RIPASSO ITALIANO MODULO 2 LEOPARDI - edonista infelice - note aggiuntive su TESTI IN PROGRAMMA

Dal programma pubblicato sul doc del 15 maggio

MODULO 2: Leopardi.

Dettagli: L’infinito. A SilviaLe ricordanzeCanto notturno d’un pastore errante dell’Asia, La ginestra o il fiore del deserto, dalle Operette morali, Dialogo della Natura e di un Islandese, stralci da Zibaldone

VITA DI UN EDONISTA INFELICE (biografia con spunti alternativi rispetto a quella su cui avete studiato sul libro di testo)

Scelgo arbitrariamente di evocare alcune figure della biografia leopardiana, avvalendomi della ponderosa biografia scritta  da Pietro Citati nel 2010. Il padre, per cominciare: il conte Monaldo, nato a Recanati nel 1866 e qui rimasto per tutta la vita, salvo sporadici e inappaganti soggiorni romani, figlio del Settecento, pervaso di furori alfieriani e aneliti rousseauiani, ambizioso e narcisista, autore fra l’altro di un’Autobiografia piuttosto autocompiaciuta, critico delle opere del figlio Giacomo e in particolare delle Operette morali, intrise di un’irreligiosità che al suo spirito repelleva. Dotato di un cospicuo patrimonio, ma di sicuro non versato nell’amministrazione e nella speculazione, Monaldo perde poco dopo il matrimonio  e la nascita di Giacomo (Taldegardo Francesco Salesio Saverio Pietro è la sequenza dei nomi di battesimo) quasi tutti i beni, venendo quindi interdetto legalmente dall’amministrazione dei medesimi, addirittura per intervento del papa, che aiuta l’antica famiglia riducendo il tasso dei debiti contratti, ma appunto interdicendo il conte. Dopo l'interdizione di Monaldo,  è  la moglie ad assumere il controllo totale dell'assetto familiare, la marchesa Adelaide Antici, provvista di piccola dote e non apprezzata dalla famiglia Leopardi, come dimostra il fatto documentato che partecipi al matrimonio solo uno zio di lui. Donna bellissima, a detta dei contemporanei  e secondo una miniatura: occhi splendenti, capelli corti ricci biondo scuro, alta, dal portamento austero, folgora al primo sguardo Monaldo che se ne innamora perdutamente. I figli la vedono per anni sempre incinta (Giacomo ha nel corso degli anni 11 fratelli, ma sopravvivono arrivando all’età adulta solo in quattro, lui compreso, cioè Carlo, Paolina, i più longevi, e Pier Francesco, morto qualche anno dopo di lui all’incirca alla stessa sua età), internata volontaria nel palazzo che s’affaccia sulla piazza centrale di Recanati,  dal quale non esce quasi mai, incaricando la sorella di portare a passeggiare i figli e non recandosi che raramente, pur religiosissima,  a messa. Percorre la casa da padrona che ordina e comanda con abiti mascolini, cravattona intorno al collo, pantaloni infilati in stivali, gonna rivoltata al di sopra della vita, chiavi alla cintola a sottolineare appunto il potere padronale. Fanaticamente religiosa, trasforma (come ben sappiamo da Giacomo) la casa in una fortezza impenetrabile se non dall’occhio di Dio: né amici né lettere vi dovrebbero entrare o ne dovrebbero uscire, e ogni trasgressione è un dolore e una reprimenda. I figli che le muoiono, come pure tutte le malattie che infastidiscono la fanciullezza e persino quelle, invalidanti, che colpiscono Giacomo, vengono da lei percepite come “doni di Dio”, di cui rallegrarsi. A differenza di Monaldo, registra quest’ultimo nella sua Autobiografia, ma anche annota talora Leopardi nello Zibaldone, Adelaide non piange le morti né compiange le sofferenze dei figli, ma sostiene doversi ritenere tutto un segno di predilezione divina.
Giacomo nasce a Recanati, a nove mesi dal matrimonio fra Monaldo e Adelaide, venerdì  29 giugno 1798. Compagni di giochi dell’infanzia i fratelli Carlo e Paolina, che nascono a poca distanza da lui: con il primo si crea un sodalizio interiore che però il matrimonio di lui interromperà bruscamente. Tra i giochi prediletti dei fratelli, racconta lo stesso Giacomo nelle sue corrispondenze giovanili, servir messa e recitare le funzioni, ma anche imitazioni di battaglie e, quando la malattia inizia a costringerlo a lungo a letto, racconti inventati di epica ispirazione. Stando alle testimonianze, fino a 16 anni Giacomo gode di una salute discreta. Fra il 1814 e il 1817 si dedica allo studio, avvalendosi delle notevolissime risorse racchiuse nella biblioteca paterna, in modo particolarmente intenso, anche se nello Zibaldone con la famosa espressione studio matto e disperatissimo allude a un periodo  più esteso di almeno sette anni, iniziato dunque anche prima. Per quanto l’aneddotica abbia tessuto la storia di un Leopardi ammalatosi per l’eccessivo studio, più recenti indagini, condotte sui documenti dell’epoca, sugli scambi epistolari con il medico di casa e con altri dottori conosciuti in seguito dal poeta, hanno permesso di appurare ch’egli sia stato afflitto dalla terribile (ancor oggi) tubercolosi ossea, o morbo di Pott, malattia metamorfica, che crea all’interno dell’ospite un sistema appropriato al suo (della malattia) mantenimento e alla sua diffusione: blocca l’accrescimento (1 metro e 41 cm, nel suo caso), determina due simmetriche deformazioni ossee sulla schiena e sul petto, consente lo sviluppo dei femori, ma non quello della cassa toracica. Quindi, talvolta contemporaneamente, talvolta uno alla volta, la malattia manifesta sintomi variegati, coinvolgenti diversi organi e apparati: gli occhi, l’apparato digerente, quello respiratorio, il sistema cardiocircolatorio. La medicina del tempo non dà sollievi a Leopardi che, col tempo, impara a curarsi da solo, o meglio si adatta al terribile malanno al quale non può dare un nome e che anche lui tende almeno inizialmente a considerare come una punizione per aver troppo studiato.
Proseguo con le figure della biografia leopardiana. All’inizio del 1817 scrive la prima lettera a Pietro Giordani, di 23 anni più anziano di lui, autore di un panegirico di Napoleone legislatore e di uno ad Antonio Canova. Nelle lettere,  che  Leopardi seguita a  scrivere per anni a Giordani, risuonano confessioni, talvolta disperate, talaltra furibonde, richieste di consigli esistenziali e letterari, profonde riflessioni sull’arte e dichiarazioni d’intenti. Da parte sua Giordani dichiara fin dalla prima risposta di aver riconosciuto in Leopardi (all'epoca diciannovenne) il perfetto scrittore italiano. La ragione di questo giudizio, certo lungimirante, risale al fatto che il giovanissimo Giacomo, intriso di cultura classica, erudito e dottissimo, innamorato del Trecento, confida a Giordani di pensare che si potesse scrivere in italiano soltanto in quella lingua. Parole che risuonavano dolcemente alle orecchie di uno strenuo difensore del classicismo quale Giordani è. Leopardi prende ad amare in lui il maestro che lo inizia alla letteratura, unico scopo della sua vita, e le lettere sono numerose, fitte di dichiarazioni anche sentimentali. Alcune, soprattutto di risposta da parte di Giordani, vengono intercettate e fatte sparire da Monaldo, e naufraga miseramente un incontro fra i due a Recanati lungamente progettato e atteso soprattutto da Leopardi all’inizio dell’estate del 1818. A settembre  i due finalmente si incontrano, ma pochissimi giorni e all’ombra di Monaldo, poi riprende la corrispondenza epistolare che dura, fino ai primi anni Trenta quando entra nella vita di Leopardi l’ultimo amico, Antonio Ranieri. A Giordani Leopardi confida tra l’altro il desiderio di fuga che condisce e tormenta la sua esistenza dai diciott’anni in poi. Oppresso dal male agli occhi (manifestazione della tubercolosi), preda di malinconia e forse depresso, Leopardi medita inizialmente il suicidio (come giustamente sospettano i suoi fratelli, che cercano di controllarne gli atti) poi la fuga da Recanati. Attende comunque la maggiore età, i 21 anni, forza lo stipo paterno per prenderne denari e parte dopo aver scritto due lettere, una al padre e una al fratello Carlo. La lettera al fratello è dolce e affettuosa, quella al padre è un capolavoro di furore, amore, scherno, odio, retorica, strazio. La fuga non riesce, perché Leopardi si rivolge, per avere di nascosto il passaporto, a un funzionario amico di famiglia, assicurandogli che la richiesta viene rivolta col consenso del padre. Non si sa se per precauzione o per caso, l’amico invia a Monaldo auguri per la prossima partenza del figlio, sicché costui viene quasi subito a sapere dell’intento di fuga. Si fa quindi mandare il passaporto e recita di fronte al figlio la parte del padre molto rattristato ma liberale: il passaporto resta in un cassetto aperto, a sua completa disposizione. Come scrive Leopardi a Giordani, i mezzi per imprigionarlo ancora sono dei più apparentemente delicati ma più tenaci, e lui si sente legato al patibolo.
La vera partenza è dunque rimandata di due anni: nel novembre del 1822 Giacomo parte per Roma, restandoci poco più di un anno: il bilancio è un misto di delusione e di disgusto, che si protraggono per tutto il periodo, dopo la documentazione offerta dalla lettera al fratello Carlo. A disgustarlo sono gli intrallazzi e la superficialità mondana, che mette in pessima luce anche la letteratura e potrebbe arrivare a minare la sua passione per la medesima. Di altro tenore i viaggi successivi che lo portano a Milano e a Bologna nel 1825-26, Firenze e Pisa, '27 e '28 e, dopo un passaggio di un anno a Recanati, ancora a Firenze nel '30, dove conosce l’ultimo amico, il citato Antonio Ranieri, con il quale andrà a vivere a Napoli nel '33. Leopardi è, quando la salute glielo consente, un gran camminatore, sicché una delle sue attività predilette è percorrere le vie delle città in cui va ad abitare, senza vedere nulla, ma sempre pensando intensamente. Altra attività prediletta, la frequentazione di alcune persone, dalle quali viene affascinato e che sono affascinate da lui: una prima volta nel ’27 e poi nel ’30 a Firenze conosce appunto il napoletano Antonio Ranieri, nato nel 1806, esule  dal Regno delle Due Sicilie: è alto, biondo, colto, brillante, divertente, dotato di ingegno versatile e gran conversatore. I due iniziano ad abitare insieme dall’ottobre 1830. Nello stesso periodo Leopardi si innamora di Fanny Targioni Tozzetti, sposata con il notissimo medico e botanico Targioni Tozzetti, di sedici anni maggiore di lei, che probabilmente spasimava per Ranieri, il quale non la corrispondeva. Con Fanny, così racconta nelle lettere Leopardi a Ranieri, i due parlavano di lui...
A Napoli, nel 1833, con Ranieri, Leopardi vive un periodo relativamente felice: il clima sembra essere propizio alle sue condizioni fisiche, anche se la sua è una malattia che concede solo poche tregue. Cammina e mangia con piacere le paste dolci della tradizione napoletana; con Ranieri cambiano spesso casa, ma lui scrive ai familiare di stare particolarmente bene, perché il clima appunto lo favorisce. Riescono entrambi a passare indenni attraverso un’epidemia di colera che infuria nel 1836, ma il 14 giugno del 1837, senza alcun preavviso, la malattia gli assesta il suo ultimo colpo e il poeta muore dolcemente, senza agonia, con accanto Ranieri e la  sorella di lui, che reca lo stesso nome della sua, Paolina. 
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OPERE CON DATAZIONE

. Al periodo tra il 1818 e il 1822 risalgono Il discorso di un Italiano sopra la poesia romantica, e due canzoni di impostazione classicista, intitolate All’Italia e Sopra il monumento di Dante; scrive però anche i piccoli idilli L’infinito, Alla luna, La sera del dì di festa, La vita solitaria e le canzoni Ad Angelo Mai  Bruto Minore. L’ultimo canto di Saffo è del 1822.

. La prosa: nel 1824 ha già scritto 20 Operette morali.

. Tra il 1827 e il 1830 compone altre operette e, nel 1829 in particolare, i cosiddetti grandi idilli, A Silvia, Le ricordanze, Il sabato del villaggio, Il canto notturno di un pastore errante dell’Asia. Al 1836, anno della morte, risale La ginestra, sorta di testamento spirituale.

. Le note dello Zibaldone e i Pensieri accompagnano quasi  tutta l’esistenza di Leopardi.  

SUDDIVISIONE CONVENZIONALE DELLA VITA DI LEOPARDI

1)    All’inizio l’erudizione.

2)    Dall’erudizione al bello.

3)    La partentesi prosastica

4)    Il ritorno alla poesia che diventa “filosofica”

Altre suddivisioni convenzionali: dal pessimismo storico al pessimismo cosmico, natura matrigna e natura indifferente; esito finale della Ginestra: accettazione del destino e solidarietà fra esseri umani.

Non gli uomini solamente, ma il genere umano fu e sarà sempre infelice di necessità. Non il genere umano solamente ma tutti gli animali. Non gli animali soltanto ma tutti gli altri esseri al loro modo. Non gl’individui, ma le specie, i generi, i regni, i globi, i sistemi, i mondi. Entrate in un giardino di piante, d’erbe, di fiori. Sia pur quanto volete ridente. Sia nella più mite stagione dell’anno. Voi non potete volger lo sguardo in nessuna parte che voi non vi troviate del patimento. Tutta quella famiglia di vegetali è in istato di souffrance, qual individuo più, qual meno. Là quella rosa è offesa dal sole, che gli ha dato la vita; si corruga, langue, appassisce. Là quel giglio è succhiato crudelmente da un’ape, nelle sue parti più sensibili, più vitali. Il dolce mele non si fabbrica dalle industriose, pazienti, buone, virtuose api senza indicibili tormenti di quelle fibre delicatissime, senza strage spietata di teneri fiorellini. Quell’albero è infestato da un formicaio, quell’altro da bruchi, da mosche, da lumache, da zanzare; questo è ferito nella scorza e cruciato dall’aria o dal sole che penetra nella piaga; quello è offeso nel tronco, o nelle radici; quell’altro ha più foglie secche; quest’altro è roso, morsicato nei fiori; quello trafitto, punzecchiato nei frutti. Quella pianta ha troppo caldo, questa troppo fresco; troppa luce, troppa ombra; troppo umido, troppo secco. L’una patisce incomodo e trova ostacolo e ingombro nel crescere, nello stendersi; l’altra non trova dove appoggiarsi, o si affatica e stenta per arrivarvi. In tutto il giardino tu non trovi una pianticella sola in istato di sanità perfetta. Qua un ramicello è rotto o dal vento o dal suo proprio peso; là un zeffiretto va stracciando un fiore, vola con un brano, un filamento, una foglia, una parte viva di questa o quella pianta, staccata e strappata via. Intanto tu strazi le erbe co’ tuoi passi; le stritoli, le ammacchi, ne spremi il sangue, le rompi, le uccidi. Quella donzelletta sensibile e gentile, va dolcemente sterpando e infrangendo steli. Il giardiniere va saggiamente troncando, tagliando membra sensibili, colle unghie, col ferro. (Bologna, 19 Aprile 1826).

La noia è in qualche modo il più sublime dei sentimenti umani. Non che io creda che dall’esame di tale sentimento nascano quelle conseguenze che molti filosofi hanno stimato di raccorne, ma nondimeno il non potere essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, né, per dir così, dalla terra intera; considerare l’ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la mole maravigliosa dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l’universo infinito, e sentire che l’animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sì fatto universo; e sempre accusare le cose d’insufficienza e di nullità, e patire mancamento e voto, e però noia, pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana. Perciò la noia è poco nota agli uomini di nessun momento, e pochissimo o nulla agli altri animali. (Pensiero LXVIII)

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VOLUME 3A: pp. 2-38;  L’infinito, p. 38; A Silvia, p. 65, Le ricordanze, p. 73, solo strofe 1 e 7 (O  Nerina), Canto notturno d’un pastore errante dell’Asia, p. 93, solo strofe 1,5,6, La ginestra o il fiore del deserto, p. 120, solo strofe 1, 6-7 (Ben mille ed ottocento), dalle Operette morali, Dialogo della Natura e di un Islandese, p. 151.
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Per l'Infinito
Composto nel 1819 da un Leopardi ventunenne (ma pubblicato nel 1825 e unito ai Canti nel 1831), è un piccolo idillio in endecasillabi sciolti, forma metrica prediletta da Leopardi, tanto nelle forme brevi come questa, quanto in quelle lunghe dei grandi idilli. Il genere idillico ha un'antica origine: il poeta ellenistico (III secolo a. C.) Teocrito, modello di Virgilio (I secolo a. C.)  per le sue Bucoliche, ne è il creatore. Gli idilli teocritei sono poesie epigrammatiche di varia lunghezza, dedicate a tematiche in prevalenza amorose, ambientate in contesti pastorali e agresti. In Leopardi è presente  tale componente, in maniera variata, in tutti gli idilli, sia i piccoli sia i grandi. Nel caso dell'Infinito, la natura è in effetti una presenza costante, fin dal primo verso  che recita Sempre caro mi fu quest'ermo colle, attraverso il quale il poeta esprime un sentimento del tutto soggettivo, affettivo, nei riguardi di un colle solitario e del paesaggio che in pochi versi si delinea come una sorta di luogo del cuore: e questa siepe, che da tanta parte dell'ultimo orizzonte il guardo esclude. La risonanza idillica, con l'ambientazione naturale qui evocata, funge, già a partire da questo terzo verso, da punto di partenza per una riflessione universale, per uno slancio nella direzione dell'assoluto. Il poeta infatti, sedendo e mirando, attiva l'immaginazione, la quale si spinge ben oltre l'iniziale rappresentazione sentimentale del paesaggio, dilatando la prospettiva  e predisponendola addirittura  all'infinito: sono interminati spazi, sovrumani silenzi e profondissima quiete quelli che promuovono un'emozione quasi sovrastante per il cuore  del poeta, il quale (per poco, precisa) non si spaura. L'infinito, se ne può iniziare a evincere, è spaventoso, è un segreto nascosto e pauroso dal quale gli esseri umani sono tuttavia attratti. L'idillio  torna fugacemente alla sua prima ambientazione: il poeta ode lo stormire delle fronte, ma la parentesi realistica è fugace, l'immaginazione prende di nuovo il sopravvento e l'infinito solo fugacemente accennato diventa il protagonista degli ultimi versi. L'immensità dell'infinito è sintesi spazio-temporale, è l'aleph borgesiano, in cui le morte stagioni, e la presente e viva sono compresenti, compongono insieme la stessa musica. Di fronte a questa, che i poeti simbolisti coglierebbero e esprimerebbero come un'epifania, non resta che dolcemente naufragare
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Per A Silvia
Elencato come grande idillio, composto nel 1828, è una canzone in  strofe libere dedicata a una figura femminile, identificata con Teresa Fattorini, figlia di un cocchiere di casa Leopardi, che nella poesia è in parte evocata come un amore giovanile del poeta, essendo però fondamentalmente il simbolo di uno dei suoi temi prediletti. Tale funzione simbolica di Silvia è resa esplicita fin dal primo verso: il poeta si rivolge a lei, Silvia, con un'interlocuzione condotta attraverso il verbo poeticissimo (il riferimento va all'elenco di parole poetiche proposto nello Zibaldone) rimembri: la dimensione del ricordo, infatti, è quella in cui tutto si trasfigura, anche il dolore, diventando appunto poesia pura, parola filtrata dal sentimento e di esso intrisa. A Silvia è richiesto di ricordare quel tempo della tua vita mortale in cui bellezza, unita ad aspettative del futuro, splendeva nei suoi occhi. Il simbolo è già totalmente palesato: si tratta dell'illusione con cui la natura inganna i mortali, predisponendoli originariamente a gustare una felicità che, in maniere variate per ognuno, viene negata. L'idillio riprende nelle strofe seguenti momenti di vita che coinvolgono, oltre a Silvia, il poeta medesimo: mentre l'una riempie le stanze del suo canto e si muove operosa, l'altro fatica a distogliersi dalle sudate carte cui dedica la miglior parte del suo tempo, ma non manca di affacciarsi ai veroni del paterno ostello (i balconi della casa paterna) per godere della voce di Silvia e di qualche fuggevole visione di lei. Si predispone così  l'esplicitazione anche filosofica (nel senso che il termine acquista nel contesto dei grandi idilli leopardiani) del simbolismo associato a Silvia: lei, come il poeta in quel tempo felice della giovinezza, avevano il cuore pieno di speranze, di passioni, si sentivano vivi. Tra una strofa e l'altra, a questo punto, si scava un abisso, dal quale sorge la presenza paurosa di una natura che non mantiene nessuna delle sue promesse, così che le speranze, i cori che riempivano di sé i due giovani vengono travolti da quello che alcune strofe dopo, quasi in conclusione, viene nominato come l'apparir del vero. La rivelazione filosofica del canto leopardiano consiste in questo: Silvia, con la sua breve esistenza stroncata precocemente da una malattia (lo si comprende, a parte le associazioni biografiche, dall'immagine finale di lei che indica la propria tomba), rappresenta  l'inanità sostanziale di quelle che ci si ostina a definire speranze, le quali altro non sono che (belle, questo sì) illusioni, destinate infallibilmente (il poeta ne è sicuro) a essere disilluse. 
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