RUTILIO NAMAZIANO

Concludere il percorso di letteratura latina con il poemetto concepito da Rutilio Namaziano nella  tarda latinità ha  ha una principale motivazione, che riconduce proprio all'inizio del percorso di letteratura italiana di quest'anno, avviatosi con lo studio del primo romanticismo.  Si tratta di una motivazione racchiusa nella potenza lirica e concettuale contenuta in una parola come nostalgia, vagamente imparentata con la sensucht, il desiderio struggente di qualcosa o qualcuno che sfugge,  che informa di sé almeno una delle multiple anime del movimento romantico. Il De reditu suo, poemetto in distici elegiaci scritto in pieno V secolo d. C. appunto da Rutilio Namaziano, può fungere da archetipo di una sintesi delle due, nostalgia e sensucht,  in quanto racconta di un ritorno al contempo avvenuto e impossibile. Andando un passo più in là di Omero,  la composizione tardoimperiale si proietta  in un orizzonte temporale dilatato, avvicinandosi all'Ottocento, in particolare a quello decadente, interpretato da Pascoli con il suo Ulisse dell'Ultimo viaggio, poema conviviale che conduce l'eroe omerico a scoprire di non essere Nessuno e a tornare morto nel grembo dell'immortale Calipso, amata amante. In nostalgia, dall'etimo greco, è racchiuso il sentimento di dolore che si prova finché non si sia tornati. Il nostos, il ritorno, negato dai fati e dagli dei a Ulisse per un lungo periodo, genera sofferenza nell'eroe, che siede nostalgico sulle rive di Ogigia, piange, ed è disposto a barattare l'immortalità per poter rivedere la sua terra. I fati e gli dei non sono poi implacabili, e nemmeno Omero: il ritorno dell'eroe avviene, anche se i primi passi nella sua terra natìa lo pongono di fronte a un'esperienza straniante, un mancato riconoscimento di Itaca. Forse anche Omero suggerisce, almeno per qualche momento, che tornare davvero non sia possibile, perché tutto nel frattempo è mutato, mutano i luoghi e anche gli occhi di chi li ha perduti di vista...ma l'indugio è breve, mentre nel caso di Pascoli diventa il motivo dominante, l'anima del canto struggente (sensucht). Quanto a Rutilio Namaziano, certo occorre evitare di spandere sopra di lui (per quanto la tentazione  sia forte) umori tardoromantici. E allora soccorrono le contestualizzazioni, i dati e le date, che ora fornisco. 

Il poema ci è giunto lacunoso, per via di una tradizione manoscritta risalente al XV secolo e integrata da un ritrovamento avvenuto intempi relativamente recenti, precisamente  nel 1973, nella Biblioteca Nazionale di Torino: un frammento, appartenente a uno dei manoscritti più completi del testo, a sua volta rinvenuto nel monastero di Bobbio nel 1494. Diviso in due libri, s'interrompe al verso 69 del II, fermandosi a un certo punto del viaggio di ritorno annunciato dal titolo. Questo nostos tardoimperiale è autobiografico. Rutilio, nativo della Gallia, praefectus urbi nel 414 a Roma,  s'imbarca a Portus Iulii, alla foce dei Tevere  nel 417, per tornare ai possedimenti di famiglia. Quanto a noi pervenuto registra il viaggio fino a Luni, e i nuovi frammenti aggiunti nel 1973 colmano lacune precedenti, relative a paesi della costa ligure. Rutilio è uno di quei viaggiatori destinati a provare una nostalgia circolare, ossia infinita: questo il destino di chi abbia due patrie, e non possa sentirsi mai davvero a casa. Un cuore diviso fra due amori, mai in pace quando si trovi da uno o dall'altro, perché l'uno esclude l'altro, e viceversa. Così la sensucht non ha mai fine, e nemmeno la nostalgia. Nel proemio veniamo informati di questa circostanza, e così pure apprendiamo quali siano i connotati della patria d'adozione, Roma, per il suo figlio innamorato: l'Urbs è un'epifania, paragonabile a quella di Iside che salva Lucio alla fine delle Metamorfosi"Troppo lungo venerare Roma per tutta una vita? Non è mai troppo lungo ciò che piace senza fine " (De reditu suo, vv. 3-4). Il poeta sente che il fato lo sta ponendo di fronte a un kairòs:  deve salpare da Roma e ritornare ai nativi campi di Gallia. Da questa necessità fatale scaturiscono i versi dell'encomio di Roma, che riporto sotto in una doppia traduzione, mia e di Pascoli. 

Dal porto di Ostia, la nave attraversa il Mediterraneo verso le coste della Gallia, e il poeta si sofferma su dettagli realistici, coste e orografia:  l’Argentario, le isole del Giglio e d’Elba, la Corsica. Partito col presagio di una rovina (già Roma gli era parsa abbandonata  a se stessa, con un imperatore lontano e le classi dirigenti intente a occuparsi dei propri averi), ne trova presto le tracce:  le invasioni barbariche (i Goti di Alarico, calati all'inizio del secolo, hanno operato distruzioni alle quali non è stato ancora posto rimedio) dimostrano che  anche le città muoiono. Ma certo un culmine dell'autobiografia è rappresentato dalla dolente, dolentissima nota relativa a come inizi a languire un'intera cultura. Proprio come registrerà, in perfetta consonanza, Verlaine col suo Langueur nella seconda metà dell'Ottocento. Non è però solo questione di barbaro bianco che si guardi passare, ma di un modo di stare al mondo e di intendere la vita che risulta totalmente altro.  Anche qui Rutilio registra un kairòs, una svolta, che riporta come esperienza di un altra persona. Il pretesto per l'evocazione è l'isola di Gorgona,  dove hanno sede comunità monastiche cristiane.  Rutilio racconta la storia di un giovane nobile che si è perduto, diventando cristiano. Per quello che potremmo a questo punto, suggestivamente, definire ultimo pagano si tratta davvero di una perdizione,  affiliarsi a una  setta che secondo lui riprende, peggiorandoli, i metodi di Circe: Erano i corpi, ora i cuori, fatti porci”. Si tratta, a suo modo di vedere, di un avvilimento dello spirito, ridotto a nutrirsi di sporcizia, come la definisce, ritraendosi con orrore da una maniera di vivere e di rappresentare la vita che trova del tutto rivoltante.  

L'incompletezza del manoscritto favorisce l'acuirsi della forza che promana da un'associazione di nostalgia e di sensucht. Questo viaggio potrebbe anche non essere arrivato alla meta finale, proprio come accade all'Ulisse di Pascoli destinato a schiantarsi sullo scoglio delle Sirene. Per assicurare la permanenza nel tempo di sentimenti come questi, è necessario che la meta s'allontani sempre, che l'approdo non sia assicurato ma resti un miraggio o un sogno, non per questo meno vero, non  per questo meno doloroso. 

Rutilio Namaziano, De reditu suo, I. 46-66)

Exaudi, regina tui pulcherrima mundi
inter sidereos, Roma, recepta polos;
exaudi, genetrix hominum genetrixque deorum:
Non procul a caelo per tua templa sumus.
Te canimus semperque, sinent dum fata, canemus:
Sospes nemo potest immemor esse tui.
Obruerint citius scelerata oblivia solem
quam tuus e nostro corde recedat honos.
Nam solis radiis aequalia munera tendis,
qua circumfusus fluctuat Oceanus;
volitur ipse tibi, qui continet omnia, Phoebus
eque tuis ortos in tua condit equos.
Te non flammigeris Libye tardavit arenis;
non armata suo reppulit ursa gelu:
Quantum vitalis natura tetendit in axes,
tantum virtuti pervia terrae tuae.
Fecisti patriam diversis gentibus unam;
profuit iniustis te dominante capi;
dumque offers victis proprii consortia iuris,
Urbem fecisti, quod prius orbis erat.

Ascolta, Roma, splendida regina d’un mondo tutto tuo,

accolta fra le stelle; ascolta generatrice di uomini e dei:

è il cielo non è tanto distante,  grazie ai tuoi templi.

Ti cantiamo  e sempre, finche lo permettano i fati, ti canteremo.

Nessuno che si dimentichi di te può trovare salvezza.

L’oblio scellerato oscurerà il sole più velocemente

di quanto sia possibile che la tua lode svanisca dal nostro cuore.

Offri infatti uguali doni ai raggi del sole,

dove l’Oceano tumultua; e anch’egli, Febo,

che tutto controlla, a te si volge, coi cavalli

da te nati e in te lasciati.

Non ti ha  ha tenuta distante la Libia con le sabbie urenti,

né respinta l’Orsa ammantata di gelo.

Quanto si è estesa natura lungo gli assi del mondo,

altrettanto la tua terra pervasa di virtù.

Hai dato un’unica patria a popoli diversi,

sotto la tua signoria, giovò agli ingiusti essere conquistati;

e mentre offri ai vinti la condivisione del diritto che ti appartiene,

hai reso Città quello che prima era mondo

CB

«Del tuo mondo, bellissima
regina, o Roma, ascolta;
o Roma, nell’empireo
ciel tra le stelle accolta
madre, non pur degli uomini
ma de’ celesti. Noi
siam presso al cielo per i templi tuoi.

Or te, te quindi cantisi
sempre, finché si viva;
dimenticarti e vivere
chi mai potrebbe, o diva?
Prima del sol negli uomini
vanisca ogni memoria,
che il ricordo, nel cuor, della tua gloria.

Già, come il sol risplendere
per tutto, ognor, tu sai.
Dovunque il vasto Oceano
ondeggia, ivi tu vai.
Febo, che tutto domina,
si volge a te: da sponde
Romane muove, e nel tuo mar s’asconde.

Co’ suoi deserti Libia
non t’arrestò la corsa;
non ti respinse il gelido
vallo che cinge l’Orsa;
quanto paese agli uomini
vital, Natura diede,
tanta è la terra che pugnar ti vede.

Desti una patria ai popoli
dispersi in cento luoghi:
furon ventura ai barbari
le tue vittorie e i gioghi:
ché del tuo dritto ai sudditi
mentre il consorzio appresti,
di tutto il mondo una città facesti.»

G. Pascoli, traduzione in metrica

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