aspetti della vita del vate nostrano, talvolta definito l’immaginifico (per lui con una m sola) ma anche il capitano, in particolare quelli più attinenti alla sua attività poetica: l’esordio è precoce, il primo volume, intitolato Primo vere, stampato a spese del padre, risale al 1879 e d’Annunzio scrive sul modello del vate nazionale di quel periodo, Carducci, maestro suo e di Pascoli. Immediato il riconoscimento, sicché quando si trasferisce a Roma, i salotti della capitale sono già predisposti a una buona accoglienza. In questo periodo si dedica al giornalismo e alla scrittura di poesie e di novelle, poi, nel 1889, il romanzo Il piacere, suo primo romanzo, nonché espressione del dandismo, scritto parzialmente autobiografico, manifesto di un dedicadentismo che si declina nella forma dell’arte per l’arte, che sublima l’artefazione, l’estetismo e l’egotismo portandoli ai loro massimi vertici. Il protagonista è Andrea Sperelli, un esteta e un dandy che vive per vedersi vivere, ma non nel senso pirandelliano del termine, come un tormento esistenziale, bensì come un’esperienza unica e irripetibile. Anche con d’Annunzio si può ben parlare di palcoscenico, ma in un senso più comune non certo gravato dei significati metafisci che si trovano appunto in Pirandello. Il palcoscenico su cui si muove Andrea Sperelli, sotto tale profilo perfetto specchio del suo inventore, è quello della vita che desidera essere spettacolo per gli altri, per potersi mostrare nella sua bellezza, sempre ricercata e sempre artefatta, com’è bene che sia per poter essere compiutamente ammirata. Si avverte, in maniera evidente, quello che lo scrittore francese Huysmans nel suo romanzo A ritroso ha espresso attraverso le trovate speciose del suo personaggio Des Esseintes, nato nel 1884, cinque anni prima del Piacere: persino la natura può essere superata dagli effetti che si possono ottenere attraverso l’artificio anche meccanico, e una stanza congegnata in modo da produrre armonie di colori che simulino in modo appagante il mutare dei colori durante il giorno può ben essere più bella di un paesaggio naturale. Si possono riconoscere, in questo, le radici di una cultura dell’Antico che appartiene a d’Annunzio come a tutti gli scrittori di questo periodo, compresi i francesi e gli inglesi: è l’Antico che detta questa raffinatezza, la medesima che ispira i preraffaelliti e che rende Sperelli un seguace di questa corrente (Dante Gabriel Rossetti) e dello stilnovismo dantesco.
UNA SINTESI DEL PIACERE
Il piacere è un romanzo scritto da d’Annunzio nel 1888, in cui confluisce tutta l’esperienza mondana e letteraria da lui vissuta sino a quel momento. Il protagonista è Andrea Sperelli, un giovane aristocratico proveniente da una famiglia di artisti, che nel corso della narrazione si rivela essere un doppio dello scrittore stesso. L’uomo concentra ogni sua energia morale e creativa in direzione dell’obiettivo di fare della propria vita un’opera d’arte, arrivando così all’estenuazione. Da questo stato di crisi si affranca grazie al rapporto con una donna bellissima e spregiudicata: Elena Muti, la femme fatale che incarna l’erotismo lussurioso. Quando però lei lo lascia, praticamente scomparendo dalla sua vita, Sperelli cade in uno stato di prostrazione, pur continuando a vivere la solita esistenza dedita a piaceri e intrattenimenti nella cornice della Roma di fine Ottocento in cui il romanzo è ambientato. Rimasto ferito in un duello, e costretto a una lunga convalescenza, si ritira in campagna, dove incontra una donna, Maria Ferres, moglie di un diplomatico. La donna è l’esatto opposto di Elena Muti, ma soprattutto appare agli occhi di Andrea (che opera sempre sulle figure femminili mistificandole a suo piacimento) pura e pia, al punto da rappresentare addirittura per lui l’occasione di una redenzione e di un’elevazione spirituale. Così, benché lei sia sposata e madre, e lui si proponga di rispettarla, la seduce e intrattiene una relazione che dura fino al momento in cui, durante un amplesso, egli non utilizza erroneamente il nome di Elena per appellarsi a Maria. Il romanzo si conclude, molto significativamente, con una scena ambientata nella casa di Maria Ferres e del marito, dove si tiene un’asta dei beni di quest’ultimo, che è caduto in disgrazia per via del gioco d’azzardo. Un armadio della loro casa dunque è ciò che resta a Andrea Sperelli (che lo acquista appunto all’asta) della relazione con la donna.
UNA SINTESI DEL TRIONFO DELLA MORTE
Precede di un anno il romanzo in cui maggiormente d'Annunzio sintetizza il pensiero di Nietzsche e il proprio (di cui dirò tra poco), e rappresenta quindi un momento di transizione dopo quella sorta di sconfitta esistenziale patita dal puro esteta dipinto nel romanzo Il piacere. Giorgio Aurispa, il protagonista del Trionfo della morte, è pur sempre un esteta alla Andrea Sperelli, ma ancor più ossessionato dalla ricerca di un senso della vita che lo liberi completamente dall'estenuazione, alla quale quest'ultimo non riesce a sottrarsi. Il romanzo, molto articolato e ampio, comprende a un certo punto un estremo tentativo da parte del protagonista di raggiungere questo obiettivo in una specie di turris eburnea [l'espressione è metaforica: in realtà si tratta di una casa del villaggio ch'egli arreda a suo gusto] immersa nella una natura selvaggia e ancestrale di un villaggio abruzzese sulla costa adriatica, dove la vita si svolge ancora secondo ritmi antichi. In tale contesto, che peraltro riporta l'autore stesso alle sue origini, si ritira dunque a vivere con l'amata Ippolita Sanzio, una donna bellissima, reduce da un naufragio matrimoniale e da un'operazione all'utero (da notare il tema della malattia che si manifesta variamente nella letteratura della seconda metà del secolo). Se per un poco i due amanti sembrano avvicinarsi al coronamento del sogno di una ricerca di assoluto vitalistico nella lussuria e nel godimento dell'arte, sono poi invece delle pulsioni negative a prevalere: man mano che Ippolita si riprende dai postumi della sua operazione e si rafforza, in Giorgio cresce un malessere interiore, che lo induce a vedere in lei una Nemica (così la definisce), in quanto incarnazione di un tipo di vitalismo che gli ripugna. Di qui la decisione di morire con lei perché (come indica il titolo) trionfi la morte dove la vita non riesce a farlo da sola. Un trionfo sicuramente relativo, dal momento che la caduta nel vuoto dei due amanti si palesa come un'estrema lotta di lei per liberarsi dall'abbraccio fatale dell'amante, palesatosi a quel punto come un vero e inesorabile nemico.
UNA SINTESI DELLE VERGINI DELLE ROCCE
Dopo la scoperta di Nietzsche all'inizio degli anni Novanta, d'Annunzio crea dunque una sorta di sintesi fra alcune delle idee del filosofo tedesco e la sua personale versione dell'estetismo, delineatasi attraverso Il piacere. A dominare è senz'altro il rifiuto del conformismo borghese (quello che già per Andrea Sperelli è il grigio diluvio democratico in grado di sommergere le cose rare e belle), al quale si contrappone lo spirito dionisiaco (definito da Nietzsche nel saggio La nascita della tragedia, in cui apollineo e dionisiaco sono principi e impulsi originari che rappresentano opposti destinati a incontrarsi nelle territorio della tragedia classica). Da tale rifiuto, unito all'esaltazione del dionisiaco, scaturisce una visione che approssimativamente si può definire politica: d'Annunzio vagheggia l'affermazione di una nuova aristocrazia, che controlli (se non schiavizzi) la moltitudine degli esseri comuni, coltivando da parte sua la bellezza e la vita eroica e attiva. L'esteta Andrea Sperelli, personalità debole e tormentata il cui destino, come si è visto, non è sotto il segno di un trionfo esistenziale, viene sostituito nell'immaginazione dannunziana dal protagonista delle Vergini delle rocce, pubblicato nel 1895, Claudio Cantelmo, che rappresenta l'eroe sicuro di sé, incamminato sulla via del trionfo definitivo di disegni di tipo reazionario e imperialistico. D'Annunzio gli attribuisce una volontà di potenza volta addirittura alla fondazione della nuova stirpe latina (di qui la ricerca della donna ideale che possa fungere da matrice...): un superomismo in versione dannunziana, appunto, che esalta il vitalismo rendendolo un alimento imprescindibile dell'azione politica intesa a travolgere l'ipocrisia della messinscena democratica e parlamentare. Non mancano tuttavia, nel romanzo, tracce anche cospicue di ambiguità e e perplessità nei riguardi del successo che potrebbe davvero arridere ai progetti di un simile eroe: a esemplificarle, il fatto che Cantelmo scelga l'eletta per la missione generatrice della stirpe latina in una famiglia aristocratica in piena decadenza dell'antica nobiltà borbonica...ovvero quanto di più anacronistico ci si possa figurare. Infine, la prescelta (Violante) è tutt'altro che un'icona della fecondità trionfante, essendo piuttosto una femme fatale dai tratti vagamente vampireschi, dedita all'autoconsunzione (alla Des Essseintes, il personaggio di Huysmans) e sospetta appunto di poter distruggere (il protagonista) piuttosto che creare una nuova trionfante progenie.
PRESENTAZIONE DI ALCYONE (dalle Laudi)
Alcyone rientra in un grandioso progetto poetico di d'Annunzio che doveva comprendere sette libri di Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi. Nel 1903 risultano pubblicati i primi tre, Maia, Elettra e Alcyone, dai nomi delle stelle che compongono la costellazione delle Pleiadi. Alcyone si presenta strutturalmente e organicamente come un diario di un'estate, da un inizio piovoso in aprile a un declinante settembre ed è composto da liriche in cui a dominare sono la natura e l'essere umano che vivono simbioticamente (e metamorficamente). Il linguaggio cui ricorre il poeta è analogico e contribuisce a veicolare panismo (nelle metamorfosi tutto è in tutto) e poesia epifanica (a un certo punto avviene una rivelazione).
LA SERA FIESOLANA
In lunghe strofe di 14 versi endecasillabi, novenari, settenari, quinari senza schema fisso e comprendenti libere assonanze e rime, il poeta innalza una preghiera, una lauda francescana, alla sera. L'intento di cogliere un'epifania, quella della luna sorgente, è palese: il poeta però sceglie la via dell'analogia e della sinestesia (la via del lontano) per alludere all'evento, sicché (prima strofa) la Luna è prossima alle soglie e a spandersi nell'aria è una luce che non promana direttamente da lei, ma è un presagio della sua apparizione. Quanto alla sera, personificata fin dal titolo, essa è originariamente archetipo femminile (come la luna, peraltro) e il suo profilo si disegna nell'aria come quello di una donna bellissima, sinesteticamente evocata attraverso il profumo delle vesti che sono altrettanti elementi del paesaggio che compongono la sua parvenza e la sua essenza. Panico e naturalistico nella terza strofa, il componimento, per quanto attraversato da echi francescani e misticheggianti, culmina con un omaggio alla sensualità che promana dalle curve delle colline, complici anch'esse di qualche attesa rivelazione che non arriva a compiersi perché il momento dell'attesa, per qualsiasi desiderio, è sempre il vero momento sacro.
LA PIOGGIA NEL PINETO
Il tenue filo conduttore di questa lirica è una corsa di due amanti sotto la pioggia, nella pineta versiliana di Marina di Massa, mentre la donna evocata come Ermione può certo essere identificata con l'attrice drammatica Eleonora Duse, con cui d'Annunzio intrattiene una lunga (nonché assunta agli onori della cronaca per sua stessa volontà) e travagliata relazione. La sua indubbia potenza evocativa risale quindi al virtuosismo metrico e verbale, che rende l'esperienza della lettura un evento musicale, dal momento che le quattro strofe sono il corrispettivo di altrettanti movimenti sinfonici. Il simbolismo qui opera in tutta la sua potenza artificiosa, che quando sia dominata, come in questo caso, non traspare nemmeno. Lo stesso vale per il panismo, per cui i soggetti umani e l'intrico vegetale in cui si muovono, complici i giochi costanti di assonanze e consonanze, diventano un tutt'uno indistinguibile, e tutte le parti si scambiano mentre la comunicazione continua ad alludere a qualcosa che non viene mai rivelato. A proposito di questo, non sfugge la circolarità innescata dall'espressione ripetuta la favola bella che ieri t'illuse, che oggi m'illude (vv. 29-31) ripresa con variazione promossa dal chiasmo pronominale (la favola bella che ieri m'illuse, che oggi t'illude) nei versi finali 125-127: il non detto o non rivelato è dunque la favola bella, la quale potrebbe forse coincidere con l'inganno dell'amore che pretende di essere eterno e che non riesce a esserlo ma, come una favola bella, persuade chi lo prova di tale sua possibile durata e lo fa alternativamente, così che l'illusione prima attraversa l'uno e poi l'altro, illusi sempre ma in momenti differenti. Il mimetismo, messo in atto fin dall'inizio attraverso il gioco metamorfico, opera quindi anche a livello contenutistico: la corsa o rincorsa sotto la pioggia, con i corpi nudi che diventano piante e frutti, e la natura che partecipa anche delle emozioni dei due amanti (la pioggia è un pianto, e con esso si mescola, forse), è un rincorrersi di illusioni sulla profondità e durata dell'amore.
MERIGGIO
Culmine del panismo dannunziano, anch'essa ambientata sul mare Tirreno, il mare etrusco del primo verso, dipinge un paesaggio immobile e silenzioso, dove la presenza umana è rappresentata dall'io lirico presente in un crescendo, avvertibile a partire dal fatidico non ho più nome al v. 68 (prima di questo: se ascolto, v. 12, sul mio capo, v. 58). Dal momento in cui si manifesta la scomparsa dell'identità appena annotata, infatti, si verifica l'evento metamorfico cui il poeta affida appunto l'espressione del panismo. Il corpo fisico perde i connotati che sono sua prerogativa umana per diventare personificazione di quell'evento indicato nel titolo: il meriggio come momento della giornata in cui il sole è più alto all'orizzonte, arde e riluce (ma il testo ovviamente coniuga alla prima singolare, ardo e riluco) e in cui, s'immagina, la potenza vitalistica della luce manifesta il suo massimo effetto. La mia vita è divina suona l'ultimo verso, ma è pur impossibile trascurare il fatto che tale esito trionfalistico (e superomistico, volendo) sia preceduto da due versi di segno quasi opposto: in tutto io vivo, tacito come la Morte. Due opposti, la vita e la morte, che sono del tutto complementari, peraltro proprio come l'apollineo e il dionisiaco nella dimensione dello spirito della tragedia.
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