RIPASSO ITALIANO MODULI 6-7 - VERLAINE, DECADENTISMO, SIMBOLISMO, PASCOLI (DUE POESIE E POEMI CONVIVIALI) D'ANNUNZIO

MODULO 6: decadentismo e simbolismo (Verlaine, Huysmans). Dettagli: Paul Verlaine, Langueur e Joris-Karl  Huysmans. La realtà sostitutiva (da A rebours, Controcorrente)

MODULO 7: Pascoli e D’Annunzio

Dettagli: Giovanni Pascoli, passi dal Fanciullino; due poesie da Myricae e Ultimo viaggio dai Poemi conviviali;  Gabriele D’Annunzio passi da Il piacere, Le vergini delle rocce, Il trionfo della morte, da Alcyone, La pioggia nel pineto, La sera fiesolana, Meriggio

Dal vol. 3b pp. 337-365 ( solo Langueur), 380-390 e pp. 412-440, 458-460,475-487, 506-539, 543-549, 552-553, 559-564, 584-596.

 Il Decadentismo da Langueur di Verlaine: QUASI UN MANIFESTO (analisi)

 Da Jadis et naguère, Allora e ora, Langueur, Languore

Il sonetto, tratto dalla raccolta Allora e ora, pubblicata nel 1883, associa lo stato d’animo di languore del poeta al quadro storico di decadenza dell’Impero romano invaso dai barbari.

 Je suis l'Empire à la fin de la décadence,

Qui regarde passer les grands Barbares blancs

En composant des acrostiches indolents

D'un style d'or où la langueur du soleil danse.

 Sono l’Impero alla fine della decadenza,

 resto a guardare i grandi Barbari bianchi mentre passano

 componendo indolenti acrostici

 in uno stile aureo in cui danza languidamente il sole.

 L'ame seulette a mal au coeur d'un ennui dense,

Là-bas on dit qu'il est de longs combats sanglants.

O n'y pouvoir, étant si faible aux voeux si lents,

O n'y vouloir fleurir un peu cette existence!

 L’anima tutta sola ha un mal di cuore in cui s’addensa noia,

laggiù si dice che ci sono lunghe e sanguinose battaglie.

 O, non potervi, essendo così debole nei propositi,

 O, non voler far fiorire un po’ questa vita

  O n'y vouloir, ô n'y pouvoir mourir un peu!

Ah! tout est bu! Bathylle, as-tu fini de rire?

Ah! tout est bu, tout est mangé! Plus rien à dire!

 O non volervi, non potervi un po’ morire !

 Ah !tutto è bevuto ! Batillo, non hai più niente da ridere ?

 Tutto bevuto, tutto mangiato ! Niente da dire !

 Seul un poème un peu niais qu'on jette au feu,

Seul un esclave un peu coureur qui vous néglige,

Seul un ennui d'on ne sait quoi qui vous afflige!

Solo un poema un po’ fatuo da dare alle fiamme,

 Solo uno schiavo un po’ frivolo che vi dimentica,

 Solo una noia d’un non soc osa che vi affligge !

Paul Verlaine (1844 - 1896)

Nota:  Batillo è famoso attore di Alessandria caro a Mecenate, il collaboratore dell’imperatore romano Augusto e protettore degli artisti. L’interrogativa indica la crisi della poesia e il vanificarsi dell’impegno intellettuale del poeta.

 COMMENTO

Il poeta associa per analogia il proprio stato d’animo di languore al periodo della decadenza dell’Impero romano, cioè a un’epoca di debolezza morale e di evasione, effimera,  nei piaceri della vita. La malattia che lo affligge è multipla: si compone di senso di  solitudine, di noia, di  passività, che non gli fanno desiderare né di vivere né di morire. Una sorta di accidia di petrarchesca memoria, ma senza il possibile conforto, alla portata del poeta trecentesco,  di un ritorno o approdo alla fede.  Una condizione che si riflette nella sua poesia, ridotta ad acrostici indolenti, svuotata di ogni contenuto morale o sociale, diventata puro esercizio formale. Niente più da dire, in sintesi (Tutto è bevuto, tutto è mangiato!); la sua poesia è da gettare alle fiamme. Se non altri suoi testi Verlaine ribadisce il concetto che l'arte deve essere fine a se stessa (l'arte per l'arte) in questo caso invece proclama piuttosto la morte dell'arte. Il sentimento della decadenza pertanto  avvicina, quasi identificandoli nell'artificio immaginativo della poesia, due momenti storici molto distanti, e acquista un significato universale, che fa della lirica un manifesto del decadentismo europeo. Il languore,  come già lo spleen baudeleriano si palesa come malattia dell’anima e condizione di inerzia intellettuale, esprimendosi per esempio nel Poema Paradisiaco e nel romanzo Il piacere, entrambi  di D’Annunzio.

 NASCITA DEL DECADENTISMO

Il movimento dei décadents (decadenti) nasce a Parigi nella prima metà degli anni Ottanta. Di Decadentismo si comincia a parlare infatti in seguito alla pubblicazione di un sonetto di Paul Verlaine sulla rivista «Le Chat Noir» [Il gatto nero], nel maggio 1883. Esso iniziava con il verso Je suis l’Empire à la fin de la décadence (Io sono l’Impero alla fine della decadenza). Affiora il concetto che la raffinatezza e l’eleganza siano proprie  delle epoche storiche di decadenza. E in effetti la nuova tendenza è caratterizzata dalla sensazione di un eccesso di civiltà, unita a percezione  di imminente catastrofe e, nello stesso tempo, dall’orgogliosa rivendicazione del valore positivo dell’artificio e della raffinatezza tipici delle epoche al tramonto. Sono, quindi, degli opposti che si incontrano: civiltà al suo massimo grado espressivo e  presaga della propria stessa fine. 

Il movimento decadente avrà poi il suo organo ufficiale nella rivista «Le Décadent», diretta da Anatole Baju nel 1886, ma già due anni prima, nel 1884, era uscito il romanzo A rebours[Controcorrente] di un transfuga del Naturalismo, Joris-Karl Huysmans. Il libro, fondato sulla convinzione della superiorità di una vita basata sugli stimoli artificiali e sull’estetismo, divenne la bibbia del Decadentismo. In esso l’aristocrazia dello spirito è polemicamente contrapposta alla volgarità della vita borghese. Controcorrente di Huysmans diventa anch'esso un manifesto, suggerendo esiti analoghi in Inghilterra e in Italia: la figura del dandy (personaggio eccentrico ed estetizzante) creata da Huysmans è presente anche  nel romanzo di Oscar Wilde, The Picture of Dorian Gray (1890)] e nel Piacere di D'Annunzio (1889). Il Decadentismo francese, di Huysmans come di Verlaine,  si caratterizza dunque per la percezione di una svolta della storia, che si accompagna a un senso di estenuazione e di morte, di «senescenza e stanchezza, saturazione culturale e degenerazione», a cui si unisce però «un’idea di nobiltà spirituale» (come afferma tra gli altri il critico novecentesco Hauser). Negli anni Novanta del secolo, inoltre, alle produzioni che riconosciamo propriamente come decadenti  si affiancano quelle prodotte da  un altro movimento, il Simbolismo,  nato all'incirca negli anni Ottanta e fusosi col Decadentismo.

IN SINTESI,  i  tratti fondamentali del Decadentismo come fenomeno culturale e artistico sono i seguenti:

 1. Rifiuto del metodo scientifico e razionale e predisposizione ad atteggiamenti irrazionalistici, ispirati al sensualismo o al misticismo.

 2. Soggettivismo e individualismo. L’arte deve esprimere le sensazioni del soggetto, la sua vita interiore e sensuale. L’artista si presenta come un soggetto isolato ed eccezionale, dotato di valori aristocratici e raffinati che lo contrappongono alla prosaicità del mondo borghese, alla volgarità della borghesia e della vita quotidiana. L’artista si trasforma in dandy, che disprezza la massa e ispira la propria vita al gusto della distinzione e dell’artificio.

 3. Scoperta dell’inconscio. L’arte tende a esprimere le associazioni profonde dell’io, la complessità dei pre-sentimenti, e a collegare il mistero dell’anima a quello della vita stessa dell’universo.

 4. Ricorso al simbolismo, sorta di poetica dominante del Decadentismo: di qui la prevalenza dei procedimenti analogici, la ricerca delle corrispondenze fra l’anima del soggetto e la vita dell’universo, il ricorso alla metafora e soprattutto alla sinestesia.

 5. Estetismo e  religione dell’arte. I decadenti affermano non solo l’autonomia dell’arte, ma la sua superiorità. Per sostenerne l’autonomia, diffondono la teoria dell’arte per l’arte, già elaborata dai parnassiani in Francia e da Walter Pater in Inghilterra: l’arte deve obbedire solo a se stessa, liberandosi da qualsiasi criterio estrinseco di natura morale, politica o sociale. Per sostenerne la superiorità, promuovono il culto della forma come parte integrante del culto dell’arte, intesa come pura Bellezza, ragione di vita, e vera e propria religione. La vita stessa deve ispirarsi a criteri unicamente estetici, e deve risolversi in arte.

 6. Concezione del poeta come artefice supremo o come profeta e vate. Poiché la poesia è concepita come rivelazione dell’Assoluto, il poeta è immaginato come il mediatore e il sacerdote di tale rivelazione. L’artista è un inventore e un creatore: non deve più imitare la vita, come facevano gli scrittori naturalisti, ma crearla.

In Italia il decadentismo si afferma all’inizio come reazione spiritualeggiante, che contrappone i valori dell’anima a quelli materiali promulgati dalla cultura positivistica e dalla letteratura veristica.  Un ruolo importante hanno  le riviste «Il Convito» (1895-1907), diretta da Adolfo De Bosis (vi collaborano d’Annunzio e Pascoli), e «Il Marzocco». Il Decadentismo italiano fiorisce soprattutto nel quindicennio 1890-1905. Si afferma infatti a partire da Il piacere di D'Annunzio nel 1889 e da Myricae di Pascoli nel 1891, mentre la pubblicazione dell’Alcyone di D’Annunzio nel 1903 e dei Poemi conviviali di Pascoli nel 1904  segnano il culmine, ma anche la conclusione, della parabola decadente. Il decadentismo italiano presenta caratteri specifici. Si differenzia da quello europeo per i suoi tratti spiccatamente umanistici e per il legame, ancora forte, con la tradizione classica. Di qui la ripresa da parte di Pascoli e di D’Annunzio di motivi tradizionali, quali quello del poeta-vate risorgimentale, e la tendenza a riproporre un ruolo protagonistico, anche in campo ideologico, della figura del poeta, che era invece improponibile nelle altre nazioni. D’altronde, tale tendenza può sopravvivere in Italia per l'arretratezza economica e sociale del nostro paese, che è  ancora, alla fine dell’Ottocento, lontano dalle  forme di una moderna democrazia di massa. Anche la capacità di approfondimento delle tematiche legate all’inconscio appare, in Italia,  limitata. Riprende tuttavia  indubbiamente dal romanticismo nordico l’individualismo, la tendenza al simbolismo e all’irrazionalismo, l’opposizione io-società. Mentre però il romanticismo aveva fatto dei sentimenti e delle passioni la propria materia preferita, il decadentismo sceglie un’area più profonda: quella dei pre-sentimenti e dell’inconscio. Inoltre, il romanticismo aveva esaltato l’artista come eroe e ribelle, sottolineandone gli aspetti titanici e costruttivi; invece i decadenti amano la figura del dandy, personaggio eccentrico ed estenuato, ammalato di civiltà e rivolto all’artificio. Anche il rapporto delle avanguardie novecentesche con il decadentismo è di continuità e, insieme, di rottura. La continuità consiste nella comune cultura, profondamente segnata dall’influenza di Nietzsche e di Bergson. La rottura, che  è tuttavia prevalente rispetto alla continuità,  deriva dalla messa in discussione della concezione dell’arte oracolare e superiore dei decadenti e della figura del poeta come artefice creatore o dandy: il poeta espressionista ha ormai introiettato la caduta dell’“aureola” e la fine dell’“aura” e si colloca quindi in una prospettiva assai meno aristocratica. Tende inoltre a rifiutare le poetiche del simbolismo contrapponendo a esse modalità di tipo allegorico.

 VITA DI PASCOLI

Il suo paese di nascita è S. Mauro di Romagna, in provincia di Forlì-Cesena. L'anno è il 1855. Quarto di dieci figli, all'età di 12 anni, il 10 agosto del 1867, subisce insieme alla sua famiglia un terribile lutto: il padre Ruggero, amministratore della tenuta La Torre dei principi di Torlonia, viene ucciso con una fucilata mentre torna in calesse da Cesena a San Mauro. Anche se sono avviate indagini, gli autori dell'agguato e dell'omicidio non vengono mai arrestati. Fra il 1868 e il 1871 muoiono, per cause diverse,  un fratello, una sorella  e la madre del poeta, il quale riesce comunque a proseguire gli studi grazie al fratello maggiore che trova lavoro a Rimini, dove si trasferisce quanto resta della famiglia (otto, fra fratelli e sorelle). Il 1873 è l'anno della dispersione della famiglia: Giovanni partecipa a un concorso per una borsa di studio bandito dall'università di Bologna, viene esaminato dal poeta vate  dell'epoca, Giosuè Carducci, e lo supera, iscrivendosi così all'università. Gli anni fra il 1876 e il 1879 sono caratterizzati, oltre che dallo studio, dalla partecipazione attiva alla politica: lo attrae il socialismo di Andrea Costa, inizialmente anarchico, poi socialista rivoluzionario. Per aver partecipato a una manifestazione viene arrestato insieme ad altri attivisti e resta in carcere a Bologna per qualche mese, finché, processato, è assolto con formula piena. Da questo momento cessa ogni forma di attivismo e si dedica interamente allo studio: nel 1882 si laurea con una tesi sul poeta greco Alceo ed è nominato professore presso il liceo di Matera. Le sue poesie iniziano ad attrarre l'attenzione, ad esempio D'Annunzio lo invita a collaborare alla rivista "Cronaca Bizantina". Trasferitosi per insegnare a Massa, cerca di riunire quello che resta della famiglia, decimata dalle morti: le sorelle Ida e Maria, che hanno terminato la loro educazione in convento vanno a vivere insieme a lui, trasferendosi a Livorno dal 1887 al 1895. Sono gli anni in cui inizia a scrivere Myricae e vince prestigiose gare di traduzione poetica dal latino. Nel 1893 fa parte di una commissione ministeriale incaricata di riformare l'insegnamento del latino nelle scuole. A Roma conosce Adolfo De Bosis che gli chiede di pubblicare sue poesie sulla rivista "Il convito", sul quale compariranno i Poemi conviviali.  Nel 1895 la sorella Ida tradisce il nido familiare ricostituito sposandosi: così, con Maria egli si trasferisce a Castelvecchio di  Barga nei pressi di Lucca, che diventa la loro stabile residenza. Nello stesso anno viene nominato professore straordinario di grammatica latina e greca all'università di Bologna. Prosegue la sua attività poetica e di riflessione sull'estetica di cui si fa portatore: concepisce il saggio Il fanciullino, dal quale si possono ricavare molte indicazioni di lettura delle poesie, ma anche analisi della poesia leopardiana e di quella dantesca (Minerva oscura). Nel 1905 gli viene assegnata la cattedra di letteratura italiana a Bologna ch'era stata di Carducci, collocatosi a riposo (morirà l'anno dopo). Continua una fervida attività sia come poeta sia come traduttore anche negli ultimi anni prima della morte, avvenuta per un cancro allo stomaco nel 1912. La sua tomba si trova nel cimitero di Barga.

NOTA SUL FONOSIMBOLISMO E SULLE ONOMATOPEE (ampio ricorso a entrambi da parte di Pascoli soprattutto)

 Il termine fonosimbolismo (o simbolismo fonetico) si riferisce a una serie di fenomeni di varia natura e tipologia nei quali da un suono o una sequenza di suoni si riconosce il valore semantico in modo diretto e non mediato dalla grammatica. Ciò fa sì  che un suono venga ad assumere un significato e che il poeta che si serve di questo specifico linguaggio possa confidare sulla sovrapposizione di due livelli di comunicazione: uno è quello della lingua naturale, l'altro quello della lingua nella sua espressione esclusivamente fonica.   Nell’accezione corrente del termine, il fenomeno fonosimbolico più noto è l’onomatopea, ma i confini del fonosimbolismo sono in realtà molto ampi, fino a rientrare a pieno diritto nell’ambito del cosiddetto iconismo linguistico. Con quest'ultima espressione s'intende un utilizzo della parole o delle associazioni di parole volto a produrre un effetto comunicativo tutto concentrato nella dimensione fonica, dalla quale scaturiscono poi significati. In pratica, a una desemantizzazione (sottrazione di significato) segue una risemantizzazione,  che avviene con la complicità del suono (un esempio è rappresentato dai due componimenti poetici riportati sotto, Temporale e Il lampo, entrambi da Myricae)

Onomatopee

Il rapporto naturale, in quanto motivato su base mimetica, tra suono e senso sembra trovare la sua massima espressione nelle onomatopee, segni linguistici che riproducono direttamente suoni, rumori o voci di animali, usando i mezzi fonetici e grafemici disponibili; ad es., in italiano, din don per il suono delle campane, chicchirichì e coccodè per il verso del gallo e della gallina.

Oltre alle onomatopee pure, tutte le lingue del mondo comprendono le parole onomatopeiche, così dette  in virtù del loro legame immediato e diretto, prodotto dai suoni,  con i referenti espressivi: la maggior parte dei verbi che esprimono i suoni del mondo animale, ad esempio, sono onomatopeici (chiocciare, garrire, pigolare, frinire, muggire, ragliare, barrire, uggiolare, miagolare, abbaiare). 

Tuttavia, le onomatopee non sono una pura e semplice mimesi dei versi prodotti dagli animali, ma mostrano esse stesse aspetti convenzionali  (ossia culturali). Infatti, ogni lingua usa parole onomatopeiche diverse per lo stesso referente: esemplare è il caso del canto del gallo, che è denominato in italiano chicchirichì, in francese cocorico, in inglese cock-a-doodle-doo, a conferma del carattere culturale, dunque convenzionale, e non naturale, tra suono e senso anche in questo ambito.

NOTA SULLE TAMERICI (per il titolo della raccolta pascoliana Myricae)

Le tamerici sono arbusti, e alle humiles myricae  il poeta latino Virgilio, nel I secolo a. C. dedica l'incipit della IV Ecloga, scrivendo Non omnes arbusta iuvant  humilesque myricaenon a tutti piacciono gli arbusti e le umili tamerici. Nell'evocazione di questa pianta comune, nativa del Vecchio Continente, che ama le vicinanze marine e non è danneggiata dai terreni sabbiosi, si cela un'orgogliosa rivendicazione: Virgilio sente di essere tra i primi poeti romani che abbiano osato intonare un canto pastorale, una lirica d'ispirazione bassa, rispetto alla musa tragica o a quella epica, sa bene che non tutti apprezzano e si appresta a innalzare, appunto nella IV Bucolica il suo canto. Pascoli coglie il senso profondo, l'omaggio  precisamente, celato nel verso virgiliano, e lo rende titolo della sua raccolta, "nata" il 10 agosto 1890, nell'anniversario della morte del padre, con un nucleo di 9 poesie pubblicate sulla rivista fiorentina "Vita nova". L'edizione definitiva, comprenderà, nel 1900, 156 poesie, alcune raggruppate sotto titolature uniche, altre proposte come singole.

 

TEMPORALE

Un bubbolìo lontano…

Rosseggia l’orizzonte,

 come affocato, a mare:

 nero di pece, a monte,

 stracci di nubi chiare:

 tra il nero un casolare:

 un’ala di gabbiano.

 

L’impressione che il poeta vuole generare è essenziale, e per questo il linguaggio raggiunge un notevole grado di rarefazione per via dello stile nominale prescelto (un unico verbo predicativo, al verso 2, rosseggia); la rappresentazione paesaggistica complessiva è ottenuta attraverso l’accumulazione di notazioni isolate ma collegate analogicamente: la prima è una notazione acustica, seguita da notazioni visive concatenate appunto fra loro per via di contrapposizioni (affocato, nero, chiare, nero, ala di gabbiano), con la conclusiva similitudine tra casolare e ala di gabbiano che è un esempio illuminante della tecnica pascoliana in grado di annullare le distanze e di stabilire inediti accostamenti, com’è proprio dello spirito del fanciullino, adamo col compito di assegnare nomi alle cose del mondo. Se esaminiamo la poesia sotto il profilo fonosimbolico notiamo che la prima comunicazione semanticamente rilevante è proprio assegnata al sostantivo onomatopeico bubbolio: in quanto termine onomatopeico esso è stato desemantizzato (riproduce solo il suono, simile a un borbottio, del tuono in lontananza), ma il poeta lo risemantizza poiché l'intero componimento volge nella direzione di una comunicazione che dobbiamo ancora esplicitare: si tratta di uno stato d'animo di timore e di attesa, che culmina con una visione in lontananza, che potrebbe anche essere una momentanea allucinazione dei sensi, d'un casolare. Dall'inquietudine del rumore lontano, solo vagamente minaccioso (proprio perché rumore, tra l'altro) scaturisce quindi il senso finale della visione fugace e forse ingannevole: un istante iconico della vita umana in cui, da un momento all'altro, tutto può cambiare in peggio e ogni sicurezza venir meno. 

IL LAMPO

E cielo e terra si mostrò qual era:

 

la terra ansante, livida, in sussulto;

il cielo ingombro, tragico, disfatto:

bianca bianca nel tacito tumulto

5una casa apparì sparì d’un tratto;

come un occhio, che, largo, esterrefatto,

s’aprì si chiuse, nella notte nera.

Da un appunto del poeta risulta ch’egli pensava alla morte del padre quando scrisse questi versi. Che in effetti sono gravidi di disperazione, non solo evocativi e impressionistici, ma intensamente espressivi, rivelatori di emozioni profonde, di un dramma incomprensibile e mai elaborato. Ci troviamo di fronte a un improvviso e spaventoso svelamento: la terra come un animale prostrato e in procinto di morire, il cielo prossimo a franare; con lo splendido ossimoro che allude a un silenzio tumultuoso, l’unico che possa addirsi a un simile spettacolo, l’immagine si completa con l’apparizione fugace eppure sufficiente  a produrre nuovamente uno spaventoso orrore della casa biancheggiante, posta in similitudine con un  grande occhio sbalordito che si apre per chiudersi subito dopo sulla notte nera. Il linguaggio sembra, in virtù delle cadenzate ripetizioni, voler riprodurre la cantilena di un bambino, la semplicità del suo eloquio che ancor più mette in rilievo l’orrore di quello che viene evocato.

PASCOLI – POEMI CONVIVIALI (L’ULTIMO VIAGGIO)

INTRODUZIONE

Tutte le poesie hanno un legame tra loro. È l’enfant du siècle che si è perduto nella notte dei secoli: sente voci  strane e terribili e ad ora ad ora una melodia di lire eolie. Tutto gli si vivifica attorno: le nuvole sembrano guerrieri, gli alberi sembrano dei. Le memorie del passato brulicano per dove passa e le ombre conversano con lui. Egli è oppresso da tanta vitalità esteriore e si lascia trascinare fuori dal presente: egli si trova tra un sogno e una visione, tra il passato e l’avvenire…. Così si esprime un  Pascoli molto giovane (1876, 21 anni), con parole che ben si addicono però alla raccolta, di parecchi anni posteriore, dei Poemi conviviali (prima edizione, 1904), concepita e scritta in un arco di  tempo ampio (dal 1895 al 1904 appunto, trattandosi di componimenti che vennero presentati al pubblico dapprima singolarmente sulla rivista, diretta da Adolfo De Bosis, “Convito” , da cui il titolo della raccolta, e poi in edizione completa. Piccole sinfonie, i poemi sono un tessuto polifonico di citazioni, talora intrecciate tra loro secondo una tecnica contaminatoria che ricorda la maniera dei poeti alessandrini, con i quali Pascoli condivide anche il sentimento nostalgico del passato, al quale (proprio come i suoi antichi predecessori) associa un senso del Nulla profondamente venato di tristezza. Sarà questa la nota dominante del nostro discorso, che si concentrerà su uno dei poemi conviviali che ci sembra particolarmente adatto a esemplificare questo tema (del passato come nostalgia, come algos, dolore,  del nostos, ritorno): L’ultimo viaggio.

L’ULTIMO VIAGGIO

L’idea del poema conviviale (24 canti in endecasillabi sciolti) che reca questo titolo  ha un’evidente parentela con quella dantesca: l’Ulisse pascoliano, come quello della Commedia, non si appaga del ritorno ad Itaca né della prospettiva di una serena vecchiaia: la voce possente del mare riprende a chiamarlo (“e l’inquieto mare, / mare infinito, fragoroso mare / su la duna lassù lo riconobbe / col riso innumerevole dell’onde”, VIII, 47-50). I canti V e VI, per fornire qualche rimando testuale, descrivono un Ulisse cui la vecchiaia ha “rammollito le membra”, col “grigio capo tremante” (cfr. vv. V,5 e 40), seduto davanti al fuoco con l’altrettanto anziana Penelope, silenziosa nella sua indefessa operosità (VI, 10-12 e 41-42). Un quadro di vita apparentemente placida, dietro al quale si cela, però, l’intenso e costante travaglio dell’Eroe che agogna un Altrove: esso si palesa nei suoi sogni (quelli ad occhi aperti di cui si legge nel canto VII), è sempre vivo nella sua immaginazione ed assume una parte attiva nell’indurlo a ripartire da Itaca. Fondamentale, per la decisione, è però anche l’incontro con l’aedo Femio, il quale dichiara di aver gettato la cetra (proprio come Ulisse ha rinunciato al remo, piantandolo nella terra secondo un’immagine che già risale all’Odissea) ed essersi rassegnato al silenzio. Ulisse riconosce in lui un alter  ego,  condannato al silenzio della poesia come lui all’inattività, e pronuncia parole presaghe di quella che sarà la conclusione dell’ultimo viaggio: “sonno è la vita quando è già vissuta: / sonno; ché ciò che non è tutto, è nulla.”(X, 30-31). L’Aedo e l’Eroe si dirigono insieme verso la nave, che li condurrà all’ultimo viaggio, e trovano sulla riva tutti i vecchi compagni di Ulisse, in attesa (da dieci anni!) della sua decisione di ripartire. L’”orazion picciola” in questo caso suona come espressione della volontà di Ulisse di ritrovare il proprio passato (“io vedo/ che ciò che feci è già minor del vero”, XII, 38-39)), di riconoscere che sia accaduto davvero, che non sia un sogno ma la vita vera di un uomo, anzi, di un Eroe. Alla seduzione del Vero nessuno sa resistere e tutti i compagni si affrettano ad allestire la nave, nella cui stiva si scopre a dormire, quando ormai la nave è salpata, il pitocco Iro, personaggio minore dell’Odissea, occasionalmente latore di messaggi (da cui il soprannome divenuto nome), chiamato qui a svolgere una funzione che fra breve diremo. La prima meta del viaggio nel passato è l’isola di Circe, dove l’Eroe cerca, portando con sé l’Aedo Femio e la sua muta cetra, la casa della Maga amante delle metamorfosi ferine, ma soprattutto le memorie del suo antico amore. Gli pare, a un certo punto, di sentire la voce della Dea, così come un lontano ruggito di leoni, sicché propone a Femio di dividersi nella ricerca e di chiamarsi (il cantore con la cetra, l’Eroe con un alalà guerriero) in caso di successo. Ma non è questo il destino, ovvero non è destino che Ulisse trovi l’amore antico: l’isola è vuota, se mai qualcuno (o Qualcuna) l’ha davvero abitata. Al calar delle tenebre decide dunque di riunirsi a Femio e gli pare di udire da lontano il suono della sua cetra: “l’udiva, / sempre più mesta, sempre più soave, / cantar l’amore che dormia nel cuore, / e che destato solo allor ti muore” (XVII, 31-34). La cetra che canta queste parole mestamente soavi è lo strumento di un aedo morto: l’isola (non ritrovata) di Circe diviene la tomba della poesia che non può più cantare. Divenuto più triste (così recita l’incipit  del XVIII canto), Ulisse riprende il viaggio, avendo come meta l’isola dei Ciclopi, ove si palesò la sua gloria di Eroe, capace di sconfiggere il mostro monocolo e antropofago. Questa volta, nella perlustrazione del passato, porta con sé il pitocco Iro, lasciando gli altri a custodire la nave. Nuovamente si tratta di una ricerca che porta a scoprire il Nulla o, variante non meno dolorosa, la vaporosità di un ricordo mitico: gli abitanti di quella terra selvaggia sono civilissimi allevatori, che vivono pacificamente un’esistenza familiare e conservano un lontanissimo ricordo di un tempo in cui un monte scagliava sassi nel mare. Alla domanda, speranzosamente posta da Ulisse,  se mai qualcuno avesse conficcato un palo nell’occhio del monte, la voce pacata del pastore interpellato risponde  con una parola gravida di ironia per l’inesausto cercatore di se stesso: “Nessuno” (XX, 44). Anche in questo caso, inoltre, la ricerca inutile implica la perdita di un compagno: Iro decide di fermarsi presso il pastore e diventarne il garzone. Sempre più triste, Ulisse riprende il viaggio, mentre l’idea che la sua vita sia stata solo un sogno si consolida nella sua mente: “Il mio sogno non era altro che sogno; /e vento e fumo. Ma sol buono è il vero” (XXI, 15-16). L’ultima tappa dunque è il Vero, identificato col canto delle Sirene incantatrici, che l’Eroe vuole sfidare senza l’ausilio delle funi, libero e ritto sulla sua nave. Quando esse appaiono in lontananza egli inizia a rivolgersi loro con  appelli alla memoria, presentandosi come colui che le ascoltò, senza potersi fermare. Poi, giunto nei pressi delle antiche creature, rivolge la domanda che racchiude evidentemente il senso del Viaggio, ma suona anche come l’appello disperato di un  cuore stanchissimo: “Chi sono?” (XXIII, 38). Ulisse vuole sapere dalle Sirene se la sua vita abbia avuto un senso, se sia stata davvero, se non sia un sogno vaporoso, troppo simile al nulla, e la risposta che ottiene è fragorosa ed eloquente: la nave si frantuma fra due alti scogli, le Sirene appunto, personificazione della Verità ricercata con accanimento, la quale altro non è che morte, fine, vita che si rapprende un’unica volta, quando si muore.

Ma nemmeno questa è la fine. Per l’epilogo occorre giungere all’isola della Solitaria Nasconditrice, l’amante che avrebbe regalato a Ulisse l’immortalità se costui non l’avesse alla fine rifiutata… In un’aria carica di presagi nefasti, la dea, che sembra riassumere in sé anche le fattezze di Penelope (si presenta con la spola in mano), raccoglie il corpo dell’Eroe restituitole, nudo come una creatura appena  nata, dal mare che sa essere, al tempo stesso, sterile e fecondo di morte. Mentre lo avvolge nella nube dei suoi capelli, pronuncia parole senza risonanza per nessuno, giacché nessuno più ascolta e anche la poesia è morta: “Non esser mai! Non esser mai! Più nulla, /ma meno morte, che non esser più!” Pascoli ha qui riassunto uno degli approdi della ricerca sapienziale greca: la cosa in assoluto preferibile per l’uomo sarebbe non essere mai nato, unico modo per evitare la morte. Inoltre, con l’intera rappresentazione del viaggio di Ulisse, ha espresso la sua poetica del mito: esso è la dimensione perduta, il regno della poesia vivente (ovvero della poesia che si identificava con  la vita), al quale l’uomo del suo tempo può guardare con l’occhio nostalgico che si riserva all’infanzia, complice il fanciullino che vive pur sempre in qualcuno di noi.

 D’ANNUNZIO

Vita

In questo percorso attraverso il secondo romanticismo, in quella parte del secolo assai movimentata nella quale si imposta un po’ tutto quello che diventerà Novecento, la voce di D’Annunzio è sulla medesima lunghezza d’onda di Pascoli  e dei poeti maledetti francesi, per quanto riguarda il fatto di sentirsi chiamati a  cercare corripondenze, creare mondi e realtà di là dal velame,  a essere fanciullini o vati, nel caso suo, comunque in grado di compiere operazioni evocative, per quanto di rado salvifiche davvero (per i poeti e per chi legge).  Il tono sentimentale prevalente sembra infatti essere quello scuro della melanconia, un color nero nel quale s’intingono le penne degli scrittori già dal primo romanticismo e continuano ancora nell’ultimo scorcio del secolo. Però. C’è sempre un però e me ne servo per introdurre a questo proposito il discorso su D’Annunzio. Il nero della malinconia, che pure continua a rappresentare una nota di fondo, nel suo calamaio si lascia ampiamente sfumare, se non piuttosto marezzare di tinte brillanti, scintillanti, che catturano lo sguardo anche più del colore in questione, che pure conserva la sua intensità. Dunque di nero e d’oro mi servirò per parlare di questo poeta.

D’Annunzio il vate, il trascinatore di folle, l’affascinante affabulatore da salotto, il combattente che nel 1915 dirige l’occupazione di Fiume in Istria,  nel 1918 a bordo di un motoscafo organizza sempre a Fiume la beffa di Bucccari, violando nella baia omonima le acque  nemiche e lanciando missili e un messaggio irridente, e ancora lui a ideare e realizzare il volo su Vienna con cui, nell’agosto sempre del ’18 da uno degli aerei lancia sulla capitale austro-ungarica manifesti tricolori. E poi l’amatore instancabile, quasi un collezionatore di relazioni più o meno stabili e, talora, contemporanee: da Maria Hardouin,  figlia dei duchi di Galles, che sposa nel 1883 a vent’anni, subito dopo essersi trasferito a Roma dalla natia Pescara, e dalla quale ha tre figli, a Barbara Leoni, conosciuta  nel 1887 e amante per anni, a Maria Gravina, conosciuta a Napoli, che per lui abbandona il marito e da cui ha un figlio, a Eleonora Duse, conosciuta a Venezia nel 1896 e divenuta subito amante e musa fino alla tempestosa rottura avvenuta nel 1904. L’elenco, pur non raggiungendo la lunghezza di quello del celebre don Giovanni immortalato nel canto mozartiano di Leporello prosegue, ma io lo fermo qui. Lo faccio per introdurre altri aspetti della vita del vate nostrano, talvolta definito l’immaginifico (per lui con una m sola) ma anche il capitano, in particolare quelli più attinenti alla sua attività poetica: l’esordio è precoce, il primo volume, intitolato Primo vere, stampato a spese del padre, risale al 1879 e d’Annunzio scrive sul modello del vate nazionale di quel periodo, Carducci, maestro suo e di Pascoli.  Immediato il riconoscimento, sicché quando si trasferisce a Roma, i salotti della capitale sono già predisposti a una buona accoglienza. In questo periodo si dedica al giornalismo e alla scrittura di poesie e di novelle, poi, nel 1889, il romanzo Il piacere, suo primo romanzo, nonché espressione del dandismo, scritto parzialmente autobiografico, manifesto di un dedicadentismo che si declina nella forma dell’arte per l’arte, che sublima l’artefazione, l’estetismo e l’egotismo portandoli ai loro massimi vertici. Il protagonista è Andrea Sperelli, un esteta e un dandy che vive per vedersi vivere, ma non nel senso pirandelliano del termine, come un tormento esistenziale, bensì come un’esperienza unica e irripetibile. Anche con d’Annunzio si può ben parlare di palcoscenico, ma in un senso più comune  non certo gravato dei significati metafisci che si trovano appunto in Pirandello. Il palcoscenico su cui si muove Andrea Sperelli, sotto tale profilo perfetto specchio del suo inventore, è quello della vita che desidera essere spettacolo per gli altri, per potersi mostrare nella sua bellezza, sempre ricercata e sempre artefatta, com’è bene che sia per poter essere compiutamente ammirata. Si avverte, in maniera evidente, quello che lo scrittore francese Huysmans  nel suo romanzo A ritroso ha espresso attraverso le trovate speciose del suo personaggio Des Esseintes, nato nel 1884, cinque anni prima del Piacere: persino la natura può essere superata dagli effetti che si possono ottenere  attraverso l’artificio anche meccanico, e una stanza congegnata in modo da produrre armonie di colori che simulino in modo appagante il mutare dei colori durante il giorno può ben essere più bella di un paesaggio naturale. Si possono riconoscere, in questo, le radici di una cultura dell’Antico che appartiene a d’Annunzio come a tutti gli scrittori di questo periodo, compresi i francesi e gli inglesi: è l’Antico che detta questa raffinatezza, la medesima che ispira i preraffaelliti e che rende Sperelli un seguace di questa corrente (Dante Gabriel Rossetti) e dello stilnovismo dantesco.

UNA SINTESI DEL PIACERE

Il piacere è un romanzo scritto da d’Annunzio nel 1888, in cui confluisce tutta l’esperienza mondana e letteraria da lui vissuta sino a quel momento. Il protagonista è Andrea Sperelli, un giovane aristocratico proveniente da una famiglia di artisti, che nel corso della narrazione si rivela essere un doppio dello scrittore stesso. L’uomo concentra ogni sua  energia morale e creativa in direzione dell’obiettivo di fare della propria vita un’opera d’arte, arrivando così all’estenuazione. Da questo stato di  crisi si affranca grazie al rapporto con una  donna bellissima e spregiudicata: Elena Muti, la femme fatale  che incarna l’erotismo lussurioso. Quando però lei lo lascia, praticamente scomparendo dalla sua vita, Sperelli cade in uno stato di prostrazione,  pur continuando a vivere la solita esistenza dedita a piaceri e intrattenimenti nella cornice della Roma di fine Ottocento in cui il romanzo è ambientato. Rimasto ferito in un duello, e costretto a una lunga convalescenza, si ritira in campagna, dove incontra una donna,  Maria Ferres,  moglie di un diplomatico. La donna è l’esatto opposto di Elena Muti, ma soprattutto appare agli occhi di Andrea (che opera sempre sulle figure femminili mistificandole a suo piacimento) pura e  pia, al punto da  rappresentare addirittura per lui  l’occasione di una redenzione e di un’elevazione spirituale. Così, benché lei sia sposata e madre, e lui si proponga di rispettarla, la seduce e intrattiene una relazione che dura fino al momento in cui, durante un amplesso, egli non utilizza erroneamente il nome di Elena per appellarsi a Maria. Il romanzo si conclude, molto significativamente, con una scena ambientata nella casa di Maria Ferres e del marito, dove si tiene un’asta dei beni di quest’ultimo, che è caduto in disgrazia per via del gioco d’azzardo. Un armadio della loro casa dunque è ciò che resta a Andrea Sperelli (che lo acquista appunto all’asta) della relazione con la donna.

UNA SINTESI DEL TRIONFO DELLA MORTE

Precede di un anno il romanzo in cui maggiormente d'Annunzio sintetizza il pensiero di Nietzsche e il proprio (di cui dirò tra poco), e rappresenta quindi un momento di transizione dopo quella sorta di sconfitta esistenziale patita dal puro esteta dipinto nel romanzo Il piacere. Giorgio Aurispa, il protagonista del Trionfo della morte, è pur sempre un esteta alla Andrea Sperelli, ma ancor più ossessionato dalla ricerca di un senso della vita che lo liberi completamente dall'estenuazione, alla quale quest'ultimo non riesce a sottrarsi. Il romanzo, molto articolato e ampio, comprende a un certo punto un estremo tentativo da parte del protagonista di raggiungere questo obiettivo in una specie di turris eburnea [l'espressione è metaforica: in realtà si tratta di una casa del villaggio ch'egli arreda a suo gusto] immersa nella una natura selvaggia e ancestrale di un villaggio abruzzese sulla costa adriatica, dove la vita si svolge ancora secondo ritmi antichi. In tale contesto, che peraltro riporta l'autore stesso alle sue origini, si ritira dunque a vivere con l'amata Ippolita Sanzio, una donna bellissima, reduce da un naufragio matrimoniale e da un'operazione all'utero (da notare il tema della malattia che si manifesta variamente nella letteratura della seconda metà del secolo). Se per un poco i due amanti sembrano avvicinarsi al coronamento del sogno di una ricerca di assoluto vitalistico nella lussuria e nel godimento dell'arte, sono poi invece delle pulsioni negative a prevalere: man mano che Ippolita si riprende dai postumi della sua operazione e si rafforza, in Giorgio cresce un malessere interiore, che lo induce a vedere in lei una Nemica (così la definisce), in quanto incarnazione di un tipo di vitalismo che gli ripugna. Di qui la decisione di morire con lei perché (come indica il titolo) trionfi la morte dove la vita non riesce a farlo da sola. Un trionfo sicuramente relativo, dal momento che la caduta nel vuoto dei due amanti si palesa come un'estrema lotta di lei per liberarsi dall'abbraccio fatale dell'amante, palesatosi a quel punto come un vero e inesorabile nemico.

UNA SINTESI DELLE VERGINI DELLE ROCCE

Dopo la scoperta di Nietzsche all'inizio degli anni Novanta, d'Annunzio crea dunque una sorta di sintesi fra alcune delle idee del filosofo tedesco e la sua personale versione dell'estetismo, delineatasi attraverso Il piacere. A dominare è senz'altro il rifiuto del conformismo borghese (quello che già per Andrea Sperelli è il grigio diluvio democratico in grado di sommergere le cose rare e belle), al quale si contrappone lo spirito dionisiaco (definito da Nietzsche nel saggio La nascita della tragedia, in cui apollineo e dionisiaco sono principi e impulsi originari che rappresentano opposti destinati a incontrarsi nelle territorio della tragedia classica). Da tale rifiuto, unito all'esaltazione del dionisiaco, scaturisce una visione che approssimativamente si può definire politica: d'Annunzio vagheggia l'affermazione di una nuova aristocrazia, che controlli (se non schiavizzi) la moltitudine degli esseri comuni, coltivando da parte sua la bellezza e la vita eroica e attiva. L'esteta Andrea Sperelli, personalità debole e tormentata il cui destino, come si è visto, non è sotto il segno di un trionfo esistenziale, viene sostituito nell'immaginazione dannunziana dal protagonista delle Vergini delle rocce, pubblicato nel 1895, Claudio Cantelmo, che rappresenta l'eroe sicuro di sé, incamminato sulla via del trionfo definitivo di disegni di tipo reazionario e imperialistico. D'Annunzio gli attribuisce una volontà di potenza volta addirittura alla fondazione della nuova stirpe latina (di qui la ricerca della donna ideale che possa fungere da matrice...): un superomismo in versione dannunziana, appunto, che esalta il vitalismo rendendolo un alimento imprescindibile dell'azione politica intesa a travolgere l'ipocrisia della messinscena democratica e parlamentare. Non mancano tuttavia, nel romanzo, tracce anche cospicue di ambiguità e e perplessità nei riguardi del successo che potrebbe davvero arridere ai progetti di un simile eroe: a esemplificarle, il fatto che Cantelmo scelga l'eletta per la missione generatrice della stirpe latina in una famiglia aristocratica in piena decadenza dell'antica nobiltà borbonica...ovvero quanto di più anacronistico ci si possa figurare. Infine, la prescelta (Violante) è tutt'altro che un'icona della fecondità trionfante, essendo piuttosto una femme fatale dai tratti vagamente vampireschi, dedita all'autoconsunzione (alla Des Essseintes, il personaggio di Huysmans) e sospetta appunto di poter distruggere (il protagonista) piuttosto che creare una nuova trionfante progenie.

PRESENTAZIONE DI ALCYONE (dalle Laudi)

Alcyone rientra in un grandioso progetto poetico di d'Annunzio che doveva comprendere sette libri di Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi. Nel 1903 risultano pubblicati i primi tre, Maia, Elettra e Alcyone, dai nomi delle stelle che compongono la costellazione delle Pleiadi. Alcyone si presenta strutturalmente e organicamente come un diario di un'estate, da un inizio piovoso in aprile a un declinante settembre ed è composto da liriche in cui a dominare sono la natura e l'essere umano che vivono simbioticamente (e metamorficamente). Il linguaggio cui ricorre il poeta è analogico e contribuisce a veicolare panismo (nelle metamorfosi tutto è in tutto) e poesia epifanica (a un certo punto avviene una rivelazione).

LA SERA FIESOLANA

In lunghe strofe di 14 versi endecasillabi, novenari, settenari, quinari senza schema fisso e comprendenti libere assonanze e rime, il poeta innalza una preghiera, una lauda francescana, alla sera. L'intento di cogliere un'epifania, quella della luna sorgente, è palese: il poeta però sceglie la via dell'analogia e della sinestesia (la via del lontano) per alludere all'evento, sicché (prima strofa) la Luna è prossima alle soglie e a spandersi nell'aria è una luce che non promana direttamente da lei, ma è un presagio della sua apparizione. Quanto alla sera, personificata fin dal titolo, essa è originariamente archetipo femminile (come la luna, peraltro) e il suo profilo si disegna nell'aria come quello di una donna bellissima, sinesteticamente evocata attraverso il profumo delle vesti che sono altrettanti elementi del paesaggio che compongono la sua parvenza e la sua essenza. Panico e naturalistico nella terza strofa, il componimento, per quanto attraversato da echi francescani e misticheggianti, culmina con un omaggio alla sensualità che promana dalle curve delle colline, complici anch'esse di qualche attesa rivelazione che non arriva a compiersi perché il momento dell'attesa, per qualsiasi desiderio, è sempre il vero momento sacro

LA PIOGGIA NEL PINETO

Il tenue filo conduttore di questa lirica è una corsa  di due amanti sotto la pioggia, nella pineta versiliana di Marina di Massa, mentre  la donna evocata come Ermione può certo essere identificata con l'attrice drammatica Eleonora Duse, con cui d'Annunzio intrattiene una lunga (nonché assunta  agli onori della cronaca per sua stessa volontà) e travagliata relazione. La sua indubbia potenza evocativa risale quindi  al virtuosismo metrico e verbale, che rende l'esperienza della lettura un evento musicale, dal momento che le quattro strofe sono il corrispettivo di altrettanti movimenti sinfonici. Il simbolismo qui opera in tutta la sua potenza artificiosa, che quando sia dominata, come in questo caso,  non traspare nemmeno.  Lo stesso vale per il panismo, per cui i soggetti umani e l'intrico vegetale in cui si muovono, complici i giochi costanti di assonanze e consonanze, diventano un tutt'uno indistinguibile, e tutte le parti si scambiano mentre la comunicazione continua ad alludere a qualcosa che non viene mai rivelato. A proposito di questo, non sfugge la circolarità innescata dall'espressione ripetuta la favola bella che ieri t'illuse, che oggi m'illude (vv. 29-31) ripresa con variazione promossa dal  chiasmo pronominale (la favola bella che ieri m'illuse, che oggi t'illude) nei versi finali 125-127: il non detto o non rivelato è dunque la favola bella, la quale potrebbe forse coincidere con l'inganno dell'amore che pretende di essere eterno e che non riesce a esserlo ma, come una favola bella, persuade chi lo prova di tale sua possibile durata e lo fa alternativamente, così che l'illusione prima attraversa l'uno e poi l'altro, illusi sempre ma in momenti differenti. Il mimetismo, messo in atto fin dall'inizio attraverso il gioco metamorfico, opera quindi anche a livello contenutistico: la corsa o rincorsa sotto la pioggia, con i corpi nudi che diventano piante e frutti, e la natura che partecipa anche delle emozioni dei due amanti (la pioggia è un pianto, e con esso si mescola, forse), è  un rincorrersi di illusioni sulla profondità e durata dell'amore. 

MERIGGIO

Culmine del panismo dannunziano, anch'essa ambientata sul mare Tirreno, il mare etrusco del primo verso, dipinge un paesaggio immobile e silenzioso, dove la presenza umana è rappresentata dall'io lirico presente in un crescendo, avvertibile a partire dal fatidico non ho più nome al v. 68 (prima di questo: se ascolto, v. 12, sul mio capo, v. 58). Dal momento in cui si manifesta la scomparsa dell'identità appena annotata, infatti, si verifica l'evento metamorfico cui il poeta affida appunto l'espressione del panismo. Il corpo fisico perde i connotati che sono sua prerogativa umana per diventare personificazione di quell'evento indicato nel titolo: il meriggio come momento della giornata in cui il sole è più alto all'orizzonte, arde e riluce (ma il testo ovviamente coniuga alla prima singolare, ardo e riluco) e in cui, s'immagina, la potenza vitalistica della luce manifesta il suo massimo effetto. La mia vita è divina suona l'ultimo verso, ma è pur impossibile trascurare il fatto che tale esito trionfalistico (e superomistico, volendo) sia preceduto da due versi di segno quasi opposto: in tutto io vivo, tacito come la Morte. Due opposti, la vita e la morte, che sono del tutto complementari, peraltro proprio come l'apollineo e il dionisiaco nella dimensione dello spirito della tragedia.

 

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