AGOSTINO - UN SAGGIO

 Agostino

Agostino, uno dei quattro dottori della chiesa (con Ambrogio, Girolamo e Gregorio Magno), nasce a Tagaste in Numidia nel 354 d. C.  e muore nel 430 a Ippona, la città di cui è vescovo per più di trent'anni.  Figlio di un decurione pagano, e della cristiana Monica, compie gli studi in patria, a Madaura, poi a Cartagine. Nelle Confessioni rievoca questo periodo come dedito ai piaceri, in particolare quelli amorosi. La lettura dell’Hortensius ciceroniano lo conquista, diciannovenne, alla filosofia, e subito dopo si avvicina al manicheismo, presentatogli come spiegazione dell’esistente, su un piano fisico e metafisico,  in grado di soddisfare la ragione.  Emigrato a Roma, e ottenuta una raccomandazione del potente oratore, scrittore e politico Simmaco, ottiene il ruolo di professore ufficiale di retorica (autunno 384), a Milano, dove matura una crisi spirituale che lo porta a convincersi che il cristianesimo sia un credo in grado di accordare  la filosofia neoplatonica e la predicazione di Ambrogio, la cui influenza è molto profonda nella città dove risiede in questo periodo. Successiva alla conversione è la stesura di alcune opere pervenuteci, tra cui i dialoghi Contra academicos, Contro gli accademici e De vita beataDella vita beata. Il battesimo gli viene somministrato da  Ambrogio la notte del sabato santo (24-25 aprile) del 387. Tornato a Tagaste, continua nella vita monastica la sua attività di scrittore. Nel 391 è ordinato sacerdote a Ippona, dove, tra la fine del 395 e il 396, è consacrato come successore del vescovo Valerio, già prossimo a morte. Nei 34 anni di episcopato conduce tra l’altro una  copiosa corrispondenza (ci sono giunte 218 lettere di Agostino, oltre i trattatelli in forma epistolare, e 53 epistole dirette a lui), è un attivissimo predicatore (i sermoni conservati e noti finora sono più di 500), partecipa a concili, prende posizione contro  le eresie e gli scismi, la lotta contro i quali assorbe gran parte della sua attività letteraria.

Nel periodo in cui opera e scrive Agostino, continua a manifestarsi la necessità, da parte dei pensatori cristiani, di definire con chiarezza la posizione teologica, entrando nel merito e nei dettagli di una definizione del divino e delle sue manifestazioni, in modo da rafforzare la fede dei credenti. Di qui la vis polemica che, a seconda dei profili e degli stili di ogni autore, è più o meno spiccata. Nel caso di Agostino, la polemica rappresenta addirittura una fase significativa del suo pensiero, coincidente, soprattutto ma non solo, col periodo immediatamente seguente la conversione. Inizialmente il suo obiettivo sono i  manichei, il cui errore consiste nell’ attribuzione di potenza eguale e contraria a un principio creatore opposto a quello divino. Il rischio del dualismo è evidente, e Agostino impiega molte energie per respingerlo. Le vie dimostrative da lui seguite prevedono, oltre all’accettazione dell’auctoritas, l’invito a condurre un accurato esame di coscienza, dato che la verità va soprattutto ricercata in se stessi: si trova in questo principio evidente traccia della dottrina neoplatonica del ritorno su sé stessa dell’anima che, riconosciuta la mutevolezza del mondo esteriore, percepito dai sensi, e la sua propria, si avvia a ricercare la verità immutabile, per cui è vero ogni ragionamento vero, all’interno del quale si trova Dio medesimo. I sensi, dunque, e anche le parole del maestro, non fanno se non ridestare idee, che sono già nell’anima: non però nel senso della dottrina platonica della reminiscenza, ma in quanto in interiore homine habitat veritas, parla cioè, in fondo all’anima, il Maestro interiore, il Verbo divino; nell’uomo (in interiore homine) brilla la luce del vero che dona a ciascuno le rationes aeternae, principio e fondamento di ogni giudizio. È questa la teoria detta dell’illuminazione che, non del tutto chiarita da Agostino, si presta a varie interpretazioni, a seconda se le rationes aeternae si intendano come idee innate, o come categorie del giudizio; essa si collega alla dottrina del maestro interiore, il Verbo, il solo vero maestro: insegnare, da parte degli uomini, rappresenta quindi solo una preparazione all’ascolto della  voce del Verbo divino. Queste dottrine sono  mantenute anche in opere posteriori, ma il primitivo entusiasmo per Platone, Plotino e i platonici (che si sarebbero fatti cristiani, è convinto Agostino, se fossero vissuti alla sua epoca) e per i neoplatonici si affievolisce col tempo. 

L’ordinazione sacerdotale lo obbliga, per via del dovere della predicazione, a spiegare al popolo i libri sacri, e a proseguire l’azione dall’interno della gerarchia ecclesiastica al fine di evitare pericolosi scismi. A proposito di questo, Agostino  si dispone a contrastare in particolare lo  scisma che tormenta la Chiesa africana, quello che si manifesta col donatismo. Ma mentre all’inizio, e ancora nel 411, non voleva ricorrere ad altro mezzo che la persuasione attraverso la discussione, con le leggi di Onorio contro gli scismatici e di fronte alla loro ostinazione, cambia parere: e come dalla netta distinzione tra scisma ed eresia passa a definire questa quale scisma inveterato,  così ammette la legittimità e necessità della coercizione e del ricorso all’autorità civile, fissando  il dovere per il sovrano cristiano di attenersi al magistero della Chiesa.

Un culmine, dal punto di vista sia noetico sia letterario, della produzione di Agostino sono le Confessioni. In primo luogo esse rappresentano un modello originario nella cultura occidentale di scrittura soggettiva e introspettiva. Inoltre in esse Agostino affronta la questione di come la coscienza rappresenti il luogo interiore in cui il tempo acquista, per così dire, consistenza, diventando una sorta di oggetto misurabile. Esistono infatti tre stadi della coscienza, che corrispondono ad altrettanti momenti o stati: lo stato della memoria, che rende esistente il passato, quello dell’attenzione che si manifesta nel presente, e quello dell’attesa attraverso il quale è il futuro a essere delineato. Sempre nelle Confessioni,  Agostino affronta anche la questione della relazione fra cultura pagana, che non è totalmente da respingere per quanto possa confliggere con quella cristiana, e quest’ultima.  Di fronte all’evidenza di un pensiero che si è sviluppato nell’arco di centinaia d’anni attraverso pensatori raffinati, Agostino non si ritrae da un compito che esplica in modi svariati anche attraverso le Confessioni: quello di assicurare, attraverso il filtro della sua auctoritas, continuità e trasmissione alla cultura antica.  Fra i temi ereditati dal pensiero antico e proposti in continuità con esso da Agostino, vi è quello della creazione. Agostino  la ritiene avvenuta ex nihilo (dal nulla) insieme al tempo e simultaneamente, ma non nello stesso modo, per tutte le cose: alcune furono create da Dio non in atto e nella loro forma perfetta, ma solo in potenza, o in germe (rationes seminales, energie latenti destinate a svilupparsi nel tempo e a produrre, al momento opportuno per ciascuno, i diversi esseri). A queste conclusioni egli è indotto  da un’esegesi dei primi tre capitoli del Genesi (De Genesi ad litteram libri XII, tra il 401 ca. e il 415 ca.). Sempre in connessione col motivo cruciale della memoria e del tempo è l’interrogativo teologico per eccellenza, quello che riguarda il mistero trinitario. La soluzione agostiniana procede anche in questo caso da un richiamo introspettivo: l’anima è un pensiero (mens) da cui nasce una conoscenza (notitia), e nel suo rapportarsi a questa conoscenza nasce l’amore che essa si porta (amor). Nell’anima o, meglio, nella memoria, nell’intelletto e nella volontà, nella parte cioè più alta e nobile di essa, che ricorda, comprende e ama sé stessa, ma soprattutto ricorda, conosce e ama Dio,  Agostino identifica le impronte o vestigia della Trinità divina, rispettivamente il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. D’altronde, la distinzione trinitaria è quasi esclusivamente funzionale alle relazioni tra le persone, mentre esse comunque operano indistintamente allo stesso modo. Di qui, tra l’altro, il cosiddetto cristocentrismo, che ha molto influenzato la teologia occidentale, rendendo determinante in particolare la redenzione dell’uomo dal peccato, mercé la grazia. Proprio intorno a questi ultimi temi si polarizza una nuova polemica agostiniana, quella contro Pelagio e la dottrina della predestinazione. Agostino avvia il discorso dalla condizione di Adamo, creato esente dalla morte (posse non mori, diverso da non posse mori proprio degli esseri spirituali) e dalla concupiscenza, capace quindi di non peccare (il posse non peccare, diverso dal non posse peccare degli eletti), e nella piena libertà di optare per il bene conformandosi a una ragione che aveva il perfetto predominio sui sensi, capace di perseverare nel bene, grazie all’aiuto (adiutorium sine quo non) concessogli da Dio. Avendo Adamo peccato, la sua colpa si trasmise all’intero genere umano, divenuto così massa damnata; peccato di origine, che Agostino dimostra, fra l’altro, in base all’uso della Chiesa di amministrare agli infanti il battesimo che annulla la concupiscenza in quanto reato, ma la lascia sopravvivere actu, così che l’uomo, pur conservando il libero arbitrio, è privato di quella libertas [...] quae in Paradiso fuit (Enchiridium ad Laurentium, 26-27). Per poter resistere alla concupiscenza, occorre ora un aiuto divino maggiore di quello dato ad Adamo: la grazia è dunque necessaria per avere la fede, e questa perché vi sia quell’amore di Dio, in quanto sommo bene, senza di che non esiste né beatitudine né vera moralità (e non vi sono pertanto vere virtù fra i pagani). Però questo soccorso (adiutorium quo) non è concesso a tutti: Dio, senza alcuna ingiustizia, ma per un suo gratuito atto di misericordia, prepara per alcuni i mezzi, pienamente efficaci, per condurli alla salvezza cui li ha predestinati ab aeterno. Accusato dai pelagiani di manicheismo, Agostino tuttavia non considera  malvagia la stessa natura umana, e non condanna la procreazione: nel matrimonio, il male è la concupiscentia carnis; e anche questo può essere rivolto a un fine buono, la generazione dei figli congiunta alla volontà della loro rigenerazione attraverso il battesimo. Ma i bambini morti senza questo, secondo Agostino, non si sottraggono alla pena eterna. Poiché la trasmissione del peccato originale si spiegava più facilmente mediante la teoria secondo cui l’anima è generata, spiritualmente, da quella dei genitori (traducianismo), mentre, più conforme alla sua dottrina dell’illuminazione, era l’altra teoria, della creazione di ogni anima da Dio (creazionismo), Agostino rimase incerto fino all’ultimo (De anima et eius origine, 419-20). E poiché è ignoto chi siano gli eletti, la concezione agostiniana della predestinazione coincide con quella della Chiesa come corpus permixtum.

Infine, la concezione della storia. Partiamo anche noi, come i contemporanei di Agostino, dalla suggestione esercitata dal sacco di Roma del 410: i cristiani ne sono sconvolti perché pare che il loro Dio non abbia difeso l’impero ormai cristianizzato. Da parte loro i pagani hanno agio di sostenere possa trattarsi di una punizione da parte degli dei, traditi dalla diffusione del cristianesimo. Agostino, però, trascende il motivo polemico occasionale, per proporre una visione della storia umana nei suoi fattori portanti, ricollegandosi a temi già sviluppati in altre opere: intanto individua quali caratteristiche morali prevalenti del mondo pagano, sia a livello individuale sia collettivo, superbia e sete di dominio, temperate, nel caso dell’impero romano, da meriti organizzativi e spirito di sacrificio. L’analisi della storia umana dimostra che la città terrena vive dell’amore di sé spinto fino al disprezzo di Dio, mentre la città di Dio si alimenta dell’amore di Dio e del prossimo spinto fino al disprezzo di sé. La prima si è incarnata nei vari stati pagani, sino all’impero, in una continua vicenda di sopraffazioni, la seconda, rappresentata originariamente dai patriarchi e dalla parte eletta del popolo ebreo, trova espressione nella chiesa di Cristo. Ma, ed è qui la parte più originale del pensiero agostiniano, ora sono permixtae, anche se il cammino della seconda è comunque irreversibile; secondo Agostino non è da auspicare un matrimonio fra Stato e Chiesa (come sosteneva per esempio Ambrogio), dato che il regno di Dio non va confuso con quello terreno, caratterizzato dalla fiducia egoistica in se stessi: gli stati, infatti, tendono a essere associazioni banditesche e la politica è di per sé inquinata, è una scientia che deve cedere il passo alla sapientia. D’altro canto è evidente che le due civitates contrapposte non possono essere identificate senz’altro con le due istituzioni terrene della chiesa e dello stato: infatti non tutti i cristiani sono veri cristiani,  e quindi non tutti i componenti della chiesa appartengono alla Civitas Dei; lo stato, dal canto suo, non è interamente retaggio della civitas terrena, ma è un mezzo a disposizione del bene come del male: è certo tuttavia che esso cesserà di esistere alla fine dei tempi, giacché la città celeste è una realtà completamente alternativa a esso, dal quale interamente prescinde.

Tornando ora al distinguo fra scientia e sapientia, vale la pena sottolineare che anche il De civitate Dei  è, come la gran parte dell’opera filosofica agostiniana, caratterizzata da un richiamo all’interiorità: è lì che Dio ha lasciato la sua impronta, è lì che risiede il valore unico della persona, è lì che si inscena il dramma originario, archetipizzato nella vicenda edenica: l’uomo opta per la schiavitù (la prigionia del peccato, captivus diaboli, prigioniero del diavolo, è il senso etimologico dell'aggettivo cattivo di cui ci serviamo tuttora) o per la libertà (il libero corso all’amore divino) nella sua anima. Se tutto si svolge nell’anima, è fondamentale che l’anima sia conosciuta a fondo: questa è la  sapientia, conoscenza di sé e di Dio, alla quale la scientia (conoscenza delle cose del mondo) deve cedere il passo. 

Inevitabile, a questo punto, riconoscere l’afflato pedagogico del pensiero agostiniano, che non si limita ai problemi più dibattuti dalla patristica, ma si estende all’utilizzazione della cultura pagana nella formazione dei ragazzi, e ai modi e metodi dell’educazione religiosa. Il processo educativo richiede di portare alla luce, variazione sul tema della maieutica socratica,  la verità, ritrovando  Dio-maestro nel profondo dell’anima (Christus intus docet). Il maestro vero è quindi  Cristo, mentre a quelli terreni non può che spettare un ruolo di stimolo alla riscoperta della verità stessa che è in noi come segno della presenza di Dio. Dal punto di vista didattico Agostino accoglie la necessaria propedeutica delle arti liberali, ma la cultura per sé non è indispensabile, poiché le virtù cristiane si realizzano anche al di fuori di esse. Necessaria è invece la cultura religiosa, che va impartita  anche alle menti più rozze: nel De catechizandis rudibus (La catechesi degli incolti) introduce il tema di  tale opera educativa, ponendo in rilievo la funzione fondamentale che ha in essa l’amore con cui il maestro discende al livello dell’educando (così come Cristo ha fatto per l’uomo facendosi uomo) e vivifica così la relazione educativa.

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E’ AMORE CHE MUOVE IL MONDO E LE ALTRE STELLE (Virginia)

Agostino nasce nel 354 a Tagaste dal padre Patrizio, un piccolo proprietario terriero pagano, e da Monica, fervente cristiana. Prima di diventare il padre della chiesa che conosciamo noi oggi, Agostino si avvicina al manicheismo1, per poi arrivare alla crisi del dubbio che lo porterà ad abbracciare definitivamente e senza ripensamenti il cristianesimo. 

L’opera che ricostruisce compiutamente, nelle intenzioni dell'Autore e anche per quanto riconosciutogli nei secoli, l’inquieta ricerca della felicità vera, sino ad approdare alla conversione al cristianesimo, sono le Confessiones, divise in tredici libri e composte probabilmente tra il 397 e il 398. Nonostante, soprattutto nei libri dal I al X, sia rintracciabile una sorta di autobiografia dell’autore, che talvolta divaga per ricordare episodi della sua infanzia, sempre caricati di significati morali, e quindi scelti appositamente a questo scopo, per Agostino esse hanno un valore essenzialmente religioso, in quanto si occupano di testimoniare la grandezza di Dio e la fede conquistata (questa è la felicità) dell’autore.

Per riprendere un episodio in parte autobiografico, nonché intriso del pensiero di Agostino, possiamo analizzare il passo del libro III che antologicamente reca il titolo Agostino innamorato dell’amore. La vicenda raccontata vede un Agostino diciassettenne, giunto a Cartagine per compiere i suoi studi di retorica, gettarsi a capofitto nell’esperienza del piacere. Il vero protagonista del racconto è il confronto che l’autore conduce tra l’illusorio amore umano, perennemente insoddisfatto (e per questo, appunto illusorio), e l’amore divino, l’unico in grado di placare l’anima. Agostino, nel suo dialogo interiore con Dio, descrive le sue sensazioni affermando cercavo qualcosa da amare, amando amare, e odiavo la tranquillità e la strada priva di tranelli, poiché vi era in me una fame insensibile al cibo interiore, a te stesso, mio Dio, e di quella fame ero privo, ma ero senza desiderio di cibi incorruttibili, non perché ne fossi sazio, ma quanto più ne ero digiuno tanto più ne ero nauseato. Il riferimento va ricondotto all’alimento spirituale delle anime, dal quale l’uomo è distolto da una serie di trappole, prima fra tutte l’amore carnale. L’autore fa riferimento, con l’affermazione Non amavo ancora e desideravo amare e nella mia segreta miseria mi odiavo perché non ero ancora abbastanza misero, al principio platonico secondo cui l’amore trae origine dalla privazione. Concetto spiegato dallo psicanalista tedesco Erich Fromm nel suo saggio L’arte di amare, del 1957,  nel quale scrive che il nostro bisogno di amare si basa sul senso di separazione e sul conseguente bisogno di superarla e raggiungere l’unione. Fromm afferma che il significato di Dio, il più desiderabile tra tutti i beni, dipenda dal soggetto che lo adora, il quale non percepirà mai il suo amore nei confronti di Dio e l’amore di Dio nei suoi confronti come separati.  Agostino, prima della conversione definitiva che porterà alla scoperta di Dio come unico oggetto degno di autentico amore, dimostra una profonda e eclatante umanità, ovvero la completa accettazione dell’umano,  gettandosi a capofitto nell’amore, dal quale desiderava essere preso, e cercando il completamento di esso nella sua parte carnale, poiché amare ed essere amato gli era più dolce se poteva gioire del contatto con la persona amata

Il turbamento derivato dall’incapacità di allontanarsi definitivamente (rinunciandovi, dunque) dalle cose mondane e aprirsi totalmente a Dio è rintracciabile anche nel principale rappresentante del classicismo nazionale, Petrarca2, autore del 1300 che, proprio come Agostino fino al momento della conversione, era irresistibilmente attratto dai piaceri sensuali e dall’ambizione, che lo allontanavano da Dio. L’amore, che verrebbe definito da Agostino peccaminoso, di Petrarca per Laura, raccontato ampiamente nel Canzoniere, è un amore travagliato, poiché Laura si dimostra profondamente scostante. In un primo momento il rapporto amoroso tra i due si configura come una guerra senza fine, che vede l’innamorato poeta chiedere insistentemente all’amata, che viene addirittura accostata a Dafne3, di soddisfare il suo folle desiderio carnale. In questa fase Petrarca attraversa gli stadi dell’amore che si presentano come roventi vanghe di ferro della gelosia, dei sospetti, dei timori, delle collere e delle risse, dolori tipici dell’amore carnale che si affievoliranno nel momento in cui l’amore verrà rivolto verso Dio, e quindi verso la salvezza. 

Prima di arrivare all’amore verso Dio, Petrarca passa anche attraverso l’amore per la donna, almeno in parte, angelicata, ideale derivato dallo stilnovismo dantesco che assegna al femminino, sorta di principio astratto incarnato nelle donne, la funzione di indirizzare l’animo dell’uomo verso la sua nobilitazione e sublimazione: quella dell’Amore assoluto identificabile con la perfetta purezza di Dio. L’approdo all’amore giusto, l'unico che non promuova la dannazione, avverrà quindi ricordando proprio l’insegnamento di Agostino: il suo giovanile errore consiste nell’aver anteposto a Dio l’amore per una creatura terrena. 

Se da un lato abbiamo l’esempio di Petrarca e di Agostino, che sono riusciti a salvare la propria anima, almeno nella rappresentazione che ne danno ambedue, compiendo un’operazione introspettiva non sminuita dall’intendimento artistico,  dall’altra abbiamo chi, in seguito al fallimento, è stato condannato alla terribile morte secunda. Dante Alighieri, seppur consideri l’amore per Dio la forma più alta e nobile del sentimento, decide di riservare un angolo di paradiso nell’inferno a Paolo e Francesca, lussuriosi condannati a una bufera perpetua nel II cerchio del baratro dove il sole tace. All’amore che lega i due personaggi viene tributato un elogio dall’auctor che dedica tre terzine, con la parola Amore in anafora all’inizio di ognuna di esse, alla descrizione del sentimento che li ha legati in vita, e che ancora in quel momento, ovvero nell’eterno infernale, si permette addirittura  di prevaricare  il divino, concedendo loro di rimanere uniti anche dopo la morte.  

Il binomio amore-morte, nel senso di amore che porta alla morte, è rintracciabile nella corrente letteraria del romanticismo, che vede tra i suoi primi esponenti lo scrittore tedesco Goethe. Il protagonista dell’opera di Goethe Il giovane Werther è preda di Sehnsucht, un sentimento ineffabile (anche questo è un problema) che lo porta a bramare l’amore irraggiungibile di Lotte e lo lascia permanentemente in bilico tra l’ideale e il reale. Il risultato dell’indomabile passione del giovane, che è costretto, in quanto essere profondamente passionale, a sopportare ogni sorta di sentimento, ancora più amplificato dalla sua sensibilità, è il suicidio. È un atto estremo, quello compiuto da Werther e da numerosi altri eroi romantici, difficile da concepire in termini di liberazione dal dolore, risultandone piuttosto una sorta di culmine. Questi personaggi, preda del furor nella sua declinazione amorosa, che implica un profondo turbamento dello spirito e una passione incontrollabile, connotata negativamente come ossessione nell’immaginario cristiano, decidono di togliersi la vita, commettendo in questo modo un peccato. È proprio Agostino, infatti, a scrivere Noi, e non senza ragione, non troviamo mai nei libri canonici un punto in cui sia comandato o permesso da Dio di uccidersi né per la gloria immortale né per liberarsi da un male o per evitarlo. Anzi, dobbiamo intendere che ci sia stato proibito, dove la legge dice: "Il prossimo tuo [....] non ucciderai": dunque né altri né te stesso: infatti chi uccide se stesso, non uccide altri se non un uomo. Così, testualmente, si legge nella sua opera De civitate Dei, una precisa condanna del suicidio in quanto peccato contro Dio e contro l’umanità. 

Analizzando il percorso appena ricostruito attraverso gli amori divini e gli amori umani nel corso della letteratura, posso concludere che forse Agostino, così come Petrarca, ponendo al vertice della sua gerarchia dei sentimenti l’amore per Dio, non aveva voluto tenure in conto che l’amore umano non è solo l’amore carnale di cui tratta, ma la sua metamorfosi conclusiva, ovvero una specie più nobile di amore, quella che combina in sé lo spirituale e l’erotico. Quando due amanti anelano a diventare un unico essere, a diventare uno restando due4, a liberarsi dalla trappola dell’individualismo e dell’egoismo  e ad  affinarsi vicendevolmente, allora si raggiunge il grado più alto della perfezione e la più alta forma d’amore possibile, che in quanto tale vanta un diritto assoluto su tutti gli altri sentimenti. È quindi l’Amore in sé a poter essere il vero dio, il motore immobile, l’entità alla quale è giusto che ogni essere umano rivolga gli occhi, poiché tutto è determinato dal suo movimento, come scrive sempre Dante proprio a conclusione della sua Commedia, riferendosi, ovviamente, a Dio: l’amor che move il sole e l’altre stelle (v. 134 del XXXIII canto del Paradiso).   

  1. Movimento fondato dal persiano Mani nel III secolo, sosteneva l’esistenza di due principi, il Bene e il Male. Di fronte a questo dualismo il compito della religione era di liberare il fedele dell’impurità attraverso riti di purificazione. 

  2. Scrive il Secretum in cui propone un’autobiografia spirituale nei termini di un dibattito con un interlocutore fittizio che è proprio Agostino. Francesco e Agostino in realtà sono la drammatizzazione delle contraddizioni dell’animo del poeta: Francesco rappresenta il legame con le cose terrene e la fragilità; Agostino, invece, la scelta di Dio, la fermezza della ragione e la fede. 

  3. Ninfa del mito ovidiano, che, avendo consacrato la sua verginità a Diana, fugge velocemente dal dio Apollo ardente d’amore per lei.


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