RIPASSO ITALIANO MODULO 1 - un saggio

 Dal programma del doc del 15 maggio: 

MODULO 1: Goethe e Foscolo.

Dettagli: I dolori del giovane Werther di Goethe e Le ultime lettere di Jacopo Ortis di Foscolo; la ricerca dell’assoluto in Faust  di Goethe. 

GOETHE

Primogenito di Johann Caspar Goethe, giurisperito e consigliere imperiale, e di Katharina Elisabeth Textor, Johann Wolfgang von Goethe nasce a Francoforte sul Meno nel 1749. Riceve dapprima un’educazione familiare, studiando insieme alla sorella di poco più giovane sotto la guida del padre e di qualche maestro privato. Pur avendo sviluppato una vocazione per le lettere e la filosofia, per volontà paterna  si iscrive alla facoltà di diritto di Lipsia nel 1765. Trascorre qualche anno di intensa partecipazione alla vita della città, incorre in qualche problema di salute, ma si riprende, e parte per Strasburgo nel 1770 per proseguire gli studi presso l’università e perfezionare la sua conoscenza del francese. Nel 1771, tornato a Francoforte, ottiene il permesso di esercitare la professione di avvocato, che abbandona dopo circa quattro anni. Nel frattempo si dedica alla scrittura e inizia a seguire la nuova corrente dello Sturm und Drang, che prende il nome dall’omonimo dramma di Friedrich Maximilian Klinger, traducibile come Tempesta e impeto. Consigliato dal padre, si trasferisce nel 1772 nella cittadina di Wetzlar, e si iscrive al tribunale come praticante. In questo periodo conosce la giovane che probabilmente gli ispira il personaggio di Lotte nei Dolori del giovane Werther, così come probabilmente il personaggio di Werther è ispirato a un suo amico, suicida per amore, di quel periodo. Nei primi mesi del 1774 l’ispirazione detta a Goethe I dolori del giovane Werther, il cui impatto sulla società del tempo è immediato: in breve tempo il testo valica i confini della Germania e viene tradotto in tutte le lingue europee, contribuendo così al diffondersi della sensibilità romantica.

Goethe, che dà l'avvio  al movimento romantico, ha in sé anche lo spirito dello scrittore classico, inteso qui nel senso di  cultore della classicità, coltivando una grande ammirazione per quest'ultima e manifestandola tra l'altro attraverso un pellegrinaggio estetico nelle terre d'Italia, da nord a sud, compendiato nello scritto intitolato Ricordi del viaggio in Italia 1786- '88. L’ammirazione che Goethe riserva alle antichità  romane si manifesta  come una sorta di estenuazione: l’antico che risuona ovunque, sotto specie di ruderi e palazzi, di scorci e di vedute, produce un’ammirazione che, facile immaginare, può convertirsi in  annichilimento delle facoltà immaginative. Ma è proprio su questo punto che, invece, s’intravvede la sinergia possibile. Si tratta di un fenomeno che si manifesta anche nello spirito di Werther o, come vedremo, in quello di Jacopo Ortis. Omero, per il primo, Petrarca, per il secondo, quintessenze di classicismo, prendono a fermentare nella loro anima, producendo visioni completamente nuove, che poi si modellano in nuovi stampi che non sono certo più quelli apprezzati dai classicisti delle vecchie generazioni. Eppure, sia Goethe in Germania sia Foscolo in Italia sono capaci di scrivere come gli antichi. Né l’uno né l’altro, però, vogliono più  farlo, consapevoli come sono, entrambi, del cambiamento epocale in corso, al quale peraltro offrono il proprio, anch'esso consapevole, contributo. Il passaggio forse più significativo a questo proposito, leggibile nei Ricordi, è quello in cui lo scrittore tedesco, pur pervaso di ammirazione per il passato classico, coglie in esso qualcosa che ai classicisti vecchio stile non interessa per nulla: come nel suo seno covi, si nasconda e attenda di manifestarsi, il futuro dell’arte, nonché il futuro della vita. Perché l’ammirazione non si rattrappisca e si muti in rassegnata contemplazione di quello che non sarà mai più (così bello, così perfetto) è essenziale che si manifesti anche questo slancio verso il futuro, in direzione di uno svelamento che non può certo essere frenato nemmeno dalla morte. Per quanto entrambi i protagonisti dei primi romanzi romantici si suicidino, negando con questo gesto, almeno in apparenza, il soprassalto vitalistico al quale sto facendo riferimento, tuttavia non viene mai meno, nella dinamica degli eventi dei Dolori  e delle Ultime lettere, la propensione a vivere immersivamente, al punto che passato, presente, futuro si addensano, fanno tutt’uno, con un esito che si situa, questo sì, agli antipodi della sensibilità neoclassica, propensa a fissare in un unico movimento (ossimorico, magari) ciò che l’artista decide di raffigurare e eternare per la posterità.

Un altro Goethe interessante da scoprire,  per avere un’idea abbastanza ampia del suo orizzonte di scrittore prolifico e longevo, è quello che reca un nuovo contributo a un mito anch’esso di origine antica, per quanto non greco-latina: il mito di Faust[2], nell’omonimo dramma in versi, la cui composizione dura letteralmente una vita, dato che l’originario, Urfaust, risalirebbe al 1772, mentre l’edizione finale viene completata da Goethe poco prima di morire, e pubblicata postuma, nel 1832. Il personaggio di Faust nasce nel  XVI  secolo: compare in un anonimo  Volksbuch,  pubblicato a Francoforte nel 1587 presso l’editore Spieß. Si tratta di un erudito che stringe un patto con il diavolo per ottenere conoscenza e potere  di là dai limiti posti dall’esercizio delle sole facoltà umane. Dal medioevo all’età moderna, il personaggio inizia a delinearsi,  soprattutto in ambito alchimistico,  con riferimento al biblico Simon Mago[3]  il quale (Atti degli apostoli, 8,924) sarebbe stato solito sbalordire gli abitanti di Samaria con le sue arti magiche. Benché battezzato dall’apostolo Filippo, e dunque convertito al cristianesimo, non abbandona del tutto le sue pratiche, offrendosi di comprare il diritto di far discendere lo Spirito Santo imponendo le mani. Maledetto dall'apostolo Pietro, Simon Mago chiede di essere  perdonato. La tradizione vuole che in seguito sia tornato alle sue pratiche magiche e abbia contribuito a promuovere l’eresia gnostica. Particolarmente interessante, e degno di essere approfondito, il tema della connessione fra forza demoniaca e scienza (intesa appunto come scienza magica o alchemica), che rappresenta il demonio come un ente  in grado di dare agli esseri umani delle prerogative (sottratte al divino) che lo rendono potente (quasi onnipotente) ma pagando un prezzo spirituale, un tributo che coincide con la dannazione eterna, ovvero con la perdita di un bene assoluto anche se non sempre precisato nelle sue peculiari caratteristiche. Il tema di partenza è quello della scelta fra bene  male, ma presto i contorni si sfumano, al punto che nel momento in cui la tematica è colta da Goethe, e resa nella forma del suo dramma tragico, le linee di separazione sono decisamente complesse da stabilire. Quella proposta da Goethe con la vicenda di Faust è, tra l’altro, la sfida della manipolazione demiurgica della materia, quella che gli alchimisti conducono all’estremo limite della ricerca della pietra filosofale ovvero dell’assoluto, non senza condire la raffigurazione delle forze in gioco (materiali e spirituali) con una permanente tentazione  carnascialesca, lo spirito giocoso che capovolge tutto nel momento più (apparentemente) inopportuno, per lasciare poi inopinatamente aperte di nuovo tutte le possibilità. Un breve cenno alla trama del dramma può  suffragare questo  suggerimento interpretativo.  Due prologhi precedono l’inizio: il primo, metateatrale, ospita la discussione fra poeta, direttore di scena e attore in merito a cosa si debba privilegiare, se l’arte o il pubblico; il secondo si svolge nelle regioni celesti e propone il punto di partenza della tragedia: la scommessa che  Satana propone a Dio (reminiscenza di quella biblica che coinvolge Giobbe) in merito all’irreprensibilità di un soggetto, Faust medesimo, medico e teologo, che ha sempre obbedito alle leggi divine e che Satana è sicuro di riuscire a sedurre. Dio non accetta la scommessa, ma permette a Satana di tormentare Faust, dal momento che è certo  sia destinato alla salvezza eterna. Faust conduce, all’inizio del dramma, un’esistenza di studio che non lo soddisfa: non riesce infatti a svelare quelli che gli paiono i segreti più profondi della natura, per penetrare i quali si dedica alle arti magiche, con cui  evoca lo spirito elementare della Terra (ovvero Dio che opera attraverso la natura), ma il tentativo si risolve nell’ennesimo, clamoroso insuccesso  e Faust decide di suicidarsi, ma, un attimo prima di bere una pozione avvelenata, ode le campane che annunciano la Pasqua e rinsavisce:  rilegge il Prologo del Vangelo di Giovanni (In principio era il Verbo) e intuisce che la traduzione migliore sarebbe quella che sostituisce atto a verbo; in seguito, capisce che il suo cane è probabilmente posseduto da uno spirito maligno, che  si rivela essere Mefistofele stesso. Faust, che non teme il soprannaturale, cerca di trattenere il diavolo, che invece vorrebbe allontanarsi dalla stanza, ma è bloccato da un pentagramma divino sulla soglia di casa che egli, in quanto creatura demoniaca, non può spezzare. Uscito di casa solo grazie all’aiuto di un topo, Mefistofele torna da Faust e gli propone un patto: fargli conoscere le bellezze del mondo e della vita rispetto all’esistenza di insuccessi e insoddisfazioni sperimentata fino a quel momento dal dotto protagonista. Faust, che dapprima è titubante, accetta solo quando gli viene proposto un patto di sangue, la cui posta è la sua stessa anima. Infatti Mefistofele si propone di esaudire i suoi desideri grazie alla magia: se riuscirà a far sperimentare a Faust un godimento tale da fargli pronunciare la frase Dirò all’attimo: sei così bello, fermati!, avrà l’esclusiva sul suo spirito. Faust, peraltro, non teme l’oltretomba e, anzi, ha la ferma convinzione che nulla potrà più dargli gioia, una volta terminata la vita terrena, quindi accetta di partire con il diavolo alla ricerca dei più grandi piaceri che il mondo ha da offrire. Le successive vicende, avventurose e a tratti fiabesche, conducono fino alla richiesta da parte di Faust di far innamorare  di lui la giovane Margherita, una donna innocente e pia di cui si è invaghito e da cui è stato respinto, benché a questo punto della storia Mefistofele l’abbia reso giovane, bello e nobile. Grazie agli espedienti escogitati da Mefistofele, Faust riesce a sedurre Margherita, ma la  relazione volge presto al tragico e Margherita viene condannata a morte per infanticidio, mentre Mefistofele coinvolge Faust in un sabba infernale (La notte di Valpurga) e, alla fine di questa parte, Margherita in carcere, per avere invocato il perdono di Dio, viene salvata dagli angeli e portata in cielo. La seconda parte è ricchissima di riferimenti alla mitologia classica ed è inizialmente ambientata presso la corte imperiale. L’evento principale è rappresentato dall’innamoramento di Faust per Elena di Troia, evocata dagli Inferi,  seguito da un secondo sabba, durante il quale assistono ad una processione di creature e mostri mitologici. Faust, dopo aver salvato Elena da un sacrificio rituale, ha da lei un figlio, Euforione, che però muore prematuramente come Icaro nell’omonimo mito; Elena si ritira nuovamente negli Inferi con l’anima del figlio, abbandonando Faust. Il protagonista e Mefistofele aiutano poi l’imperatore in una guerra contro un usurpatore e Faust riceve in cambio della vittoria un feudo costiero. Ormai vecchio e stanco, si ritira nel suo nuovo possedimento, da cui fa espellere due anziani (dal nome, evocativo di Ovidio, di Filemone e Bauci) causandone infine la morte Il demone dell’Angoscia s’impadronisce dello spirito del protagonista, che rimpiange la sua vita sprecata in vane ricerche e nel commercio con Mefistofele, e che  vuole dedicarsi a un’attività utile per la collettività, bonificando una palude dei suoi possedimenti. Durante i lavori, mentre immagina un’umanità del futuro veramente libera, Faust pronuncia la frase del patto, Dirò all’attimo: sei così bello, fermati!, e Mefistofele pone fine alla sua vita per poter portare via la sua anima, ma  mentre sta per condurlo all’Inferno, giungono degli angeli che, per intercessione di Margherita e in considerazione del fatto che si sia sempre dedicato all’assoluto, lo portano in cielo. Il poema si chiude con la celebrazione dell’eterno femminino,  e dell’Amore come forza creatrice e motrice dell’intero universo.

La materia contenuta nel testo, si capisce anche solo da una sintesi della vicenda, è variegata, ma senz'altro centrale è un tema destinato a essere rilevante per il romanticismo nel suo insieme: quello della ricerca dell’assoluto. Il termine stesso, assoluto, è utile da definire: assoluto è, per via etimologica, quanto si situa in un territorio libero da ogni legame (ab unito a solvo, ovvero sciolgo da). Il termine viene utilizzato in filosofia e teologia per indicare quanto si trovi a un livello trascendente, privo di relazioni con la dimensione finita, che non può in alcun modo condizionarlo, ed è quindi inconoscibile nella sua natura, sovratemporale e infinito. Nel tentativo di cogliere l’assoluto nella dimensione teologica,  il centro di riferimento diviene il soggetto e, implicitamente, la realtà assoluta è posta come spirituale: Dio è spirito, concepito come trascendente, essere eterno e perfetto, infinito. Come si legge in Tommaso d’Aquino, Dio è absolutum secundum quod in se est. Questo modo di rendere l’assoluto  non elude il problema della conoscenza, anzi, lo ripropone negli stessi termini in cui si poneva nell’aristotelismo. Una sostanza spirituale inconoscibile nella sua essenza è pertanto, ritornando alla questione della ricerca dell’assoluto, una sfida permanente, che gli alchimisti denominano grande opera, ossia opus magnum alla latina, rendendo così empirica, in particolare chimica, la ricerca spirituale. Il nesso con il nostro discorso letterario è rappresentato dal fatto che in tanti soggetti, a cominciare da Werther, scaturiti dall’immaginazione romantica, si manifesta nell’interiorità una condizione di permanente insoddisfazione che, se non conduce all’autodistruzione, dà luogo a un vitalismo in grado di esprimersi a vari livelli dell’esistenza. Di qui, nel romanzo di Werther, la sensibilità acuita nei confronti della natura, dell’arte, dell’amore, e, sul fronte opposto, il disgusto nei confronti della civiltà, dell’artefazione, delle convenzioni di qualsiasi genere. Si predispone, come in un crogiuolo, l’eliminazione di sostanze nocive alla sensibilità che definiamo romantica, la maggior parte delle quali è radicata in tradizioni percepite ormai come usurate, in quanto espressione di una società obsolescente ma ancora rispettata e in possesso di ricchezze e poteri. La contrapposizione, nel romanzo, fra Werther e Albert si gioca anche su questo piano: il primo rappresenta lo spirito ribelle, anticonvenzionale, romantico, mentre il secondo la rispettabile  e rispettata coscienza borghese, che tiene a graduali e controllati cambiamenti, e rifugge ogni tipo di eccesso, stabilendo soglie molto basse per la definizione di quest’ultimo. Riporto, per suffragare questa affermazione, dalla quale potrà poi svilupparsi un’analisi ulteriore, una citazione dal testo. Si tratta di una lettera della prima parte dei Dolori del giovane Werther,  datata 12 agosto, con la quale concludo, la sezione dedicata a Goethe.

 

"Questo non c'entra, replicò Alberto, perché un uomo che è in balìa delle passioni perde ogni forza di ragione, ed è considerato come in preda all'ebbrezza o al delirio". "Oh le persone ragionevoli!, esclamai sorridendo. Passione! Ebbrezza! Delirio! Voi siete così impassibili, così estranei a tutto questo, voi uomini per bene! Rimproverate il bevitore, condannate l'insensato, passate dinanzi a loro come il sacrificatore e ringraziate Dio, come il fariseo, perché non vi ha fatto simili a loro! Più di una volta io sono stato ebbro, le mie passioni non sono lontane dal delirio, e di queste due cose io non mi pento perché ho imparato a capire che tutti gli uomini straordinari che hanno compiuto qualcosa di grande, e che pareva impossibile, sono stati in ogni tempo ritenuti  ebbri o pazzi. Ma anche nella vita comune, è insopportabile sentir dire ogni volta che qualcuno sta per compiere un'azione libera, nobile, inattesa: quell'uomo è ubriaco, è pazzo! Vergognatevi, uomini sobri e savi!" "Ecco le tue solite fantasie, disse Alberto, tu esageri tutto, e in questo caso hai per lo meno il torto di paragonare il suicidio di cui ora è questione, con delle grandi gesta, mentre esso non può esser considerato che come una debolezza, poiché certo è più facile morire che sopportare con fermezza una vita dolorosa". Ero sul punto di interrompere il discorso, perché niente mi mette così fuori dei gangheri come vedere qualcuno armato di insignificanti luoghi comuni mentre io parlo con tutto il cuore. Pure mi contenni, perché molte volte ho sentito addurre quell'argomento e me ne sono indignato: risposi dunque alquanto vivamente: "Tu lo chiami una debolezza? Ti prego, non lasciarti ingannare dall'apparenza. Puoi chiamare debole un popolo che geme sotto il giogo di un tiranno se infine, fremendo, spezza le sue catene? Un uomo che nel terrore di vedere la sua casa in preda alle fiamme sente le sue forze centuplicate, e solleva facilmente dei pesi che a mente calma potrebbe appena muovere? e uno che nel calore dell'offesa ne affronta sei, e li vince, tu lo chiami debole? E, mio caro, se lo sforzo costituisce la forza, perché lo sforzo supremo dovrebbe essere il contrario?". Alberto mi guardò e disse: "Non te ne avere a male, ma gli esempi che tu porti non hanno nulla a vedere col nostro discorso". "Può darsi, risposi, già più volte mi hanno detto che il mio modo di ragionare è spesso privo di logica. Vediamo se possiamo in altro modo figurarci quale coraggio deve avere un uomo che si decide a gettare il fardello della vita, che è generalmente gradito, perché solo in quanto noi sentiamo una cosa, possiamo parlarne con giusto criterio. La natura umana, continuai dunque, ha i suoi limiti: essa può sopportare la gioia, la sofferenza, il dolore fino a un certo punto, e soccombe se questo è oltrepassato. Non è questione di stabilire se un uomo è debole o forte, ma di vedere se egli può sopportare la sofferenza che gli è imposta, sia morale che fisica; e a me pare tanto strano dire che un uomo è vile perché si toglie la vita, come troverei assurdo dire che è tale perché muore di febbre maligna". "Che paradosso!" esclamò Alberto. "Non tanto quanto tu pensi, ribattei. Ammetterai che noi chiamiamo mortale una malattia la quale assale la nostra costituzione naturale in modo che le sue forze sono in parte distrutte e in parte sminuite nella loro attività: sicché essa non può in alcun modo aiutarci né riattivare, per mezzo di alcuna risoluzione, il corso della vita. Ebbene, amico mio, applichiamo questo allo spirito. Vedi quante impressioni agiscono sull'uomo nella sua limitata sfera, quante idee penetrano in lui, finché una crescente passione non gli toglie ogni serena forza di pensiero e lo trascina alla sua perdita. Invano l'uomo libero da ogni cura e in possesso della sua ragione lo guarda con pietà, invano cerca di convincerlo con la persuasione. È come un uomo sano che pur stando al letto di un infermo non può infondergli la minima parte delle sue forze". Ma per Alberto queste erano idee troppo generali. Gli raccontai allora di una fanciulla che da poco tempo era stata trovata morta annegata, e ripetei la sua storia. Era una buona giovane creatura, cresciuta nell'angusta cerchia delle occupazioni casalinghe, nel lavoro di tutta la settimana, e che non aveva altra prospettiva ed altro piacere oltre quello di andare a volte la domenica, con le sue compagne, a passeggiare intorno alla città, abbellita da qualche ornamento messo insieme a poco a poco; di ballare forse una volta nelle feste solenni e di chiacchierare qualche ora da una vicina con vivacità ed interesse a proposito di una disputa o di una maldicenza. L'ardore della sua giovinezza le fa provare infine degli intimi desideri accesi dalle lusinghe degli uomini. Le sue antiche gioie le sembrano sempre più insipide, e infine incontra un uomo verso il quale è irresistibilmente spinta da un sentimento sconosciuto e su cui posano tutte le sue speranze; dimentica il mondo intero, non ode, non vede, non sente che lui, non aspira che a lui, l'Unico. E poiché non è corrotta dai vuoti piaceri di un'incostante vanità, il suo desiderio va dritto allo scopo, vuole essere di lui, vuole in un eterno legame raggiungere tutta la felicità che le manca e godere tutte le gioie alle quali aspira. Ripetute promesse, che coronano tutte le sue speranze, ardite carezze che accendono il suo desiderio, dominano tutta la sua anima; lei è in preda a un oscuro sentimento che le fa pregustare ogni gioia, si esalta al massimo grado, stende infine le braccia per cingere l'oggetto dei suoi desideri... e il suo amato la abbandona. Lei si stupisce e, come insensata, le pare di essere davanti a un abisso: tutto è tenebre intorno a lei; non ha nessun avvenire, nessun conforto, nessuna speranza, perché l'ha lasciata colui nel quale si sentiva vivere. Non vede il vasto mondo che si stende davanti a lei, né i molti che potrebbero consolarla della perdita subìta; si sente sola, abbandonata da tutti al mondo, e cieca, oppressa nell'angustia dell'orribile miseria del suo cuore, si precipita per distruggere tutti i suoi tormenti in una morte annientatrice. Vedi, Alberto, è questa la storia di molte persone! e non ti pare proprio lo stesso caso di una malattia? La natura non trova nessuna via d'uscita dal labirinto delle forze turbate e contrarie, e l'uomo deve morire. Guai a colui che potrà dire, vedendo un simile evento: che pazza! se avesse aspettato, se avesse lasciato agire il tempo, la sua disperazione si sarebbe placata, qualche altro si sarebbe trovato per consolarla! Sarebbe lo stesso che dire: quel pazzo, è morto di febbre! se avesse aspettato finché le forze gli fossero ritornate, i succhi vitali purificati, e calmato il tumulto del suo sangue! Egli vivrebbe ancora oggi e tutto sarebbe andato bene!". Alberto, a cui il paragone non pareva appropriato, mosse ancora qualche obiezione; e fra l'altro disse che io avevo parlato di una semplice giovinetta, ma che egli non capiva come si sarebbe potuto scusare un uomo di criterio, di mente non così limitata, e che sa cogliere un maggior numero di rapporti. "Amico mio, esclamai, l'uomo è uomo, e quel poco d'intelligenza che egli può avere serve poco o niente quando arde la passione e l'essere umano è spinto verso i confini della sua forza. Tanto più... Ma ne parleremo un'altra volta" dissi, e presi il cappello... Il mio cuore era gonfio e ci lasciammo senza esserci compresi. Ma del resto in questo mondo è difficile che gli uomini si comprendano.

 

Nel passo riportato si trovano tanti spunti utili a tessere un discorso sul romanticismo che coinvolga questo padre tedesco del movimento così come, fatte salve differenze connesse con il contesto culturale, il padre italiano che riconosceremo  incarnato dal Foscolo dello Jacopo Ortis. Ne tratto uno per cominciare, riassumibile nell’opposizione didascalica, tra ragione  sentimento. Per Albert, il coscienzioso, affidabile, concreto spirito borghese, Werther è pressappoco un malato, un folle. Significativa, a questo proposito, la parabola esistenziale (una scelta priva di logica, per Albert) che Werther racconta per spiegare a Albert quale sia la differenza sostanziale fra i loro due modi di ragionare sulle vicende umane. Una fanciulla vergine (nella definizione è importante naturalmente la verginità dell’anima) prova per la prima volta la passione amorosa. Più che passione (che evoca uno stato di soggezione e porta con sé una millenaria condanna promossa dalle filosofie ma soprattutto dal cristianesimo) si tratta di entusiasmo, di desiderio di slancio vitalistico, complice la natura certo più che la cultura. Appassionata com’è dall’oggetto e soggetto del suo desiderio vi si dedica totalmente, in modo assoluto, e viene poi, all’improvviso, abbandonata. L’assoluto le sfugge, e a lei non resta che la morte. L’assoluto non patisce sostituzioni, non accetta la similarità, è un tutto in se stesso, e sotto questo profilo si capisce il ricorso all’aggettivo divino, sia pure laicizzato, nel contesto delle relazioni amorose. La divina creatura di cui la fanciulla è innamorata non corrisponde però al sentimento. La ragione direbbe, in un caso del genere, di cambiare oggetto: la ragione coglie somiglianze fra le cose, le ritiene sostituibili. Non così il sentimento, che persegue l’unico. Questa letteratura romantica degli esordi istituisce palesemente un codice di comportamento e di sensibilità che condiziona la cultura occidentale per centinaia d’anni, possiamo dire ora. Stiamo assistendo alla nascita di un mito, uno dei tanti che costellano la storia dell’umanità e che conoscono anche declinazioni disparate. Il mito dell’amore unico e eterno, il primo amore che non si scorda mai, come recita la più corriva vulgata, ma anche quello che determina un vincolo inscindibile da chicchessia: finché morte non ci separi, recita la formula ecclesiastica con cui l’amore s’istituzionalizza.

Nel passo, inoltre, viene accennata e poi sfruttata per arrivare alla conclusione della vicenda paradigmatica un’associazione destinata a grande fortuna nel periodo romantico, nel senso di offrire a poeti e romanzieri ispirazione per componimenti e storie: quella fra sensibilità (o meglio ipersensibilità) e malattia, mortale oltre tutto, già dalla sua prima e violenta manifestazione. Di ipersensibilità si muore, sostiene Werther agli albori del movimento romantico, perché l’ipersensibilità alimenta un paradosso: nel suo modo di manifestarsi come desiderio forsennato e univoco, rivolto a un unico soggetto, nella sua tensione vitalistica estrema, corre in direzione dell’autoannientamento, esplode di vita in eccesso, e muore di sé. Quasi una sconvenienza, da parte sua, agli occhi di uno spirito razionale: Albert in effetti non comprende proprio quale analogia il suo impetuoso interlocutore intenda suggerire. Il nesso fra sovraccarico sentimentale e malattia mortale gli sfugge, perché non tollera che sia messa totalmente da parte la facoltà raziocinante per ammettere che gli esseri umani possano voler essere (per quanto acculturati siano) un tutt’uno con la natura e con i suoi richiami possenti. Il tema è scabroso, nel senso che si capisce quanto possa facilmente mutarsi in un richiamo alla liberazione da tutti i freni che la società e la cultura impongono. Il romanzo goethiano, sotto questo profilo, ha in sé i germi della rivolta antiborghese dei poeti maledetti francesi, degli scapigliati italiani, contiene gli umori oscuri dei russi schiacciati dal greve peso dello zarismo, e chissà che altro ci si riesce a trovare se ci si abbandona al gioco degli echi e dei presagi di sensibilità che hanno anche molto di universale e si collocano di là dai confini temporali. In questo come in altri dialoghi con Albert, Werther approda alla desolante constatazione che fra esseri umani la comprensione vera sia difficile. Il suo autore, Goethe, scoprirà ad anni di distanza, in un romanzo del 1809, che le affinità elettive, che danno il titolo a quest’opera della maturità, esistono a dispetto di certe insormontabili incomprensioni, e conducono a intendersi veramente spiriti che legano fra loro come elementi chimici.

L'occasione genera le relazioni, così come fa ladro l'uomo. E quando parliamo di questi corpi naturali, mi pare che la scelta stia tutta nelle mani del chimico, che li combina. Ma una volta che sono insieme, be', Dio li benedica! Nel caso in questione mi dispiace soltanto che quel povero acido aeriforme debba tornare ad arrabattarsi per l'infinito.» «Non dipende che da lui,» rispose il capitano, «di combinarsi con l'acqua, di servire, come fonte minerale, al ristoro di ammalati e di sani.»

Nella, pur sempre tragica, vicenda raccontata nelle Affinità elettive, conta nuovamente l’analogia tra esseri umani e dimensione naturale, non culturale,  della vita: occorre sapere cosa si è, come un sale destinato a sciogliersi nell’acqua e non in altro liquido, per riuscire a trovare la soluzione destinata. L’affinità elettiva, inerente a una chimica dell’anima, a questo conduce e in questo trova il suo senso. Nel discorso inconcludente e non concluso, per disperazione, fra Werther e Albert che abbiamo appena letto s’accenna a quello che Goethe maturo rivela attraverso gli scambi di idee tra i personaggi delle Affinità elettive.

Tale relazione sarà diversa a seconda della diversità degli esseri – continuò Edoardo con prontezza – Si incontreranno subito, come amici, quelli che legano in fretta, che si uniscono senza modificarsi a vicenda, come il vino che si mescola con l’acqua. Altri invece, pur trovandosi vicini, continueranno a restare estranei e non ci sarà verso di legarli, nemmeno mescolandoli o strofinandoli con mezzi meccanici: si pensi all’olio e all’acqua che, appena si smette di sbatterli, si separano di nuovo».

«Tutte quelle sostanze – spiegò il Capitano – che incontrandosi immediatamente si compenetrano e si influenzano a vicenda le chiamiamo “affini”».

«Devo confessare – disse la bella Carlotta – che quando lei chiama “affini” le sue sostanze io me le immagino legate non tanto da un’affinità di sangue quanto piuttosto da una di spirito o di anima. Ed è in questo stesso modo che possono nascere tra le persone delle amicizie importanti: sono infatti le qualità opposte che rendono possibile un’unione più stretta».


FOSCOLO

 

Come si determini il fato di un essere umano è di sicuro uno dei rovelli del pensiero, e quanto abbia nutrito di sé le letterature vi è chiaro da quando ne abbiamo inaugurato lo studio. In certi casi la scrittura del fato sembra provvista però di una sua eloquenza, ed è ciò che si può ravvisare nel caso di Foscolo, a partire dalla nascita a Zante, nel 1778.  Zante, Zacinto,  è un’isola della Grecia che, per iniziare subito a usare la penna del poeta in un suo celebre sonetto[4], con le sue  acque fatali cantate da  Omero diede i natali alla sorridente vergine Venere ben prima  che a lui. Il destino di Foscolo, che compone il sonetto al quale mi sono appena riferita nel 1802, è in effetti un po’ delineato da quelle sacre sponde, per quanto vi si sente risuonare d’una storia di lontananza, d’esilio, di nostalgia, di separazione, che rende fratelli l’antico Ulisse e lo scrittore al contempo neoclassico e preromantico che iniziamo a conoscere così, per via d’un misurato e dolente lamento sulla patria perduta, per sempre. In effetti la perdita, e conseguente nostalgia, di Zacinto è un evento simbolico importante nella sua vita: vi si lega una grande illusione giovanile, destinata a velocissima estinzione e a grandi frutti letterari. Si tratta dell’illusione, condivisa latamente in questo periodo, che Napoleone, l’imperatore, intendesse davvero portare libertà nei territori in cui si è momentaneamente estesa la conquista francese. Il triplice motto, ingannevole nella sua essenza, della rivoluzione francese aveva infatti infiammato un certo numero di spiriti, e Foscolo scrive a celebrazione di tale sentimento un’ode A Bonaparte liberatore nel  1797, cui si accompagna, nello stesso anno,  la rappresentazione di Tieste, tragedia di spiriti alfieriani, veementemente anti tirannici. Nello stesso anno però sopraggiunge la delusione, prodotta dal trattato di Campoformio, dalla cui formulazione si evinceva quanto Napoleone fosse nella sostanza identico ai sovrani dell’ancien régime. Sempre meno giacobino, Foscolo conduce comunque un’intensa attività politica, militare,  letteraria e amorosa: elencando un po’ alla rinfusa, frequenta Parini e vari poeti neoclassici,  tra cui Vincenzo Monti, combatte contro gli Austro-Russi, partecipa alla difesa di Genova assediata, dove viene  ferito (1800), dal 1804 al 1806 è in Francia,  scontento e amareggiato, come ufficiale della divisione italiana che avrebbe dovuto partecipare all'invasione dell'Inghilterra progettata da Napoleone. Alla vita sentimentale occorre senz’altro un elenco a parte: s'innamora via via, in questi e negli anni successivi, di Teresa Pikler, moglie di Vincenzo Monti, di Isabella Roncioni, Antonietta Fagnani Arese (l'amica risanata di una celebre ode), l'inglese Fanny Emerytt (dalla quale ha una figlia, Floriana), Marzia Martinengo, Maddalena Bignami, Quirina Mocenni Magiotti (la donna gentile, di dantesca memoria), che lo conforta e soccorre durante l’esilio. Quest’ultimo, nella forma di esilio volontario ha inizio nel 1813, ed è la conseguenza del suo rifiuto di giurare fedeltà, in veste di ufficiale, agli Austriaci, riappropriatisi del potere dopo la parentesi napoleonica. Dopo un breve  periodo in Svizzera, passa a Londra, dove per qualche anno ottiene grandi guadagni per i suoi lavori letterarî e riesce a  condurre una vita agiata; ritrova anche la figlia naturale Floriana, con cui vive fino alla morte. Il periodo londinese è caratterizzato da un intenso attivismo: si dedica al poemetto mitologico e neoclassico Le Grazie, alla traduzione dell'Iliade, ma soprattutto a saggi di carattere  storico-filologico-critico, tra cui lo scritto Della servitù d'Italia, e  i saggi critici su Tasso, Boccaccio, Petrarca, Dante. Il poeta si spegne, assistito da pochi amici, nel 1827 a Turnham Green nei pressi di Londra, e viene seppellito nel cimitero di Chiswick, da cui  nel 1871 le ceneri sono trasportate nella chiesa di S. Croce a Firenze.

Già dalla biografia è possibile evincere che Foscolo sia un poeta di transizione fra neoclassicismo e romanticismo: alla prima della due ispirazioni si possono con certezza far risalire le odi A Luigia Pallavicini caduta da cavallo All'amica risanata, e il poemetto, rimasto incompiuto, Le Grazie; alla seconda  le Ultime lettere di Jacopo Ortis, i dodici sonetti, il carme Dei Sepolcri. Sarebbe tuttavia riduttivo ricondurre uno scrittore così poliedrico e prolifico a queste due sole direttrici. Ne cito pertanto solo una terza, che si manifesta in un’opera di traduzione dall’inglese alla quale Foscolo si dedica nel periodo londinese: si tratta del Sentimental Journey di Sterne, che il poeta presenta preceduto da una Notizia intorno a Didimo Chierico¸ ovvero il nom de plume con cui firma la traduzione medesima, che gli offre il destro di creare un suo alter ego, potrebbe essere (alcuni critici lo hanno suggerito) una sorta di Jacopo Ortis sopravvissuto al suicidio, o meglio, che non si è suicidato ed è approdato a un  sano disincanto. Le opere sulle quali concentro l’attenzione per definire attraverso riferimenti testuali lo stile di Foscolo, sintesi di classicismo e proto romanticismo, sono i Sepolcri e il  romanzo Ultime lettere di Jacopo Ortis.

Il primo è un carme, in endecasillabi sciolti, come vuole la  definizione data da Foscolo, ma è anche, a tutti gli effetti, un’epistola poetica rivolta all’amico Ippolito Pindemonte, a seguito di una discussione avuta con lui a Venezia nell’aprile 1806 in merito all’editto di Saint-Cloud, promulgato da Napoleone nel 1804. Tra i dettami previsti dall’imperatore, quello di collocare le sepolture fuori dalle città e di renderle il più possibile uguali, con l’eccezione di qualche personaggio particolarmente meritevole di onore, sulla cui tomba, per scelta di una commissione, si sarebbe potuto incidere un epitaffio. La discussione aveva visto Pindemonte intento a sostenere l’importanza della sepoltura individuale, in nome della sua visione cristiana, e Foscolo, in onore di tesi materialiste, negarla. Il Carme, dopo l’incipit materialista, recupera invece il valore e il senso delle sepolture, celebrandole come una delle possibilità (insieme alla poesia) concesse all’uomo per sconfiggere, sia pur provvisoriamente, il tempo, che cancella qualsiasi traccia umana. Si può anche riconoscere, nel percorso che  la poesia per così dire argomentativa di Foscolo traccia nel carme, una sorta di superamento di una visione nichilista che impronta invece il finale delle Ultime lettere di Jacopo Ortis, dove,  si rappresenta un totale naufragio esistenziale. Probabilmente le due visioni riuscivano a essere compresenti nello spirito di Foscolo, che da entrambe ricavava alimenti per la riflessione e la poesia. Poesia che riflette e riflessioni che diventano poesia  riesce a essere il Carme,  nel quale confluiscono visioni filosofiche, religiose, conoscenze di storia della civiltà, della cultura, della letteratura, ma soprattutto un modo di sentire e di intendere la morte, di sentire e intendere il sepolcro e, infine, di sentire e intendere il valore della vita. 



[1]  La fonte di questa citazione è wikisource, che propone una traduzione del testo del 1875 di Augusto Nomis di Cossilla.

[2] Si tratta di una  persona che potrebbe essere realmente vissuta tra la fine del Quattrocento e la fine del Cinquecento in Germania: così sostiene Johan Georg Neuman nel 1640 nella sua Disquisitio storica de Fausto prestigiatore, che stabilisce il ritratto di Faust diventato appunto storico, definendolo come un mago itinerante. A lui certo  si ispira, con la  Tragical History of Doctor Faustus,  il drammaturgo inglese Christopher Marlowe (1564-1593), la cui prima rappresentazione attestata è del 1594, ma che è stata composta nel 1588. Marlowe porta in scena caratteri ed episodi che vengono poi mutuati da Goethe, come la tragicità insita nel personaggio o l’amore per Elena di Troia.

Goethe ha modo di avvicinarsi al Doctor Faustus di Marlowe già in giovane età, durante uno spettacolo di marionette, detto Puppenspiel in tedesco.

[3]  Da Simon Mago discende anche il peccato della simonia, la compravendita di cose sacre, che Dante stigmatizza nel XIX canto dell’Inferno, relegandoli nell’VIII cerchio, III bolgia. fra i fraudolenti puniti a testa in giù, con fiamme che bruciano i loro piedi.

[4] Né più mai toccherò le sacre sponde

ove il mio corpo fanciulletto giacque,

Zacinto mia, che te specchi nell'onde

del greco mar da cui vergine nacque

 

Venere, e fea quelle isole feconde

col suo primo sorriso, onde non tacque

le tue limpide nubi e le tue fronde

l'inclito verso di colui che l'acque

 

cantò fatali, ed il diverso esiglio

per cui bello di fama e di sventura

baciò la sua petrosa Itaca Ulisse.

 

Tu non altro che il canto avrai del figlio,

o materna mia terra; a noi prescrisse

il fato illacrimata sepoltura.

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Carlotta

A patti col demonio per arrivare a Dio

Una delle moltissime opere di Goethe è il dramma che prende il nome di Urfaust, con riferimento alla prima edizione, mentre la pubblicazione postuma reca il titolo Faust. Il mito di Faust, noto sin dalla tarda epoca medievale, racconta di un dotto che, insoddisfatto della sua vita e pungolato da una curiosità al contempo fisica e metafisica, decide di stringere un patto con il diavolo in modo tale da ottenere più potere e abilità superiori a quelle assegnate a lui in quanto essere umano.

 Questa figura è imparentata con un personaggio presente nei Vangeli, ovvero Simon Mago, samaritano che aveva guadagnato moltissimi seguaci grazie alle sue arti magiche. Sentite le notizie dei prodigi realizzati da Filippo, e della sua predicazione, domandò di essere battezzato e successivamente chiese a Pietro e Giovanni di comprare da loro il privilegio di conferire lo Spirito Santo a chi glielo chiedesse, come facevano i due imponendo le mani sui fedeli. Ammonito da Pietro per questa richiesta venale, venne poi maledetto da quest’ultimo quando si rifiutò di pentirsi. Il termine simonia, ancora oggi utilizzato per definire la compravendita di cariche ecclesiastiche, ha le sue radici proprio in tale personaggio. 

Questo episodio, considerato anche solo nella sua matrice evangelica, è uno dei tanti che pone in risalto la linea sottile che separa forza demoniaca e scienza magica, entrambe riconducibili a una volontà, palesata come tentativo, da parte degli esseri umani di potenziare le facoltà che già possiedono, di cui sono insoddisfatti, e di spingersi su un territorio pericoloso che coincide per cominciare con la richiesta di assistenza al diavolo, rappresentato come garante di privilegi sottratti al divino che lo rendono più potente, ovvero quasi onnipotente. Il prezzo da pagare è poi quello della dannazione eterna.

Questa allettante scalata verso il divino e verso il potere inizia ad apparire nelle antiche tragedie greche sotto forma di hybris, ovvero un meccanismo di sfida nei confronti del divino, a cui inevitabilmente segue una punizione, a causa della presunzione e dell’arroganza umana. Se il sacro è il rispetto delle divinità, l’hybris è esattamente il contrario: una messa in discussione del piano divino. Alcune conseguenze di questa tracotanza degne di essere ricordate sono la nascita del Minotauro (dopo il rifiuto del sacrificio del toro da parte del re Minosse, come si legge nei miti che hanno, tra l’altro, alimentato l’immaginazione dantesca che rende il sovrano un parodistico giudice nel V canto dell’Inferno), la morte di Icaro (che desiderava superare i limiti dell’umano provando a volare grazie alle ali attaccate al corpo con la cera), il mito di Prometeo (in cui egli consegna agli uomini il fuoco di Efesto, di cui erano stati precedentemente privati da Zeus, e il re degli dei punisce tale sacrilegio compiuto dal Titano incatenandolo a una colonna e inviando un’aquila che gli divora il fegato che ogni notte gli ricresce) e infine il celebre caso di Edipo, che voleva sfidare il destino assegnatogli e rivelatogli dall’oracolo di Delfi, ma finì per portarlo a compimento:  uccise il padre Laio e sposò la madre Giocasta.

Questi tentativi di superamento del divino da parte degli esseri umani sono ripresi sovente nel rinascimento, con anticipazioni tuttavia già  nel Medioevo, perché il primo è il periodo in cui avviene il cambiamento di prospettiva concettuale, gravido di conseguenze, dalla visione geocentrica a quella antropocentrica, che avalla l’idea dell’essere umano misura di tutte le cose. Questi tentativi animati da hybris si manifestano quindi attraverso la diffusione di scienze ermetiche come magia, astrologia, alchimia, tutte intese a promuovere contatti con forze angeliche e demoniache, ritenute quindi possibili interlocutrici degli esseri umani.

Rispetto alla figura del necromante antico però, quella del mago differisce poiché egli non tenta di evocare i demoni a fini malvagi, ma di coltivare la magia cosiddetta naturale per  dominare le forze della natura e utilizzarla secondo il volere e le necessità umane. La vicenda di Faust proposta da Goethe rappresenta un po’ la sfida degli alchimisti alla ricerca della pietra filosofale, ovvero di quell’assoluto che è rappresentato dalla pietra in grado di mutare qualsiasi metallo in oro, con il duplice significato, però, di un’esperienza interiore, ricercata e vissuta per fini di sviluppo spirituale. 

Inizialmente, nel mito di Faust, egli si ritrova insoddisfatto della sua esistenza esclusivamente dedita allo studio, essendo egli medico e teologo, e decide quindi di dedicarsi alle arti magiche, con cui cerca di appropriarsi dei segreti più profondi della natura e di evocare lo spirito elementare della terra. Non riuscendo però nel suo intento, prova a suicidarsi, ma il diavolo lo tenta con la proposta di esaudire tutti i suoi desideri grazie alla magia, in cambio della sua anima. Alla fine, dopo che tutti i desideri di Faust sono stati esauditi e sono anche sfociati in tragici avvenimenti e veri e propri disastri, il demone dell’Angoscia s’impadronisce del suo spirito, al punto che egli rimpiange la sua vita sprecata a cercare ciò che non doveva e a fare patti con il diavolo. Il mito di Faust ha però un finale inaspettato: al posto della dannazione eterna, il protagonista muore in pace grazie agli angeli che sottraggono la sua anima alle grinfie del diavolo e la riportano in paradiso, assicurando un lieto fine che invece la maggior parte degli antichi uomini dominati da hybris non ha avuto. Goethe, con quest’opera, peraltro non conclusa, sembra allora condurre il percorso di quel cercatore di assoluto che è il suo Faust nella direzione di una conclusione paradossale, che gli antichi avevano evitato o non avevano concepito: quella secondo cui l’assoluto non può che essere impersonato da Dio e che anche le strade del demonio, alla fine, portano a lui.

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