RIPASSO ITALIANO MODULO 5 - VERISTI E NATURALISTI - DA SCAPIGLIATURA A VERGA - MALAVOGLIA - ANALISI DI ROSSO MALPELO

MODULO 5: veristi e naturalisti (da Flaubert, De Goncourt, Verga, Zola).

Dettagli: discorso indiretto libero (Flaubert, passi da M.me Bovary),  introduzione dei de Goncourt  a Germinie Lacerteux, artificio della regressione e impersonalità, Giovanni Verga, Rosso Malpelo, Fantasticheria,  passi dai Malavoglia e da Mastro-don Gesualdo, Emile Zola, passi da Germinal

Dal vol. 3b pp. 126-139; 140-153; 157-162; 176-247.


 ROSSO MALPELO

Per noi che siamo abituati ai documentari, leggere ad alta voce Rosso Malpelo dà l’idea immediata del testo già pronto per una voce fuori campo. O per l’inizio di un film neorealista stile Fellini dei Vitelloni. O stile  Rossellini e  De Sica o ancora, valicando le Alpi, stile Truffaut dei Quattrocento colpi.

Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo, che prometteva di riescire un fior di birbone. Sicché tutti alla cava della rena rossa lo chiamavano Malpelo, e persino sua madre, col sentirgli dir sempre a quel modo aveva quasi dimenticato il suo nome di battesimo. Del resto, ella lo vedeva soltanto il sabato sera, quando tornava a casa con quei pochi soldi della settimana; e siccome era malpelo c’era anche a temere che ne sottraesse un paio, di quei soldi: nel dubbio, per non sbagliare, la sorella maggiore gli faceva la ricevuta a scapaccioni. Però il padrone della cava aveva confermato che i soldi eran tanti e non più; e in coscienza erano anche troppi per Malpelo, un monellaccio che nessuno avrebbe voluto vederselo davanti, e tutti schivavano come un can rognoso, e lo accarezzavano coi piedi , allorché se lo trovavano a tiro. Egli era davvero un brutto ceffo, torvo, ringhioso, e selvatico.

Come potete sentire, non c’è traccia di giudizio, per nulla: le immagini scorrono, il ragazzaccio che non merita altro che scapaccioni e di essere accarezzato con i piedi è lì sotto i nostri occhi, coi suoi capelli rossi come la rena rossa della cava dove lavora (ed è un ragazzo, ma il dato è in secondo piano) e che sono rossi perché è malizioso e cattivo. Voce di popolo che, sovvertendo ogni logica, pure determina la realtà e così Verga la colloca proprio al principio della narrazione, contribuendo a renderla appunto così straordinariamente documentaristica: i capelli rossi nella fantasia popolare sono un signum e sappiamo quanto potente risuoni il cave signatumguardati da chi porta il segno nel tempo. Streghe e stregoni hanno i capelli rossi, i rossi son maliziosi e strambi. Qui però c’è di mezzo un viceversa: come se a Malpelo i capelli si fossero tinti di rosso per via della cattiveria e malizia che aveva in corpo. La voce fuori campo, poi, avvalora tutto, compresa questa logica rovesciata: egli era davvero un brutto ceffo, torvo, ringhioso e selvatico. L’avverbio davvero svolge questa funzione avvalorante, che il passaggio successivo apparentemente non mette in discussione, proprio perché è assente il narratore onnisciente, che potrebbe, per esempio, introdurre un connettivo che orienti il lettore in direzione di un intendimento. Invece questo connettivo manca e io leggo che

 Al mezzogiorno, mentre tutti gli altri operai della cava si mangiavano in crocchio la loro minestra, e facevano un po’ di ricreazione, egli andava a rincantucciarsi col suo corbello fra le gambe, per rosicchiarsi quel suo pane di otto giorni, come fanno le bestie sue pari; e ciascuno gli diceva la sua motteggiandolo, e gli tiravan dei sassi, finchè il soprastante lo rimandava al lavoro con una pedata. Ei c’ingrassava, fra i calci e si lasciava caricare meglio dell’asino grigio, senza osar di lagnarsi. Era sempre cencioso e sporco di rena rossa, che la sua sorella s’era fatta sposa, e  aveva altro pel capo: nondimeno era conosciuto come la bettonica per tutto Monserrato e la Carvana, tanto che la cava dove lavorava la chiamavano «la cava di Malpelo», e cotesto al padrone gli seccava assai. Insomma lo tenevano addirittura per carità e perchè mastro Misciu, suo padre, era morto nella cava.

Manca qualsiasi orientamento alla compassione, ad esempio, nei riguardi di uno che evidentemente è trattato come un paria, isolato, ridotto al rango di bestia, e (per quanto ne sappiamo noi che leggiamo) non ha fatto niente di male se non nascere con i capelli rossi. Dunque a scrivere la storia sembra non essere nessuno, in effetti,  e lo straniamento si manifesta così nella sua potenza evocativa, a noi già nota attraverso il teatro brechtiano, Il cerchio di gesso del Caucaso. Non viene in mente di mettere in discussione quello che accade, dato che accade, per quanto riguarda il suo statuto di verità. Come si potrebbe mettere in dubbio la pioggia, se piove? Così è per l’isolamento di Rosso Malpelo e per il trattamento che gli viene riservato. Tutto è vero in quanto accade e, passaggio immediatamente successivo, è giusto così. La funzione che, per quanto riguarda la pioggia, è svolta dalla natura che ne promuove l’evenienza o meno, nel caso di questo racconto è svolta dall’ambiente, che si sta determinando sotto i nostri occhi: centri abitati nella zona nord di Catania, dove si trovava una cava di rena rossa e dove mastro Misciu, padre di Rosso Malpelo, aveva trovato la morte mentre lavorava a cottimo. Così, quasi con distrazione, come si potrebbe raccontare del ramo di una pianta che a un certo punto si stacca e cade, la narrazione prosegue col racconto della morte di quel minchione di mastro Misciu, padre appunto di Malpelo. L’epiteto è nuovamente espressione di una voce del popolo che la voce fuori campo riprende come se fosse stata registrata. Così si parla anche del cottimo che avvantaggia il padrone, ma come se non fosse nulla, e certo non risuona come una rivendicazione politica. D’altronde Rosso Malpelo era lì col padre, ad aiutarlo, quando la rena gli crolla addosso. Ed è poi sempre lui a dover tornare a lavorare perché alla fine se no dove trova da mangiare la famiglia rimasta, la madre e, per un poco, la sorella. Non c’è mai traccia di pietà, nella narrazione, continuiamo a constatare, nemmeno quando il documentario prosegue col ritrovamento di Malpelo, che non è morto per un soffio e si è messo subito a cercare di trovare il padre sepolto:  quando si accostarono col lume, gli videro tal viso stravolto, e tali occhiacci invetrati, e tale schiuma alla bocca da far paura; le unghie gli si erano strappate e gli pendevano dalle mani tutte in sangue. Poi quando vollero toglierlo di là fu un affar serio; non potendo più graffiare, mordeva come un cane arrabbiato e dovettero afferrarlo pei capelli, per tirarlo via a viva forza. Però infine tornò alla cava dopo qualche giorno, quando sua madre piagnuccolando ve lo condusse per mano; giacchè, alle volte il pane che si mangia non si può andare a cercarlo di qua e di là. Anzi non volle più allontanarsi da quella galleria, e sterrava con accanimento, quasi ogni corbello di rena lo levasse di sul petto a suo padre. Alle volte, mentre zappava, si fermava bruscamente, colla zappa in aria, il viso torvo e gli occhi stralunati, e sembrava che stesse ad ascoltare qualche cosa che il suo diavolo gli susurrava negli orecchi, dall’altra parte della montagna di rena caduta. In quei giorni era più tristo e cattivo del solito, talmente che non mangiava quasi, e il pane lo buttava al cane, come se non fosse grazia di Dio. Il cane gli voleva bene, perchè i cani non guardano altro che la mano la quale dà loro il pane. Ma l’asino grigio, povera bestia, sbilenca e macilenta, sopportava tutto lo sfogo della cattiveria di Malpelo; ei lo picchiava senza pietà, col manico della zappa, e borbottava: — Così creperai più presto!

Cattivo è parola ricorrente. Per tutti gli umani della storia evocati fino a questo momento, Rosso Malpelo è cattivo o selvatico o tristo o malizioso. Unica eccezione il cane, che gli vuole bene, avverte la voce fuori campo, perché i cani non sanno fare distinzioni, loro, pensano solo all’interesse. Di nuovo, vien da pensare, una logica rovesciata.  Intanto la narrazione porta avanti il processo creativo avviato: Rosso Malpelo è un prodotto dell’ambiente, in un senso che precede qualsiasi analisi sociologica. A forza di essere definito come malpelo, trattato come tale, egli lo diventa sempre di più: il mimetismo è anche questo, agisce tanto sul corpo quanto sulla mente e sui sentimenti e le rappresentazioni di esso che si astengano dai commenti pietistici diventano così massimamente eloquenti.

Dopo la morte del babbo pareva che gli fosse entrato il diavolo in corpo, e lavorava al pari di quei bufali feroci che si tengono coll’anello di ferro al naso. Sapendo che era malpelo, ei si acconciava ad esserlo il peggio che fosse possibile, e se accadeva una disgrazia, o che un operaio smarriva i ferri, o che un asino si rompeva una gamba, o che crollava un tratto di galleria, si sapeva sempre che era stato lui; e infatti ei si pigliava le busse senza protestare, proprio come se le pigliano gli asini che curvano la schiena, ma seguitano a fare a modo loro. Cogli altri ragazzi poi era addirittura crudele, e sembrava che si volesse vendicare sui deboli di tutto il male che s’immaginava gli avessero fatto, a lui e al suo babbo. Certo ei provava uno strano diletto a rammentare ad uno ad uno tutti i maltrattamenti ed i soprusi che avevano fatto subire a suo padre, e del modo in cui l’avevano lasciato crepare. E quando era solo borbottava: «Anche con me fanno così! e a mio padre gli dicevano Bestia, perchè egli non faceva così!» E una volta che passava il padrone, accompagnandolo con un’occhiata torva: «È stato lui! per trentacinque tarì!» E un’altra volta, dietro allo sciancato: «E anche lui! e si metteva a ridere! Io l’ho udito, quella sera!»

La crudeltà che trapela, alla fine di questa descrizione (ed è il miglior effetto documentaristico che ci si possa figurare) non è quella di Rosso Malpelo, ma quella dell’ambiente tutto che lo circonda. Violenti, insensibili, soggetti a una logica meramente economica, nell’insieme, risultano essere gli adulti sinora evocati, con l’unica eccezione del padre di Rosso Malpelo, che si confermerà,anche dopo, essere stato l’unico a comportarsi con lui come suggerito dal suo ruolo. All’opposto, il protagonista del racconto viene via via ritratto come l’unico provvisto di una sensibilità umana, che risulta essere traviata, fraintesa, ma non certo estirpata dal suo animo:

Per un raffinamento di malignità sembrava aver preso a proteggere un povero ragazzetto, venuto a lavorare da poco tempo nella cava, il quale per una caduta da un ponte s’era lussato il femore, e non poteva far più il manovale. Il poveretto, quando portava il suo corbello di rena in spalla, arrancava in modo che sembrava ballasse la tarantella, e aveva fatto ridere tutti quelli della cava, così che gli avevano messo nome Ranocchio; ma lavorando sotterra, così ranocchio com’era, il suo pane se lo buscava; e Malpelo gliene dava anche del suo, per prendersi il gusto di tiranneggiarlo, dicevano.

Per sfruttare una volta di più una categoria antropologica ben nota, può sembrare di essere precipitati in un mondo alla rovescia: in questo ambiente di minatori in balìa di padroni attenti al guadagno e predisposti a ignorare (anche da una mancanza di legislazione e di controllo in merito) i diritti dei lavoratori, caratterizzato da una violenza certo aggravata dalle condizioni di povertà, l’animo forse naturalmente buono e generoso di Rosso Malpelo viene raffigurato al contrario come malintenzionato, in ogni suo atto.  Anche il gioco col soprannome, che compare talora scritto minuscolo, vale a descrivere un processo in atto, degno di figurare nelle carte di un’inchiesta sulle forme di sfruttamento del lavoro minorile nell’Italia unita. Un’inchiesta alla Sonnino, per esempio. Una simile testimonianza può ben mettere in luce quanto sia difficile cambiare le regole di comportamento in una società abituata a pensare e vivere così. Nella quale pensare e vivere così sono ritenuti normali e naturali ― A che giova? Sono malpelo! ― Risponde il ragazzo a Ranocchio quando costui lo vorrebbe persuadere, in lacrime, a non accollarsi colpe che non sono sue, venendo severamente e crudelmente punito. Sempre senza commenti, la voce della rassegnazione, il documentario della rassegnazione. Egli era ridotto veramente come quei cani, che a furia di buscarsi dei calci e delle sassate da questo e da quello, finiscono col mettersi la coda fra le gambe e scappare alla prima anima viva che vedono, e diventano affamati, spelati e selvatici come lupi. 

Tuttavia, qualche spazio per i sogni c’è pure in un simile contesto: e Rosso Malpelo sogna di starsene  a fare il manovale, come Ranocchio, e lavorare cantando sui ponti, in alto, in mezzo all’azzurro del cielo, col sole sulla schiena ― o il carrettiere, come compare Gaspare che veniva a prendersi la rena della cava, dondolandosi sonnacchioso sulle stanghe, colla pipa in bocca, e andava tutto il giorno per le belle strade di campagna ― o meglio ancora, avrebbe voluto fare il contadino che passa la vita fra i campi, in mezzo ai verde, sotto i folti carrubbi, e il mare turchino là in fondo, e il canto degli uccelli sulla testa. Ma quello era stato il mestiere di suo padre, e in quel mestiere era nato lui.  Però a prevalere sono, da che mondo è mondo, i modelli familiari, quel che si è fatto e si continuerà a fare. La trappola del luogo di nascita, resa anche più pesante  da un sentimentalismo sul luogo di nascita, che di nuovo il documentario non si esime dal rappresentare, nella parte dedicata al ritrovamento del corpo di Mastro Misciu, degli abiti e dei suoi attrezzi da lavoro, che il figlio eredita e tratta come reliquie. Così si delinea il carattere del personaggio e prende corpo quella che, fuori dal linguaggio dell’indagine sociologica, a questo punto si configura come una maledizione, destinata a realizzarsi ovviamente, come si poteva presagire dal principio. La maledizione della cava di rena rossa, che in quanto rena non smette mai di smottare, cadere, seppellire, di rendere rosso tutto quello su cui passa e resta, prendendosi le vite dei minatori in un modo o nell’altro, o per morte prematura o per fatica e malattia o per vecchiaia. Uomini che sono bestie e bestie e uomini che muoiono con lo stesso destino, quello di diventare carcasse spolpate da cani e uccelli.

Seguendo con attenzione documentaristica anche il passaggio narrativo in cui maggiormente potrebbe manifestarsi il rischio di una deriva sentimentale, la morte di Ranocchio, la narrazione registra lo stupore di Malpelo di fronte al pianto della madre del suo amico: come se il figliuolo fosse di quelli che guadagnano dieci lire la settimana. La ragione economica potrebbe motivare le lacrime, non  quella sentimentale, alla quale nessuno  ha abituato Malpelo. La solitudine che emerge da questo rilievo diventa lavoro di scavo lasciato al lettore, che deve fare esattamente la parte di quello di fronte al quale vengano messi degli esiti e debba poi ricostruire la genesi di quello che è avvenuto, in questo caso nel cuore di qualcuno.

Rosso Malpelo alla fine della narrazione è circondato da vuoto e assenza. La madre, rimaritata, se ne va a stare altrove, così pure la sorella.  La porta della casa era chiusa, ed ei non aveva altro che le scarpe di suo padre appese al chiodo; perciò gli commettevano sempre i lavori più pericolosi, e le imprese più arrischiate, e s’ei non si aveva riguardo alcuno, gli altri non ne avevano certamente per lui. Nella memoria dei minatori, quindi anche nella sua, risuona una storia antica, che si può immaginare sorta in ogni miniera del mondo: quella di un minatore smarrito e mai ritrovato che ancora cammina nel buio gridando aiuto senza poter essere udito. Un ebreo errante del sottosuolo. Malpelo porta con sé gli arnesi del padre, zappa, lanterna, pane e fiasco e se ne va,  nè più si seppe nulla di lui, registra sempre parca di parole la voce fuori campo che è anche l’unica. Così si persero persin le ossa di Malpelo, e i ragazzi della cava abbassano la voce quando parlano di lui nel sotterraneo, chè hanno paura di vederselo comparire dinanzi, coi capelli rossi e gli occhiacci grigi. Anche le ultime parole sono di spregio nei suoi riguardi, gli occhiacci grigi dei quali non si può che avere paura e la leggenda, che è una storia di vita, che si replica nel tempo, come una trappola che una volta aperta rimane lì, e sorprende tutti, o prima o poi.

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 SECONDA SCAPIGLIATURA, VERISMO, MALAVOGLIA

La scapigliatura conosce due fasi:  alla prima che si riassume per noi nei nomi di Arrighi, Boito, Praga, Tarchetti e che si diffonde in particolare in Piemonte e Lombardia, fa seguito una seconda prevalentemente “romana”. Nelle sue file si annoverano autori come Cesare Tronconi, Felice Cameroni, Carlo Dossi, Paolo Valera (quest’ultimo milanese) che tendono a dare una piega più politica al proprio impegno artistico. In particolare Valera  si dedica a scrivere ampî e documentati réportages (Milano sconosciuta, per esempio)  sulle condizioni degradate della cosiddetta “capitale morale” del Regno, quella Milano che l’Esposizione Nazionale del 1881 consacra motore principale  dello sviluppo industriale nostrano: lo scrittore-giornalista, che si dichiara epigono di Zola, si aggira nei bassifondi di Milano, frequenta le bettole, i postriboli, i ricoveri di mendicità svelando impietosamente le condizioni di degrado che né lo Stato né la beneficenza organizzata  sono in grado (ma il sospetto più volte insinuato  è che non vogliano davvero) di risolvere. Egli è, dichiaratamente, socialista, di un socialismo estremista, tendente all’anarchico e comunque non incline a riconoscersi nel moderatismo turatiano: lo dimostra il romanzo La folla (1904) che rappresenta le molteplici esperienze esistenziali e politiche degli abitanti di un grande edificio della periferia milanese (il “casone  di Porta Magenta”). D’altro canto nella seconda metà dell’Ottocento accade che diversi artisti italiani siano attratti, più o meno superficialmente e con esiti diversi sulla loro produzione letteraria, dal socialismo: primo fra tutti Edmondo De Amicis, l’autore di Cuore, al quale si deve il “romanzo socialista” intitolato Primo maggio: in esso l’Autore descrive il faticoso apprendistato politico, in seno al socialismo appunto, di un borghese, con particolare riguardo al conflitto ideologico interiore che si crea nel momento in cui un borghese, appunto, fa proprie istanze in difesa del proletariato di cui comunque non condivide né esperienze di vita né cultura in senso lato. Moderato come De Amicis è anche il socialismo di Pascoli (discorso La grande proletaria si è mossa), sicché in entrambi i casi si può dire che prevalga l’adesione alla versione turatiana del medesimo.
Con la seconda scapigliatura, che si sviluppa all’incirca a partire dagli anni Ottanta, la letteratura nostrana è già arrivata a una duplice grande svolta: la prima in direzione verista, la seconda in direzione decadente. Occupiamoci, per cominciare, della prima.
Il verismo italiano si ricollega al realismo francese, nelle forme che i fratelli Goncourt avevano illustrato nella prefazione a Germinie Lacerteux (1864)[esperienze sessuali e graduale perdizione di una donna di servizio]: “le public aime les romans faux: ce roman est un roman  vrai. Il aime les livres qui font semblant d’aller dans le monde: ce livre viens de la rue. Il aime les petits oevres polissonnes, les mémoires de filles, les confessiones d’alcôves, les saletés érotiques, le scandale qui se retrousse dans une image aux devantures des libraires : ce qu’il va lire est sévère et pur. Qu’il ne s’attende point à la photographie décolletée du Plaisir : l’étude qui suit est la clinique de l’amour »Il Il dato accomunante, dunque, è rappresentato dal richiamo al vero nel senso del « documento umano », da cogliere il più possibile senza intrusioni liriche o autobiografiche : di qui la scelta del romanzo come veicolo di diffusione del vero, in quanto esso sarebbe « la più completa e la più umana delle opere d’arte », quella più adatta a restituire in modo « scientifico » la realtà. Mutuandolo da Flaubert, Verga e Capuana insisteranno molto sul canone dell’impersonalità dell’opera d’arte, da intendere come abolizione dell’autobiografismo, fiducia nel metodo scientifico (da quest’ultima si può forse far derivare la predilezione verista, di Verga, Capuana ma anche di cosiddetti minori come Matilde Serao, per la descrizione di ambienti rurali, dove l’umanità si presenta più “naturale”, meno corrotta e deformata dalla civiltà). Val comunque la pena precisare che il verismo è un fenomeno variegato e complesso, che estende la sua influenza anche sulla letteratura del primo Novecento (su Pirandello, per esempio) e non si limita a dominare il clima letterario degli ultimi decenni dell’Ottocento. Ricostruiamo ora l’esperienza verghiana.
L’apprendistato letterario di Verga si compie fra  Firenze e Milano fino a metà circa degli anni Settanta: scrive romanzi che vanno incontro alle richieste del pubblico dell’epoca (Storia di una capinera,  Eros, Tigre reale,), appassionato di storie sentimentali, ambientate preferibilmente tra le classi alte. La svolta in direzione verista avviene col bozzetto Nedda, nel 1874: l’attenzione dello scrittore si sposta verso la Sicilia, fra gli umili raccoglitori di olive. Vi si narra la tragica storia di Nedda, innamorata di un giovane della sua condizione di cui resta incinta: egli però, provato dal duro lavoro, muore prima di poter sposare Nedda che, rimasta con una figlia illegittima, viene disprezzata e respinta dalla società in cui vive. La vicenda si conclude con la morte della  neonataa causa degli stenti. Tuttavia Nedda non può ancora essere definita un’opera verista: la presenza del narratore si avverte fin dall’incipit (viene introdotto il tema della “rievocazione di un episodio” a partire dalla visione di un camino scoppiettante) ed è rintracciabile in vari punti della narrazione, sotto specie di pietà manifestata nei confronti della protagonista, per esempio. D’altro canto è significativa (per la “svolta verista”) la scelta dell’ambiente siciliano e di una vicenda di oppressione e di degrado. Negli anni seguenti Verga matura la sua scelta romanzesca definitiva: progetta un grandioso affresco di vita sociale, che descriva quella che nella lettera a Salvatore Verdura definisce “una specie di fantasmagoria della lotta per la vita, che si estende dal cenciaiuolo al ministro e all’artista e assume tutte le forme, dall’ambizione all’avidità del guadagno, e si presta a mille rappresentazioni del gran grottesco umano; lotta provvidenziale che guida l’umanità, per mezzo e attraverso tutti gli appetiti alti e bassi, alla conquista della verità”. Questo è il progetto di un romanzo ciclico, di cui comporrà solo due parti: I Malavoglia e Mastro-don Gesualdo, lasciando incompiuta La Duchessa delle GargantasL’Onorevole Scipioni e L’uomo di lusso. Interesse per l’umanità, in tutte le sue manifestazioni, e attitudine scientifica risultano chiaramente espresse nel passo sopra riportato. Quanto alla teoria dell’impersonalità, essa consiste nella scomparsa delle opinioni e dei giudizi dell’Autore (autore scienziato, tecnico della letteratura)I personaggi non sono più “messi in scena”, giacché il narratore è “in mezzo a loro”, come dimostrano stile e linguaggio. Lo scrittore, teorizza Verga, “deve farsi piccino, chiudere l’orizzonte fra due zolle”: un’assenza di artificio che, è ovvio, si tramuta in un nuovo artificio. Operazione letteraria è anche quella che conduce Verga a forgiare una nuova lingua per il suo romanzo, un italiano “colorato” di dialetto, non in senso lessicale ma, per così dire, mentale: Verga non scrive pressoché nessun termine in dialetto, ma conferisce alla parlata e ai pensieri dei suoi personaggi quella particolare inflessione che risale al loro ethos, al loro appartenere a un altro mondo (rispetto ai lettori, per cominciare, ma anche rispetto all’Autore medesimo, pur tenendo contro della corregionalità). La chiave di comprensione di questa operazione letteraria resta quella offerta dall’orizzonte chiuso fra due zolle: anche la lingua autoriale deve farsi piccina, adattarsi alla mente dei personaggi.               
Per passare ora all’ideologia espressa da Verga attraverso questo suo romanzo, qualche cenno al contenuto.


Tra  i grandi romanzi dell’Ottocento I Malavoglia è particolarmente caratterizzato dall’unità di luogo: tutto si svolge in un povero e minuscolo paese di pescatori siciliano, Aci Trezza, dove anche gli spazi sono circoscritti, dalle poche strade su cui si affacciano le case coi ballatoi, alla chiesa, non tanto luogo di vita religiosa ma punto di incontro dei paesani, alla farmacia (frequentata dagli “intellettuali” del paese), all’osteria prediletta dagli sfaccendati, dalle guardie doganali e dai contrabbandieri, al salone del barbiere, alla spiaggia. Infine, ma non di minore importanza, vi è un ultimo luogo circoscritto, nel quale non si svolge una vita comunitaria allargata ma ristretta al piccolo nucleo familiare, che è la casa del Nespolo, di  proprietà (almeno inizialmente) della famiglia da cui il romanzo prende il titolo, i Malavoglia. Da loro partiamo per abbozzare non tanto un riassunto quanto un volo radente sull’opera. I Toscano sono una famiglia alla quale la vox populi ha assegnato un soprannome, come spesso accade in siffatti contesti paesani, ironico, che allude per  contrario alla loro laboriosità e tenacia. Al vertice di essa il vecchio patriarca Padron ‘Ntoni, poi il figlio Bastianazzo, di robusta fibra e gran lavoratore, la moglie di costui Maruzza (detta La Longa per l’aspetto minuto) e quindi i loro cinque figli, ‘Ntoni, Luca, Mena (detta Sant’Agata per la sua laboriosità)Alessi e Lia. IL primogenito, pur portando il nome del nonno, non riflette per nulla il carattere familiare, mostrandosi fin dall’inizio un carattere influenzabile e balzano; le speranze di continuità della famiglia sembrano piuttosto affidate a Luca e, con l’andare del tempo e la morte di costui, ad Alessi (prendendo in considerazione, com’è proprio del contesto culturale descritto, i soli maschi). La vicenda ha inizio con la descrizione della vita del villaggio e della famiglia, orgogliosa proprietaria di una casa (quella del Nespolo, appunto) e di una barca, denominata Provvidenza, a sottolineare quanto la pesca rappresenti l’unica fonte di sostentamento e di vita per tutti. L’orizzonte quieto dei Malavoglia viene turbato  da diversi avvenimenti, di ordine diverso, ma tutti operanti nella direzione di uno sconvolgimento dell’assetto e della vita familiare: siamo nel 1863 e il giovane ‘Ntoni viene arruolato dal nuovo Stato italiano; l’annata è scarsa di pesce e la partenza del giovane che, per quanto sfaticato, offre il sostegno di due forti braccia alla famiglia, costituisce un grave problema; da Napoli, dove si trova accasermato, scrive lettere alla famiglia in cui si dice affascinato dalla ricchezza della città e chiede soldi; ad Aci Trezza, intanto, per sopperire alle necessità della famiglia il vecchio ‘Ntoni decide, contro le sue inclinazioni, a intraprendere un’attività commerciale, comprando una partita di lupini a credito dallo zio Crocefisso, usuraio del paese, detto significativamente Campana di Legno (mediatore il compare Piedipapera, che cospira con Campana di legno per ingannare il vecchio: la partita di lupini è avariata)I lupini vengono poi imbarcati sulla Provvidenza per essere venduti  altrove, ma la barca, guidata da Bastianazzo che parte insieme al figlio della Locca Menico, fa naufragio: la disgrazia è duplice, giacché non solo viene perduto il carico, e restano il debito e l’indigenza, ma muore anche Bastianazzo e la famiglia resta con un debito da saldare e l’intera comunità che le si schiera contro, ritenendo che sia stato un azzardo o una sfida a Dio tentare un’attività commerciale. Padron ‘Ntoni, lontano dal sospettare qualsiasi trama da parte di zio Crocefisso, inizia a preoccuparsi di restituire il debito a costui, mentre anche il paese ritiene che la vera vittima sia il creditore e i Malavoglia quelli che si sono andati a cercare la disgrazia. Dopo un  po’ di tempo il mare restituisce la barca, che viene riparata, mentre un’altra buona notizia attende la famiglia: il ritorno di ‘Ntoni, che, se avesse accettato di protrarre per altri sei mesi il servizio avrebbe esentato il fratello Luca, e che invece ha deciso di non fargli questo piacere. Tutti, tranne ‘Ntoni che dalla vita cittadina è stato ulteriormente rovinato, nel senso di diventare irrequieto e insoddisfatto di tutto, si danno da fare per pagare il debito dei lupini, ma non riescono a evitare che (pur essendo a disposizione vie di scampo che per onestà assoluta non intendono prendere) la casa del nespolo venga pignorata da quello che appare il creditore, cioè Piedipapera al quale zio Crocefisso (che non vuole sembrare un usuraio) finge di vendere il credito facendo un patto con lui. Poi anche Luca, gran lavoratore, deve partire per il servizio militare, e perde la vita nella battaglia di Lissa (nei pressi di Trieste; lo Stato non si preoccupa nemmeno di dare la notizia, che sarà Padron ‘Ntoni a constatare con Maruzza recandosi a Catania, dopo quaranta giorni dall’evento, e avendolo saputo prima in modo casuale). Se le cose erano sembrate andare meglio per i Malavoglia, ora precipitano: la casa del Nespolo viene ceduta ai creditori (i Malvoglia sono mal consigliati da un avvocato azzeccagarbugli, don Silvestro, che non è dalla parte loro ma dei galantuomini…)I malavoglia vanno ad abitare in affitto e sfumano i matrimoni convenienti di Mena (che era comunque innamorata pudicamente di Alfio) e di ‘Ntoni. Quest’ultimo ora lavora, ma è sempre inquieto e insoddisfatto, segretamente ribelle. Intanto anche Alessi è cresciuto e inizia a lavorare, e un giorno il vecchio ‘Ntoni, il giovane e Alessi escono in mare anche se il tempo non volgeva al bello: si imbattono in una tempesta, ma vengono salvati dai finanzieri, anche se il nonno è gravemente infortunato. Dopo giorni che sembrano di agonia, si riprende abbastanza da fare qualche piccolo lavoro e accarezza sempre la speranza  di ricomprare la casa del Nespolo. Tutti i malavoglia lavorano come formichine, solo ‘Ntoni sogna cambiamenti radicali e il suo desiderio di fuga è accentuato dall’arrivo di due giovani che sono stati in città lontane e nel favoleggiano. Arriva, da Catania dove si era diffusa, un’epidemia di colera che uccide Maruzza. Con la scusa dell’epidemia, ‘Ntoni decide di partire. Rimasti, soli uomini, Padron ‘Ntoni e Alessi, si deve procedere anche alla vendita della Provvidenza e i due diventano dipendenti giornalieri di padron Cipolla. Una notte torna ‘Ntoni: lacero e senza scarpe, ma tutti  a casa lo festeggiano. Per giorni non osa uscire per timore delle beffe, poi si ridà alla vita sfaccendata aspettando di poter ripartire, quindi si mette nei guai arrivando a essere coinvolto in una rissa; infine accoltella un uomo, mentre sta aiutando a scaricare merci di contrabbando. Il vecchio ‘Ntoni usa i soldi raggranellati per riacquistare la casa del Nespolo per far difendere ‘Ntoni dall’avvocato Scipioni, che sceglie come linea di difesa quella di far risultare l’accoltellamento un delitto per difendere l’onore della sorella Lia, corteggiata pesantemente dall’uomo. Sentendo queste parole, il vecchio ‘Ntoni al processo sviene, ‘Ntoni viene condannato a cinque anni di lavori forzati e Lia, venuta a sapere della diffamazione sul suo conto scappa di casa. Si verrà poi a sapere da Alfio che è diventata una prostituta a Catania. Il vecchio ‘Ntoni, approfittando di un’assenza da casa di Mena e Alessi si fa portare in un ospizio, dove pochi giorni dopo muore. Alessi si  sposa e Mena rifiuta di sposarsi con l’amato Alfio perché ormai il ramo femminile della famiglia è disonorato da Lia: accudirà i figli del fratello.Alessi riesce anche a ricomprare la casa del nespolo, e tutto può riprendere “come prima”. Una sera torna ‘Ntoni: è irriconoscibile, ma non ha intenzione di rimanere, benché Alessi lo inviti. Un addio al passato che suona come un addio al futuro. Se prima ‘Ntoni sperava di poter portare cambiamenti nel mondo statico delle ostriche, ora non ci crede più. “Sa ogni cosa” e non può più restare. ‘Ntoni non  ha voluto interiorizzare le leggi che il  nonno enunciava con convinzione, e che Alessi ha invece fatto sue: la realtà è una dura maestra, ma va sempre assecondata; a nulla vale opporlesi, cercando di orientare la vita in direzioni diverse da quelle prescritte dal proprio orizzonte, giacché così facendo si va solo incontro a disastri anche più gravi di quelli che a realtà di per sé può prevedere. Avendo pazienza, essendo perseveranti, si può arrivare a riavere quello che si è perduto, ma occorre coltivare misura e prudenza, piegarsi con modestia, accettare e non sognare mai. Solo la speranza accompagnata da un sano realismo può aiutare a sfuggire il coltello del palombaro: nient’altro hanno per sé le piccole ostriche abbarbicate allo scoglio.                                                                                                                                                                      

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