RIPASSO ITALIANO MODULO 5 - VERISTI E NATURALISTI - DA SCAPIGLIATURA A VERGA - MALAVOGLIA - ANALISI DI ROSSO MALPELO
MODULO 5: veristi e naturalisti (da Flaubert, De Goncourt, Verga, Zola).
Dettagli: discorso indiretto libero (Flaubert, passi da M.me Bovary), introduzione dei de Goncourt a Germinie Lacerteux, artificio della regressione e impersonalità, Giovanni Verga, Rosso Malpelo, Fantasticheria, passi dai Malavoglia e da Mastro-don Gesualdo, Emile Zola, passi da Germinal.
Dal vol. 3b pp. 126-139; 140-153; 157-162; 176-247.
ROSSO MALPELO
Per noi che siamo abituati ai documentari, leggere ad alta voce Rosso Malpelo dà l’idea immediata del testo già pronto per una voce fuori campo. O per l’inizio di un film neorealista stile Fellini dei Vitelloni. O stile Rossellini e De Sica o ancora, valicando le Alpi, stile Truffaut dei Quattrocento colpi.
Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo, che prometteva di riescire un fior di birbone. Sicché tutti alla cava della rena rossa lo chiamavano Malpelo, e persino sua madre, col sentirgli dir sempre a quel modo aveva quasi dimenticato il suo nome di battesimo. Del resto, ella lo vedeva soltanto il sabato sera, quando tornava a casa con quei pochi soldi della settimana; e siccome era malpelo c’era anche a temere che ne sottraesse un paio, di quei soldi: nel dubbio, per non sbagliare, la sorella maggiore gli faceva la ricevuta a scapaccioni. Però il padrone della cava aveva confermato che i soldi eran tanti e non più; e in coscienza erano anche troppi per Malpelo, un monellaccio che nessuno avrebbe voluto vederselo davanti, e tutti schivavano come un can rognoso, e lo accarezzavano coi piedi , allorché se lo trovavano a tiro. Egli era davvero un brutto ceffo, torvo, ringhioso, e selvatico.
Come potete sentire, non c’è traccia di giudizio, per nulla: le immagini scorrono, il ragazzaccio che non merita altro che scapaccioni e di essere accarezzato con i piedi è lì sotto i nostri occhi, coi suoi capelli rossi come la rena rossa della cava dove lavora (ed è un ragazzo, ma il dato è in secondo piano) e che sono rossi perché è malizioso e cattivo. Voce di popolo che, sovvertendo ogni logica, pure determina la realtà e così Verga la colloca proprio al principio della narrazione, contribuendo a renderla appunto così straordinariamente documentaristica: i capelli rossi nella fantasia popolare sono un signum e sappiamo quanto potente risuoni il cave signatum, guardati da chi porta il segno, nel tempo. Streghe e stregoni hanno i capelli rossi, i rossi son maliziosi e strambi. Qui però c’è di mezzo un viceversa: come se a Malpelo i capelli si fossero tinti di rosso per via della cattiveria e malizia che aveva in corpo. La voce fuori campo, poi, avvalora tutto, compresa questa logica rovesciata: egli era davvero un brutto ceffo, torvo, ringhioso e selvatico. L’avverbio davvero svolge questa funzione avvalorante, che il passaggio successivo apparentemente non mette in discussione, proprio perché è assente il narratore onnisciente, che potrebbe, per esempio, introdurre un connettivo che orienti il lettore in direzione di un intendimento. Invece questo connettivo manca e io leggo che
Al mezzogiorno, mentre tutti gli altri operai della cava si mangiavano in crocchio la loro minestra, e facevano un po’ di ricreazione, egli andava a rincantucciarsi col suo corbello fra le gambe, per rosicchiarsi quel suo pane di otto giorni, come fanno le bestie sue pari; e ciascuno gli diceva la sua motteggiandolo, e gli tiravan dei sassi, finchè il soprastante lo rimandava al lavoro con una pedata. Ei c’ingrassava, fra i calci e si lasciava caricare meglio dell’asino grigio, senza osar di lagnarsi. Era sempre cencioso e sporco di rena rossa, che la sua sorella s’era fatta sposa, e aveva altro pel capo: nondimeno era conosciuto come la bettonica per tutto Monserrato e la Carvana, tanto che la cava dove lavorava la chiamavano «la cava di Malpelo», e cotesto al padrone gli seccava assai. Insomma lo tenevano addirittura per carità e perchè mastro Misciu, suo padre, era morto nella cava.
Manca qualsiasi orientamento alla compassione, ad esempio, nei riguardi di uno che evidentemente è trattato come un paria, isolato, ridotto al rango di bestia, e (per quanto ne sappiamo noi che leggiamo) non ha fatto niente di male se non nascere con i capelli rossi. Dunque a scrivere la storia sembra non essere nessuno, in effetti, e lo straniamento si manifesta così nella sua potenza evocativa, a noi già nota attraverso il teatro brechtiano, Il cerchio di gesso del Caucaso. Non viene in mente di mettere in discussione quello che accade, dato che accade, per quanto riguarda il suo statuto di verità. Come si potrebbe mettere in dubbio la pioggia, se piove? Così è per l’isolamento di Rosso Malpelo e per il trattamento che gli viene riservato. Tutto è vero in quanto accade e, passaggio immediatamente successivo, è giusto così. La funzione che, per quanto riguarda la pioggia, è svolta dalla natura che ne promuove l’evenienza o meno, nel caso di questo racconto è svolta dall’ambiente, che si sta determinando sotto i nostri occhi: centri abitati nella zona nord di Catania, dove si trovava una cava di rena rossa e dove mastro Misciu, padre di Rosso Malpelo, aveva trovato la morte mentre lavorava a cottimo. Così, quasi con distrazione, come si potrebbe raccontare del ramo di una pianta che a un certo punto si stacca e cade, la narrazione prosegue col racconto della morte di quel minchione di mastro Misciu, padre appunto di Malpelo. L’epiteto è nuovamente espressione di una voce del popolo che la voce fuori campo riprende come se fosse stata registrata. Così si parla anche del cottimo che avvantaggia il padrone, ma come se non fosse nulla, e certo non risuona come una rivendicazione politica. D’altronde Rosso Malpelo era lì col padre, ad aiutarlo, quando la rena gli crolla addosso. Ed è poi sempre lui a dover tornare a lavorare perché alla fine se no dove trova da mangiare la famiglia rimasta, la madre e, per un poco, la sorella. Non c’è mai traccia di pietà, nella narrazione, continuiamo a constatare, nemmeno quando il documentario prosegue col ritrovamento di Malpelo, che non è morto per un soffio e si è messo subito a cercare di trovare il padre sepolto: quando si accostarono col lume, gli videro tal viso stravolto, e tali occhiacci invetrati, e tale schiuma alla bocca da far paura; le unghie gli si erano strappate e gli pendevano dalle mani tutte in sangue. Poi quando vollero toglierlo di là fu un affar serio; non potendo più graffiare, mordeva come un cane arrabbiato e dovettero afferrarlo pei capelli, per tirarlo via a viva forza. Però infine tornò alla cava dopo qualche giorno, quando sua madre piagnuccolando ve lo condusse per mano; giacchè, alle volte il pane che si mangia non si può andare a cercarlo di qua e di là. Anzi non volle più allontanarsi da quella galleria, e sterrava con accanimento, quasi ogni corbello di rena lo levasse di sul petto a suo padre. Alle volte, mentre zappava, si fermava bruscamente, colla zappa in aria, il viso torvo e gli occhi stralunati, e sembrava che stesse ad ascoltare qualche cosa che il suo diavolo gli susurrava negli orecchi, dall’altra parte della montagna di rena caduta. In quei giorni era più tristo e cattivo del solito, talmente che non mangiava quasi, e il pane lo buttava al cane, come se non fosse grazia di Dio. Il cane gli voleva bene, perchè i cani non guardano altro che la mano la quale dà loro il pane. Ma l’asino grigio, povera bestia, sbilenca e macilenta, sopportava tutto lo sfogo della cattiveria di Malpelo; ei lo picchiava senza pietà, col manico della zappa, e borbottava: — Così creperai più presto!
Cattivo è parola ricorrente. Per tutti gli umani della storia evocati fino a questo momento, Rosso Malpelo è cattivo o selvatico o tristo o malizioso. Unica eccezione il cane, che gli vuole bene, avverte la voce fuori campo, perché i cani non sanno fare distinzioni, loro, pensano solo all’interesse. Di nuovo, vien da pensare, una logica rovesciata. Intanto la narrazione porta avanti il processo creativo avviato: Rosso Malpelo è un prodotto dell’ambiente, in un senso che precede qualsiasi analisi sociologica. A forza di essere definito come malpelo, trattato come tale, egli lo diventa sempre di più: il mimetismo è anche questo, agisce tanto sul corpo quanto sulla mente e sui sentimenti e le rappresentazioni di esso che si astengano dai commenti pietistici diventano così massimamente eloquenti.
Dopo la morte del babbo pareva che gli fosse entrato il diavolo in corpo, e lavorava al pari di quei bufali feroci che si tengono coll’anello di ferro al naso. Sapendo che era malpelo, ei si acconciava ad esserlo il peggio che fosse possibile, e se accadeva una disgrazia, o che un operaio smarriva i ferri, o che un asino si rompeva una gamba, o che crollava un tratto di galleria, si sapeva sempre che era stato lui; e infatti ei si pigliava le busse senza protestare, proprio come se le pigliano gli asini che curvano la schiena, ma seguitano a fare a modo loro. Cogli altri ragazzi poi era addirittura crudele, e sembrava che si volesse vendicare sui deboli di tutto il male che s’immaginava gli avessero fatto, a lui e al suo babbo. Certo ei provava uno strano diletto a rammentare ad uno ad uno tutti i maltrattamenti ed i soprusi che avevano fatto subire a suo padre, e del modo in cui l’avevano lasciato crepare. E quando era solo borbottava: «Anche con me fanno così! e a mio padre gli dicevano Bestia, perchè egli non faceva così!» E una volta che passava il padrone, accompagnandolo con un’occhiata torva: «È stato lui! per trentacinque tarì!» E un’altra volta, dietro allo sciancato: «E anche lui! e si metteva a ridere! Io l’ho udito, quella sera!»
La crudeltà che trapela, alla fine di questa descrizione (ed è il miglior effetto documentaristico che ci si possa figurare) non è quella di Rosso Malpelo, ma quella dell’ambiente tutto che lo circonda. Violenti, insensibili, soggetti a una logica meramente economica, nell’insieme, risultano essere gli adulti sinora evocati, con l’unica eccezione del padre di Rosso Malpelo, che si confermerà,anche dopo, essere stato l’unico a comportarsi con lui come suggerito dal suo ruolo. All’opposto, il protagonista del racconto viene via via ritratto come l’unico provvisto di una sensibilità umana, che risulta essere traviata, fraintesa, ma non certo estirpata dal suo animo:
Per un raffinamento di malignità sembrava aver preso a proteggere un povero ragazzetto, venuto a lavorare da poco tempo nella cava, il quale per una caduta da un ponte s’era lussato il femore, e non poteva far più il manovale. Il poveretto, quando portava il suo corbello di rena in spalla, arrancava in modo che sembrava ballasse la tarantella, e aveva fatto ridere tutti quelli della cava, così che gli avevano messo nome Ranocchio; ma lavorando sotterra, così ranocchio com’era, il suo pane se lo buscava; e Malpelo gliene dava anche del suo, per prendersi il gusto di tiranneggiarlo, dicevano.
Per sfruttare una volta di più una categoria antropologica ben nota, può sembrare di essere precipitati in un mondo alla rovescia: in questo ambiente di minatori in balìa di padroni attenti al guadagno e predisposti a ignorare (anche da una mancanza di legislazione e di controllo in merito) i diritti dei lavoratori, caratterizzato da una violenza certo aggravata dalle condizioni di povertà, l’animo forse naturalmente buono e generoso di Rosso Malpelo viene raffigurato al contrario come malintenzionato, in ogni suo atto. Anche il gioco col soprannome, che compare talora scritto minuscolo, vale a descrivere un processo in atto, degno di figurare nelle carte di un’inchiesta sulle forme di sfruttamento del lavoro minorile nell’Italia unita. Un’inchiesta alla Sonnino, per esempio. Una simile testimonianza può ben mettere in luce quanto sia difficile cambiare le regole di comportamento in una società abituata a pensare e vivere così. Nella quale pensare e vivere così sono ritenuti normali e naturali. ― A che giova? Sono malpelo! ― Risponde il ragazzo a Ranocchio quando costui lo vorrebbe persuadere, in lacrime, a non accollarsi colpe che non sono sue, venendo severamente e crudelmente punito. Sempre senza commenti, la voce della rassegnazione, il documentario della rassegnazione. Egli era ridotto veramente come quei cani, che a furia di buscarsi dei calci e delle sassate da questo e da quello, finiscono col mettersi la coda fra le gambe e scappare alla prima anima viva che vedono, e diventano affamati, spelati e selvatici come lupi.
Tuttavia, qualche spazio per i sogni c’è pure in un simile contesto: e Rosso Malpelo sogna di starsene a fare il manovale, come Ranocchio, e lavorare cantando sui ponti, in alto, in mezzo all’azzurro del cielo, col sole sulla schiena ― o il carrettiere, come compare Gaspare che veniva a prendersi la rena della cava, dondolandosi sonnacchioso sulle stanghe, colla pipa in bocca, e andava tutto il giorno per le belle strade di campagna ― o meglio ancora, avrebbe voluto fare il contadino che passa la vita fra i campi, in mezzo ai verde, sotto i folti carrubbi, e il mare turchino là in fondo, e il canto degli uccelli sulla testa. Ma quello era stato il mestiere di suo padre, e in quel mestiere era nato lui. Però a prevalere sono, da che mondo è mondo, i modelli familiari, quel che si è fatto e si continuerà a fare. La trappola del luogo di nascita, resa anche più pesante da un sentimentalismo sul luogo di nascita, che di nuovo il documentario non si esime dal rappresentare, nella parte dedicata al ritrovamento del corpo di Mastro Misciu, degli abiti e dei suoi attrezzi da lavoro, che il figlio eredita e tratta come reliquie. Così si delinea il carattere del personaggio e prende corpo quella che, fuori dal linguaggio dell’indagine sociologica, a questo punto si configura come una maledizione, destinata a realizzarsi ovviamente, come si poteva presagire dal principio. La maledizione della cava di rena rossa, che in quanto rena non smette mai di smottare, cadere, seppellire, di rendere rosso tutto quello su cui passa e resta, prendendosi le vite dei minatori in un modo o nell’altro, o per morte prematura o per fatica e malattia o per vecchiaia. Uomini che sono bestie e bestie e uomini che muoiono con lo stesso destino, quello di diventare carcasse spolpate da cani e uccelli.
Seguendo con attenzione documentaristica anche il passaggio narrativo in cui maggiormente potrebbe manifestarsi il rischio di una deriva sentimentale, la morte di Ranocchio, la narrazione registra lo stupore di Malpelo di fronte al pianto della madre del suo amico: come se il figliuolo fosse di quelli che guadagnano dieci lire la settimana. La ragione economica potrebbe motivare le lacrime, non quella sentimentale, alla quale nessuno ha abituato Malpelo. La solitudine che emerge da questo rilievo diventa lavoro di scavo lasciato al lettore, che deve fare esattamente la parte di quello di fronte al quale vengano messi degli esiti e debba poi ricostruire la genesi di quello che è avvenuto, in questo caso nel cuore di qualcuno.
Rosso Malpelo alla fine della narrazione è circondato da vuoto e assenza. La madre, rimaritata, se ne va a stare altrove, così pure la sorella. La porta della casa era chiusa, ed ei non aveva altro che le scarpe di suo padre appese al chiodo; perciò gli commettevano sempre i lavori più pericolosi, e le imprese più arrischiate, e s’ei non si aveva riguardo alcuno, gli altri non ne avevano certamente per lui. Nella memoria dei minatori, quindi anche nella sua, risuona una storia antica, che si può immaginare sorta in ogni miniera del mondo: quella di un minatore smarrito e mai ritrovato che ancora cammina nel buio gridando aiuto senza poter essere udito. Un ebreo errante del sottosuolo. Malpelo porta con sé gli arnesi del padre, zappa, lanterna, pane e fiasco e se ne va, nè più si seppe nulla di lui, registra sempre parca di parole la voce fuori campo che è anche l’unica. Così si persero persin le ossa di Malpelo, e i ragazzi della cava abbassano la voce quando parlano di lui nel sotterraneo, chè hanno paura di vederselo comparire dinanzi, coi capelli rossi e gli occhiacci grigi. Anche le ultime parole sono di spregio nei suoi riguardi, gli occhiacci grigi dei quali non si può che avere paura e la leggenda, che è una storia di vita, che si replica nel tempo, come una trappola che una volta aperta rimane lì, e sorprende tutti, o prima o poi.
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SECONDA SCAPIGLIATURA, VERISMO, MALAVOGLIA
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